
eBook - ePub
L'ultimo vagabondo americano
- 224 pagine
- Italian
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L'ultimo vagabondo americano
Informazioni su questo libro
L'ultimo vagabondo americano raccoglie una serie di racconti, editi e non, uniti da un tema comune: il viaggio. Attraverso gli USA da un oceano all'altro, tra Messico e Marocco, Parigi e Londra, Kerouac racconta tutta l'emozione e la bellezza di una vita "on the road": in piedi su una locomotiva che sfreccia tra deserti coperti di cactus, ebbro d'oppio a un combattimento di tori, in meditazione sui tetti assolati di Tangeri. O semplicemente innamorato di Montmartre e della sua bianca basilica. In ogni situazione il profeta della Beat Generation scopre l'immensa varietà del mondo e della natura umana, e la canta in una prosa che è pura poesia.
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Informazioni
Print ISBN
9788804498483eBook ISBN
9788852016707La terra della ferrovia
C’era un vicoletto di mattoni rossi a San Francisco dietro alla stazione della Southern Pacific all’incrocio della Terza con la Townsend di pigri pomeriggi sonnolenti con tutti al lavoro negli uffici e nell’aria si percepisce la furia incalzante della loro frenesia di pendolari che fra poco caricheranno en masse dagli edifici della Market e della Sansome a piedi e in autobus e tutti ben vestiti attraverso la Frisco degli operai, in ascesa?? dei camionisti e pure della povera sudicia malfamata Terza Strada di barboni spaesati e di negri disperati che da tempo hanno abbandonato l’Est e il significato stesso della responsabilità e adesso tutto quello che hanno trovato è stare lí a sputare nel bicchiere rotto, alle volte ce ne sono cinquanta in un pomeriggio appoggiati al muro all’incrocio della Terza e della Howard e qui ci sono tutti questi incravattati di Millbrae e di San Carlos produttori e pendolari della civiltà dell’America e dell’Acciaio che si affrettano con il «San Francisco Chronicle» e il verde «Call-Bulletins»,1 non hanno tempo neanche per essere sdegnosi, devono prendere il 130, 132, 134, 136 e su fino al 146 sino all’ora di cena in case della terra della ferrovia quando alte nei cieli le stelle magiche cavalcano sopra i lucidi treni merci sfreccianti. – È tutto in California, è tutto un mare, io ne vengo fuori nei pomeriggi di meditazione rovente nei miei jeans e con la testa sul fazzoletto appoggiato sulla lanterna dei frenatori ferroviari o (se non lavoro) sui libri, guardo il cielo blu di una perfetta purezza-perduta e sento il curvarsi del legno della vecchia America sotto di me e faccio delle conversazioni folli con i negri affacciati sopra di me alle finestre dei vari piani e tutto mi compenetra, i movimenti a intermittenza dei vagoni merci in quel vicoletto cosí simile ai vicoli di Lowell e sento lontano nella notte che avanza la locomotiva che lancia il suo richiamo alle nostre montagne.
Ma era quel bellissimo banco di nuvole che potevo vedere sempre sopra al vicoletto della SP,2 cirri che galleggiavano nell’aria da Oakland o dalla Porta di Marin a nord o da San José a sud, la limpidezza della California ti spezza il cuore. Era il fantastico pomeriggio sonnolento e noioso con niente da fare, la vecchia Frisco con la sua tristezza da fine della terra – la gente –, il vicolo pieno di camion e macchine delle attività commerciali dei dintorni e nessuno sapeva o si preoccupava di sapere chi fossi, tutta la mia vita a cinquemilaseicento chilometri dal mio luogo di nascita, Oh, mi si apriva davanti e finalmente mi apparteneva nella Grande America.
