Imperium
eBook - ePub

Imperium

  1. 350 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Tra i grandi personaggi dell'antica Roma, nessuno è stato più geniale e controverso di Marco Tullio Cicerone. Eppure ben pochi avrebbero scommesso sul suo futuro quando, all'età di ventisette anni, scelse di lanciarsi nell'infido e violento mondo della politica, deciso a raggiungere con ogni mezzo l'imperium, il sommo potere statale. A raccontare la sua straordinaria vicenda umana è in queste pagine il fedele Tirone, il segretario particolare sempre al suo fianco nei momenti più radiosi e in quelli più difficili, testimone dei suoi incontri privati e latore dei suoi messaggi segreti.
Robert Harris ci consegna un ritratto di Cicerone ben diverso dal personaggio solenne che noi conosciamo. Imperium è un grande romanzo che ci svela i retroscena di una realtà fatta di intrighi e di corruzione, singolarmente affine alla nostra. Un affresco ricchissimo e drammatico che mette a nudo i meccanismi della lotta per il potere e le componenti dell'ambizione politica, una rigorosa ricostruzione storica da leggere come un thriller appassionante.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804578314
eBook ISBN
9788852015298
Argomento
Letteratura
Parte prima

GLI ANNI DA SENATORE

79-70 a.C.
Urbem, urbem, mi Rufe, cole et in ista luce vive!
(A Roma, resta a Roma, Rufo mio, e vivi in quella luce!)
CICERONE, lettera a Celio, 26 giugno 50 a.C.

I

Mi chiamo Tirone. Per trentasei anni ho svolto l’incarico di segretario particolare di un uomo politico romano, Cicerone. Un lavoro, il mio, all’inizio entusiasmante, poi via via sorprendente, difficile e verso la fine terribilmente pericoloso. In tutti questi anni credo che lui abbia trascorso più ore con me che con qualsiasi altra persona, familiari inclusi. Sono stato testimone dei suoi incontri privati, latore dei suoi messaggi segreti. Ho trascritto i suoi discorsi, le sue epistole e le sue opere letterarie, perfino le sue poesie: un fiume di parole per il quale sono stato costretto a inventarmi ciò che si chiama stenografia, un sistema tuttora usato per registrare le delibere del Senato e grazie al quale mi viene da qualche tempo erogata una modesta pensione. Con questo vitalizio, oltre a qualche piccolo lascito e alle generose attenzioni di alcuni amici, riesco a mantenermi dignitosamente da quando ho smesso di lavorare. Non ho particolari necessità. I vecchi vivono di aria, e io sono molto vecchio, ho quasi cent’anni: così almeno si dice.
Più di una volta, da quando lui è morto, mi sono sentito sussurrare la domanda: “Che tipo era veramente Cicerone?”. Non ho mai risposto, però: va’ a sapere chi è una spia al soldo del governo e chi invece non lo è. E da allora mi sono sempre aspettato di venire proscritto da un momento all’altro. Ma ora che la mia vita è quasi al termine e non temo più nulla – nemmeno la tortura, perché tra le mani del carnefice e dei suoi aiutanti non resisterei nemmeno un minuto – ho deciso di rispondere alla domanda con questo lavoro, che si basa sulla mia memoria oltre che sui documenti all’epoca affidatimi. Il tempo a mia disposizione è inevitabilmente scarso, quindi ho deciso di scrivere in fretta usando il mio sistema stenografico su alcune dozzine di rotoli della carta papiro più raffinata, la hieratica addirittura, che a tale scopo ho cominciato a mettere da parte tanto tempo fa. Chiedo scusa in anticipo per gli errori e per le espressioni stilisticamente infelici. E prego gli dèi che mi permettano di concludere prima di arrivare alla mia fine. Con le sue ultime parole Cicerone mi chiese di dire la verità su di lui, ed è ciò che mi sforzerò di fare. E se il ritratto che ne traccerò non risulterà un modello di virtù, pazienza. I tanti vantaggi che a un uomo derivano dal potere raramente contemplano un paio di mani pulite.