Adesso è notte nella Terza Strada, le vivide piccole luci al neon e le lampadine gialle di albergacci inimmaginabili con ombre scure rovinate che si muovono dietro alle persiane come in una Cina degenerata senza soldi – i gatti del vicolo di Annie, i falliti arrivano, gemono, si rotolano, la strada è carica di oscurità. Piú su il cielo blu e le stelle alte sopra i vecchi tetti degli alberghi e gli sfiatatoi che sputano fuori la polvere degli interni con un lamento, il sudiciume dentro la parola in bocche che si sfasciano dente dopo dente, le stanze per la lettura dal grande orologio tic tac con sedie cigolanti e tavoli che pendono di lato e vecchie facce che guardano da sopra gli occhiali con montatura a giorno comprati in qualche monte dei pegni della West Virginia o della Florida o di Liverpool in Inghilterra molto prima che io nascessi e che sono arrivati di pioggia in pioggia alla fine della tristezza della terra fine della gioia del mondo San Francisco prima o poi alla fine dovrai cadere e bruciare di nuovo. Ma una notte mentre camminavo un barbone è caduto dentro la buca dei lavori in corso dove durante il giorno i forzuti giovanotti in jeans consunti della Pacific & Electric che ci lavorano stavano aprendo una fognatura, spesso penso di andare da qualcuno di loro diciamo un biondo con i capelli arruffati e la camicia sdrucita e dire: “Devi fare domanda alle ferrovie è un lavoro molto piú semplice non si sta in strada tutto il giorno e si becca una paga migliore” ma questo barbone era caduto nella buca, gli si vedeva uscire un piede, una volta anche una MG inglese guidata da un eccentrico è finita nel buco mentre faceva retromarcia e quando sono tornato a casa da un lungo sabato pomeriggio passato su un locale per Hollister via San José, a chilometri di distanza oltre i rigogliosi campi di prugne e di succosa felicità ho trovato questa MG inglese ribaltata nella buca con le ruote per aria con barboni e poliziotti che bazzicavano proprio fuori dal caffè – è accaduto per come avevano eretto la palizzata ma lui non avrebbe mai avuto il fegato di farlo dato che non aveva né soldi né un posto per dormire e Oh il padre era morto e Oh la madre era morta e Oh la sorella era morta e Oh i suoi luoghi erano morti erano morti. – Ma d’altronde a quel tempo anch’io stavo sdraiato nella mia camera per lunghi pomeriggi il sabato ascoltando Jumpin’ George con il mio quartino di tocai, niente erba e ridendo sotto le lenzuola a sentire la musica pazza Mama, he treats your daughter mean. Mamma, papà, non venite qui dentro vi uccido eccetera stravolgendomi da solo nell’oscurità della stanza e tutto l’eccezionale sapere dei negri, quintessenza degli americani, sempre alla ricerca di conforto e di significato nella strada fellaheen e non nell’astratta moralità e anche quando c’è una chiesa si vede il pastore fuori sul sagrato chino e galante verso le signore la domenica pomeriggio sugli assolati marciapiedi si sente la sua bella voce calda densa di vibrati sensuali che dice «Perché sí signora ma il Vangelo dice che l’uomo è nato dal ventre della donna – » a ogni modo a quel tempo scivolavo fuori dal mio sacco a pelo caldo e arrivavo in strada quando capivo che le ferrovie non mi avrebbero chiamato fino alle cinque del mattino di domenica probabilmente per un locale da Bayshore infatti era sempre per un locale da Bayshore e allora andavo nel bar piú pazzo di tutti i bar pazzi del mondo l’unico e inimitabile all’angolo tra la Terza e la Howard e ci entravo e bevevo con i pazzi e se mi ubriacavo sgommavo via.
La lucciola che mi ha rimorchiato la sera che ero là con Al Buckle mi ha detto «Hai voglia di fare le capriole con me stanotte Jim?» io non pensavo di avere abbastanza soldi e dopo l’ho raccontato a Charley Low e lui si è messo a ridere e ha detto «Come fai a sapere che voleva dei soldi provaci sempre potrebbe essere in giro solo perché ha voglia di dare amore o di riceverne mi capisci vecchio mio non fare il gonzo». Era una bella bambola e mi ha detto «Ehi bello, che ne dici di un po’ di su e giú?» e io sono rimasto lí come un fesso e mi sono preso da bere e difatti quella notte mi sono ubriacato e al Club 299 sono stato menato dal proprietario i musicisti ci hanno separati prima che io potessi decidere se dargliele indietro o no cosa che non ho fatto e fuori sulla strada ho provato a rinfilarmi dentro ma loro avevano sprangato la porta e mi guardavano da dietro ai vetri a me proibiti con facce come se fossero sott’acqua – avrei dovuto spassarmela con quella shurro-uruuruuruuruuruuruurkdiei.
Nonostante facessi il frenatore e guadagnassi seicento al mese continuavo ad andare al Public Restaurant in Howard Street che serviva tre uova per ventisei centesimi due per ventuno con pane tostato (quasi senza burro) caffè (quasi senza caffè e zucchero razionato) farina d’avena con una spruzzata di latte e di zucchero la puzza di vecchie camicie sudate aleggiante nel vapore della cucina come se stessero preparando uno stufato da taglialegna malfamati con la ricetta delle antiche lavanderie cinesi di San Francisco piene di muffa dove si giocava a poker nel retro fra i barili e i topi dei giorni del terremoto, ma a dire il vero il cibo era piú o meno al livello di quello preparato dall’addetto al servizio mensa di un vecchio campo di boscaioli del lontano Nord nel 1890 o nel 1910 insieme a un cinese vecchio stampo con il codino che maledice tutti quelli a cui non piace. I prezzi erano incredibili ma una volta ho preso uno stufato di manzo ed era in assoluto lo stufato peggiore della mia vita, indescrivibile, vi dico – e siccome capitava spesso che mi facessero questo, con il piú intenso dispiacere ho provato a far capire al tizio dietro al bancone cosa volessi ma quello era un gran figlio di puttana, ecc-ti-ti, pensavo che l’uomo del bancone fosse frocio da come trattava quei disperati ubriachi e bavosi, «Ma che fai, pensi di poter venire qui e comportarti cosí, comportati da uomo perdio o mangi o te ne vai-i-i-i-». – Mi sono sempre chiesto cosa ci facesse un tipo cosí a lavorare in un posto come quello a meno che nel suo cuore arido non si nascondessero delle simpatie per quei disgraziati, su e giú per la strada c’erano ristoranti come il Public che servivano esclusivamente poveracci neri e alcolizzati senza soldi che con i ventuno centesimi che gli rimanevano dopo essersi bevuti tutta l’elemosina entravano barcollando a toccare cibo per la terza o quarta volta in una settimana, alle volte non mangiavano affatto e li vedevi nell’angolo a vomitare del liquido bianco che altro non era che un paio di litri di sauternes torcibudella rancido o di sherry bianco dolce e non avevano niente nello stomaco, molti di loro avevano una gamba sola o avevano le stampelle e i piedi fasciati, avvelenati dall’alcol e dalla nicotina insieme, e una volta nella parte alta della Terza vicino alla Market dall’altro lato di Breens, quando all’inizio del 1952 vivevo nel quartiere di Russian Hill e non mi piaceva proprio tutto l’orrore e l’umorismo della zona della stazione della Terza Strada, un barbone piccolo magro e malaticcio che assomigliava ad Anton Abraham giaceva a faccia in giú sul marciapiede con le stampelle di fianco e dei vecchi pezzi di giornale che sporgevano e mi sembrava fosse morto. Mi sono avvicinato per vedere se respirava e non lo faceva, insieme a me stava guardando un altro tizio e a tutti e due ci è sembrato morto e poco dopo è arrivato un poliziotto e ha dato un’occhiata ed è stato d’accordo con noi e ha chiamato il furgone, quel disgraziato sarà pesato trenta chili in tutto ed era rigido come uno stoccafisso morto freddo stecchito – te lo dico io – e chi lo avrebbe potuto notare se non degli altri barboni mezzi morti barboni barboni morti morti un numero X di volte un numero X di volte tutti morti barboni morti per sempre senza nulla e totalmente andati – lí. – E questi erano i clienti del Public Restaurant dove la mattina andavo spesso a farmi tre uova con pane tostato quasi secco e un po’ di farina d’avena e caffè fiacco sciacquatura di piatti per prima colazione, il tutto per risparmiare quattordici centesimi e poterlo annotare orgogliosamente nel mio taccuino alla fine della giornata e provare che lavorando sette giorni alla settimana e guadagnando seicento al mese potevo vivere comodamente in America con meno di diciassette dollari alla settimana il che sommato all’affitto di quattro e venti andava bene dato che qualche volta dovevo spendere dei soldi per mangiare e dormire dalla parte opposta del mio viaggio forzato a Watsonville sebbene la maggior parte delle volte preferissi dormire gratis e scomodo nei miseri vagoni del personale – la colazione da ventisei centesimi, il mio orgoglio. – E quell’incredibile tizio semifrocio al bancone che serviva il cibo, te lo tirava sbattendotelo davanti, ti guardava dritto negli occhi con l’espressione franca e languida di una cameriera degli anni Trenta protagonista di un romanzo di Steinbeck e al bancone scaldavivande lavorava freddamente un cinese che sembrava un tossico con in testa una calza come se lo avessero appena prelevato di prepotenza ai margini di Commercial Street prima che fosse costruito il Ferry Building ma dimenticavo che eravamo nel 1952, sognavo di essere nella Frisco della febbre dell’oro del 1860 – e nei giorni di pioggia ti sembrava che nella stanza sul retro ci tenessero delle navi.