È proprio del potere e dell’uomo che racconterò. E per potere intendo quello ufficiale, politico, in una parola l’imperium: il potere di vita e di morte che lo Stato attribuisce a un individuo. Diverse centinaia di uomini lo hanno inseguito, ma Cicerone occupa un posto speciale nella storia della Repubblica per averlo cercato e ottenuto avvalendosi del suo talento come unica risorsa. A differenza di Metello o di Ortensio non discendeva da una grande famiglia aristocratica e non poteva quindi vantare favori politici fatti dai suoi antenati. A differenza di Pompeo o di Cesare non aveva alle spalle legioni per legittimare la propria candidatura. A differenza di Crasso non poteva contare su enormi ricchezze. Aveva soltanto la sua voce. E lui, con la sola forza di volontà, riuscì a farne la voce più famosa del mondo.
Avevo ventiquattro anni quando entrai al suo servizio, e Cicerone ventisette. Ero uno schiavo della sua famiglia, venuto al mondo nella tenuta sulle colline vicino ad Arpino, e non avevo mai visto Roma. Lui era un giovane avvocato che soffriva di esaurimento nervoso ed era costretto a superare notevoli limiti naturali. Ben pochi avrebbero scommesso sul suo futuro.
All’epoca la voce di Cicerone, aspra e viziata occasionalmente della balbuzie, non era ancora quel temibile strumento nel quale si sarebbe poi trasformata. E questo, secondo me, perché i pensieri gli si affollavano nella testa così numerosi che nei momenti di tensione le parole gli si fermavano in gola; un po’ come due pecore che, premute dal gregge, cercano di passare contemporaneamente attraverso un varco. Queste parole, poi, erano spesso troppo dotte per essere comprese. “Lo Studioso” lo chiamavano i suoi irrequieti ascoltatori, o in alternativa “il Greco”: e nessuno dei due termini era inteso come complimento. Non si mettevano in dubbio le sue capacità oratorie, ma la costituzione fisica di Cicerone era troppo gracile per reggere il peso della sua ambizione. Inoltre l’affaticamento delle sue corde vocali, sottoposte a ore e ore di lavoro, spesso all’aperto e in qualsiasi stagione, era tale da lasciarlo per giorni rauco o addirittura afono. A questi problemi andavano aggiunte un’insonnia cronica e difficoltà di digestione. Insomma, a Cicerone serviva l’aiuto di un professionista per farsi strada in politica, cosa che lui desiderava ardentemente. Decise quindi di trascorrere un certo periodo di tempo lontano da Roma e di viaggiare, sia per riposare la mente sia per frequentare i più famosi docenti di retorica che, nella stragrande maggioranza, vivevano in Grecia o in Asia Minore.
Dal momento che ero il responsabile della piccola biblioteca del padre e che me la cavavo discretamente con il greco, Cicerone mi chiese in prestito, proprio come si fa con un libro, per portarmi con sé in Oriente. Il mio incarico sarebbe stato quello di provvedere a varie incombenze, come per esempio occuparmi dei mezzi di trasporto, pagare gli insegnanti e così via, con l’impegno di riportarmi indietro dopo un anno. Ma, come spesso avviene ai volumi che ci stanno a cuore, non venni più restituito.
Ci incontrammo al porto di Brindisi il giorno previsto per la partenza. Il tutto avveniva sotto il consolato di Servilio Vatia e Claudio Pulcro, nel seicentosettantacinquesimo anno dalla fondazione di Roma. Cicerone all’epoca era ben diverso dal personaggio solenne che sarebbe diventato in seguito, un personaggio dai lineamenti così famosi da impedirgli di camminare anche per le strade meno frequentate senza essere riconosciuto. (Mi chiedo, a questo proposito, che ne è stato delle migliaia di busti e di ritratti che abbellivano un tempo tante dimore e tanti edifici pubblici? Possibile che siano stati tutti mandati in frantumi o dati alle fiamme?) Il giovanotto che mi trovai davanti sulla banchina in quel mattino di primavera era magro e con le spalle curve; e in lui spiccava un collo innaturalmente sottile lungo il quale, ogni volta che deglutiva, saliva e scendeva un pomo d’Adamo grosso come il pugno di un neonato. Gli occhi erano sporgenti, la pelle giallastra, le guance infossate: era, per farla breve, l’immagine di una persona malaticcia. Ricordo che pensai tra me: “Be’, Tirone, approfitta di questo viaggio più che puoi perché non durerà molto”.