Facevo passeggiate su per la Harrison con il rombo del traffico dei camion diretti verso le gloriose architravi dell’Oakland Bay Bridge che potevi vedere, dopo esserti arrampicato un po’ sulla collina della Harrison, simile a una macchina radar dell’eternità enorme nel cielo blu attraversato da nuvole candide, gabbiani, macchine idiote che sfrecciavano verso il loro destino sulle sue arcate sopra alle acque agitate da venti e da notizie di tempeste da San Rafael e da battelli veloci. – Andavo sempre a passeggiare lí di pomeriggio e a venire a patti con le varie Frisco che dominavo dalle colline sovrastanti la Fillmore da dove si possono vedere le navi dirette in Oriente durante le sonnolente mattine domenicali di rilassate partite a biliardo dopo una notte intera passata a suonare le percussioni in una jam session e la mattina trascorsa in sala biliardo, andavo da ricche vecchie signore assistite da figlie o da segretarie con case dagli immensi orridi doccioni, le facciate di altri tempi dei milionari di Frisco, e proprio lí sotto il passaggio blu del Golden Gate, le scogliere matte di Alcatraz, le bocche di Tamalpais, San Pablo Bay, Sausalito sonnacchiosa che si staglia contro il profilo degli scogli e dei boschi in lontananza e le tenere navi bianche che tracciano con chiarezza la scia verso Sasebo. – Su per la Harrison e giú all’Embarcadero e in giro per Telegraph Hill e su alle spalle di Russian Hill e giú nelle strade festaiole di Chinatown e giú per la Kearney e indietro lungo la Market sino alla Terza e al destino sfavillante di neon della mia notte brava, ah, per poi finire nell’alba di una domenica mattina e mi hanno chiamato veramente, le arcate immense dell’Oakland Bay Brigde mi perseguitano ancora e tutta quell’eternità, troppa da inghiottire senza sapere assolutamente chi sono, come un bambinone grassottello dai capelli lunghi che si sveglia nella notte domandandosi chi sono qualcuno bussa alla porta è il portiere dell’albergaccio con la montatura d’argento e i capelli bianchi e i vestiti puliti e la pancia da malato, ha detto di essere delle Montagne Rocciose e ne ha tutta l’aria, aveva fatto il portiere al Nash Buncome Association Hotel per cinquanta roventi estati di seguito, senza sole, solo le palme nane nella hall e i mozziconi di sigaro nelle réclame del Sud e lui con l’adorata madre che aspetta in una casetta di legno sepolta fra le memorie con tutto quel passato divenuto storia mescolatosi sottoterra con l’odore dell’orso il sangue dell’albero e i campi di mais arati in profondità e i negri le cui voci sono da lungo svanite dal folto dei boschi e il cane che ha esalato il suo ultimo guaito, anche quest’uomo aveva viaggiato verso la West Coast come tutti gli altri americani affrancati ed era pallido e aveva sessant’anni e si lamentava degli acciacchi, un tempo poteva essere anche stato un cavalier servente di bell’aspetto per donne senza soldi ma ora era un impiegato dimenticato e magari era stato per un po’ in galera a causa di qualche contraffazione o di qualche raggiro di poco conto e poteva essere stato anche un impiegato delle ferrovie e poteva aver pianto e poteva non avercela mai fatta e direi che quel giorno ha visto come me le arcate del ponte dalla collina sopra al traffico della Harrison e si è svegliato con lo stesso smarrimento, ora è lí che mi fa dei cenni dalla porta e mi getta il mondo addosso e se ne sta sul tappeto sfilacciato della sala d’attesa tutto consumato dalle impronte nere degli ultimi quarant’anni – dai giorni del terremoto – dei vecchi incavati e il bagno è sporco, oltre l’ultima tazza e l’ultima puzza e macchia capisco che c’è la fine del mondo la fottuta fine del mondo, cosí ora bussa alla porta e io mi sveglio e dico «Machecazzodicasino è mai questo che non si può dormire? Checazzo di bordello state facendo alla mia porta nel cuore della notte quando tutti sanno che non ho né madre né sorella né padre né fratello e niente casa» mi sveglio e mi siedo e dico «Cooosaaa?» e quello dice «Telefono?» e mi infilo i jeans appesantiti da coltello, portafoglio, guardo