La nostra prima tappa fu Atene, dove Cicerone si era ripromesso di studiare filosofia all’Accademia. Gli portai la borsa fino all’aula, e stavo per allontanarmi quando lui mi richiamò chiedendomi dove stessi andando.
«A sedermi all’ombra con gli altri schiavi» gli risposi «a meno che tu non abbia un altro incarico da assegnarmi.»
«Certo che ce l’ho, ed è un lavoro duro quello che ti chiedo. Voglio che tu stia qui con me per imparare un po’ di filosofia, in modo che durante i nostri lunghi viaggi io abbia qualcuno con cui parlare.»
Così lo seguii nell’aula ed ebbi il privilegio di ascoltare nientemeno che Antioco di Ascalona mentre esponeva i tre principi base dello stoicismo – per la felicità è sufficiente la virtù, nulla è bene al di fuori della virtù, non fidarsi mai delle emozioni –, tre semplici regole attenendosi alle quali gli uomini avrebbero potuto risolvere quasi tutti i problemi del mondo. Da allora Cicerone e io affrontammo spesso questi argomenti, e in quei casi ci capitava di dimenticare le nostre differenti condizioni sociali. Rimanemmo con Antioco sei mesi, per dedicarci poi al vero scopo del viaggio.
La scuola di retorica che allora andava per la maggiore applicava lo stile chiamato asiano, elaborato e per così dire “fiorito”, pieno di frasi ampollose e di ritmi squillanti, con l’oratore che parlava oscillando sui talloni oppure camminava avanti e indietro. A Roma il principale esponente di questa scuola era Quinto Ortensio Ortalo, considerato universalmente l’oratore principe dell’epoca e soprannominato “Maestro di ballo” per il suo elegante movimento dei piedi. Cicerone, proprio allo scopo di impadronirsi della sua tecnica, fece di tutto per riuscire a frequentare i mentori del Maestro di ballo: Menippo di Stratonicea, Dionisio di Magnesia, Eschilo di Cnido, Senocle di Adramitto, nomi sufficienti a far individuare lo stile di ciascuno. Trascorse con loro intere settimane, studiandone pazientemente i metodi, fin quando non ritenne di aver carpito tutti i segreti.
«Tirone» mi disse una sera, piluccando dal suo abituale piatto di verdure lesse «ne ho abbastanza di questi pavoni profumati. Trova un’imbarcazione che ci porti da Loryma a Rodi. Dobbiamo seguire un’altra strada: ci iscriveremo alla scuola di Apollonio Molone.»
Fu così che una mattina di primavera, quando il sole era appena spuntato e le acque dello Stretto di Scarpanto apparivano lisce e opalescenti (mi perdonerete queste occasionali fiorettature, ma ho letto troppa poesia greca per attenermi all’austero stile latino), un’imbarcazione a remi ci portò in quell’isola antica e frastagliata dove, sulla banchina, trovammo ad attenderci la tarchiata figura di Molone in persona.
Avvocato originario di Alabanda, aveva esercitato nei tribunali romani con tale abilità oratoria da essere stato addirittura invitato a pronunciare un discorso in greco al Senato, onore senza precedenti; si era poi ritirato a Rodi dove aveva aperto una scuola di retorica. La sua tecnica, l’esatto contrario di quella orientale, era semplice: non muoverti troppo, tieni il capo eretto, non divagare, falli ridere, piangere e, una volta che ti sei assicurato la loro partecipazione emotiva, siediti velocemente: «Perché» diceva «nulla si asciuga così in fretta come una lacrima». Una tecnica del genere era molto congeniale a Cicerone, che si affidò completamente a Molone.
Questi, per prima cosa, gli diede per cena una scodella piena di uova sode in salsa d’acciughe seguita, nonostante le proteste del suo allievo, da un pezzo di carne rossa alla brace innaffiata da una tazza di latte di capra. «Hai bisogno di mettere su un po’ di muscoli, giovanotto» gli disse battendosi il torace possente. «Da una cannuccia non è mai uscita una nota poderosa.» Cicerone lo guardò di traverso e continuò obbediente a masticare finché non ebbe vuotato il piatto. E quella sera, per la prima volta da mesi, dormì profondamente. (Lo so perché io dormivo sul pavimento davanti alla sua porta.)