da vicino l’orologio da ferroviere appeso alla piccola anta traballante dell’armadio che ticchetta silenziosamente rivolto verso di me e segna le quattro e trenta di domenica mattina, scendo sul tappeto della malridotta sala d’attesa con su i jeans e senza maglietta e le code di una camicia da lavoro grigia a penzoloni e sollevo il telefono vicino a guardiola e sputacchiera e chiavi appese e pile di vecchi asciugamani puliti ma sfilacciati alle estremità con su i nomi di tutti gli alberghi da cui sono spariti, al telefono c’è il capoturno, «Kerroway?». «Haha.» «Kerroway è per il locale di Sherman alle sette, stamattina.» «Il locale di Sherman, va bene.» «Quello da Bayshore, conosci la strada?» «Haha.» «È lo stesso lavoro di domenica scorsa – Va bene Kerroway-y-y-y-y.» E riattacchiamo insieme e mi dico okay è il treno di Bayshore dannato vecchio zozzo litigioso pazzo e rispettato Sherman che mi odia un tot specialmente quando siamo al nodo ferroviario di Redwood ad agganciare vagoni merci e lui insiste sempre a farmi lavorare in coda sebbene per me con un anno di anzianità sarebbe piú facile stare dietro la locomotiva ma lavoro sul retro e lui vuole che stia lí con un cuneo di legno quando un vagone o una fila di vagoni si ferma rinculando, in modo da evitare che i vagoni rotolino lungo il pendio provocando catastrofi, Oh be’, a ogni modo alla fine imparerò ad amare le ferrovie e un giorno sarò simpatico a Sherman, e comunque un altro giorno un altro dollaro.
E c’è la mia stanza, piccola, grigia nella domenica mattina, adesso tutta la frenesia della strada e della notte precedente è finita, i barboni dormono, uno o due magari stravaccati sul marciapiede con le bottiglie vuote appoggiate ai davanzali – la mia mente turbina di vita.
Cosí eccomi all’alba nella mia cella buia – ancora due ore e mezzo prima di dovermi infilare l’orologio da ferroviere nel taschino dei jeans e uscire concedendomi esattamente otto minuti per arrivare alla stazione e prendere il treno n. 112 delle sette e un quarto per la corsa di otto chilometri fino a Bayshore sotto quattro gallerie, emergendo improvvisamente dalla triste frenesia di Frisco, uggiosa nella mattinata piovosa e nebbiosa, in una valle dalle colline severe che si ergono sul mare, la baia sulla sinistra, la nebbia che penetra rotolando come impazzita nei corridoi tra le bianche villette a schiera predisposte con gusto estetico-immobiliare per le tristi lucine blu del Natale in arrivo – tutto il mio animo e i miei occhi guardano in concomitanza questa realtà di lavoro e di vita a San Francisco con quel piacevole brivido semilocalizzato-nei-lombi, energia per sesso che alle porte del lavoro e della cultura si trasforma in dolore e naturale timore velato. – Sono lí nella mia stanzetta a domandarmi come ho fatto a illudermi che le due ore e mezzo che mancano saranno ben spese, nutrite di pensieri piacevoli e di lavoro. – È cosí elettrizzante sentire il freddo della mattina avvolgere le spesse trapunte imbottite mentre sto sdraiato, l’orologio di fronte a me che ticchetta, le gambe allungate nelle comode morbide lenzuola malandate con piccoli strappi e rammendi, accucciato nella mia stessa pelle e ricco e senza spendere un centesimo – guardo il mio taccuino – e mi fisso sulle parole della Bibbia. – Trovo sul pavimento la pagina rossa dello sport dell’edizione pomeridiana del «Chronicle» del sabato con gli articoli sulle partite di football della Grande America di cui leggo a stento la fine nella luce grigia che entra. – Il fatto che Frisco sia costruita in legno mi dà pace, so che nessuno mi disturberà per due ore e mezzo e che tutti i barboni stanno dormendo nel loro letto di eternità svegli o no, ubriachi o no – quello che conta per me è la gioia che provo. – Le scarpe sono sul pavimento, scarponi da lavoro da boscaiolo per arrampicarsi sopra i letti di roccia senza prendersi una storta – scarpe solide che, come il giogo, quando te le metti sai che stai lavorando e che per questo motivo non devono essere consumate per nessuna altra ragione tipo andare al ristorante o a vedere degli spettacoli. – Le scarpe della notte precedente sono sul pavimento di fianco alle scarpe da lavoro, un paio di scarpe di tela blu stile 1952 con cui ho camminato leggero come un fantasma sui marciapiedi delle colline frastagliate di Oh Mia Frisco per tutta la notte scintillante, a un certo punto dalla cima della Russian Hill ho guardato giú verso i tetti di North Beach e i neon delle discoteche messicane, gli sono sceso incontro per la vecchia scalinata della Broadway sotto la quale stanno scavando un nuovo tunnel – scarpe adatte ad acqua, embarcaderos, colline e prati di parco e panorami di prim’ordine. – Scarpe da lavoro coperte di polvere e di olio di macchina – i jeans accartocciati lí accanto, cintura, fazzoletto blu da ferroviere, coltello, pettine, chiavi, chiavi per gli scambi e chiave per il vagone del personale, le ginocchia bianche per la sabbia fine del letto del fiume Pajaro, il culo nero per le sabbiere viscide deposito dopo deposito – i pantaloncini da lavoro grigi, la canottiera sporca, le mutande tristi, i torturati calzini della mia vita. – E la Bibbia sullo scrittoio accanto al burro di arachidi, la lattuga, il pane con l’uva passita, la crepa dell’intonaco, la tenda di merletto rigida-di-vecchia-polvere non piú un pizzo ma dura come – irrigiditasi dopo tutti quegli anni di eternità polverosa in quel malconcio alberghetto, il Cameo, con gli occhi rossi di vecchi reumatici che muoiono con lo sguardo senza speranza fisso sul muro esterno difficile da vedere attraverso i vetri impolverati e tutto quello che si è sentito ultimamente dal comignolo in mezzo al tetto sono state le grida di un bambino cinese a cui i genitori dicevano sempre di smetterla e poi gli urlavano, una peste e le sue lacrime dalla Cina erano le piú persistenti e universali e rappresentavano tutti i nostri sentimenti verso il cadente Cameo sebbene non fosse ammesso nessun rumore fatta eccezione per un occasionale roco schiarimento di voce nella hall o qualche lamento per un incubo – per cose di questo genere e per la negligenza di una cameriera dagli occhi duri di alcol che in passato era stata una ballerina di fila le tende erano state stirate fino all’impossibile e pendevano rigide e anche la polvere che le ricopriva era stata stirata, se qualcuno le avesse scosse si sarebbero rotte e sarebbero cadute a brandelli sul pavimento schizzando come ali di ferro su un gong e la polvere gli sarebbe entrata nel naso come limatura di acciaio facendolo morire per asfissia, perciò io non le toccavo mai. La mia stanzetta al 6 nell’alba confortevole (alle quattro e mezzo) e davanti a me tutto questo tempo, il tempo, riposato e fresco, per un po’ di caffè, per far bollire l’acqua sul fornellino, gettarvi dentro del caffè, mescolare, alla francese, e versarlo lentamente facendo attenzione nella tazza di latta bianca, metterci lo zucchero (non lo zucchero di barbabietola della California che avrei dovuto usare ma quello di canna di New Orleans, a causa dei carichi di barbabietole che ho trasportato da Oakland a Watsonville un sacco di volte, un treno merci di ottanta vagoni con su nient’altro che cassoni carichi di tristi barbabietole che sembravano teste di donne decapitate). – Povero me, era un inferno ma adesso non avevo di che lamentarmi, e tosto il pane con l’uvetta su di un fil di ferro che ho piegato appositamente per poterlo tenere sul fornellino, la fetta tostata sta diventando croccante, allora, mentre è ancora calda ci spalmo sopra la margarina che si scioglie e si indora tra le uvette bruciacchiate, eccolo il mio toast. – Quindi due uova fritte a fuoco lento nella margarina fusa dentro la padellina malandata spessa meno della metà di un...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- L’ultimo vagabondo americano
- Presentazione dell’autore
- Moli della notte vagabonda
- Fellaheen del Messico
- La terra della ferrovia
- Gli sciattoni del Mar della cucina
- Scene di New York
- Solo sulla cima di una montagna
- Grande viaggio in Europa
- Il tramonto dell’hobo americano
- Copyright