All’alba ebbero inizio gli esercizi di ginnastica. «Parlare nel Foro è come partecipare a una corsa» gli disse Molone. «Servono forza e resistenza.» Finse di tirargli un pugno e Cicerone emise una specie di gemito, barcollando all’indietro e rischiando di finire a terra. Molone gli ordinò di assumere la posizione eretta, con le gambe tese, e di toccarsi per venti volte le punte dei piedi, dopo di che lo fece sdraiare supino con le mani intrecciate dietro la nuca e gli ordinò di tirarsi su a sedere un certo numero di volte senza muovere le gambe. Quindi lo fece voltare e gli ordinò una ventina di flessioni senza piegare le ginocchia. Questo fu il regime del primo giorno, e in quelli successivi furono aggiunti nuovi esercizi e aumentata la loro durata. Cicerone riusciva a dormire profondamente e non faceva più storie per mangiare.
Passando alla parte declamatoria, Molone portò il suo impaziente allievo dalla corte ombreggiata al sole di mezzogiorno e gli fece recitare dei pezzi – in genere, lo stralcio di un processo oppure un monologo di Menandro – mentre percorreva senza fermarsi una ripida salita. Fu grazie a questa pratica, avendo come pubblico solo le lucertole che schizzavano via davanti ai suoi piedi e le cicale che frinivano tra gli ulivi, che Cicerone si irrobustì i polmoni e imparò a pronunciare il massimo numero di parole con una sola espirazione. «Imposta la tua dizione sulle tonalità medie» si raccomandò Molone. «È lì che si trova il potere. Nulla di troppo acuto o troppo basso.» E nel pomeriggio, per la parte relativa all’emissione vocale, Molone scendeva con lui fino alla spiaggia di ciottoli, lo allontanava di una cinquantina di passi (la massima distanza alla quale può arrivare la voce umana) e lo faceva declamare sullo sfondo sonoro del mugghio e della brezza marini, quanto di più simile vi fosse al mormorio di tremila persone all’aperto o al borbottio di centinaia di uomini in conversazione nel Senato. Distrazioni, queste, alle quali Cicerone si sarebbe dovuto abituare.
«Ma per ciò che riguarda il contenuto dei miei interventi?» gli chiese un giorno l’allievo. «Sei sicuro che mi imporrò all’attenzione soprattutto con la semplice forza dei miei argomenti?»
Molone fece spallucce. «Ciò che dirai non mi riguarda. Ricorda Demostene: “Solo tre cose contano nella retorica: la dizione, la dizione e infine la dizione”.»
«E la mia balbuzie?»
«Nem-meno la tua bal-buzie mi p-p-preoccupa» gli rispose Molone, con un sorriso e una strizzatina d’occhio. «A parte gli scherzi, è qualcosa che aggiunge interesse e dà un’impressione di onestà. Lo stesso Demostene ne soffriva leggermente. Il pubblico si identifica in questi difetti, solo la perfezione è monotona. Ora, allontanati ancora un po’ e cerca di farmi sentire ciò che dici.»
Ebbi così il privilegio di assistere, fin dall’inizio, alla trasmissione dei trucchi dell’oratoria da un maestro all’altro. «Mai piegare il collo in maniera effeminata, mai fare girare i pollici. Non muovere le spalle. Se per un certo gesto devi usare le dita, prova a piegare il medio contro il pollice estendendo gli altri tre… così, bravo. Gli occhi ovviamente devono sempre seguire il gesto, a meno che non si debba respingere un’eventualità, come per esempio: “Allontanate, o dèi, una simile calamità!” oppure: “Credo di non meritare tale onore”.»
Non venne mai messo nulla per iscritto, perché nessun oratore degno di tale nome si sognerebbe di leggere da un testo o da appunti. Molone preferiva il metodo classico di memorizzazione di un discorso: quello di un immaginario viaggio dentro la casa dell’oratore. «Il primo assunto che vuoi fissare enuncialo e illustralo appena entri, il secondo nell’atrio e così via girando per casa come faresti abitualmente, indirizzando ogni parte del tuo discorso non a ogni stanza ma a ogni statua, a ogni alcova. Assicurati che ognuno di questi punti sia ben illuminato, chiaramente definito e abbia una qualche peculiarità. In caso contrario girerai barcollando come un ubriaco che alla fine di una festa va alla ricerca del suo letto.»
Quella primavera e quell’estate Cicerone non fu l’unico discepolo dell’accademia di Molone. A raggiungerlo furono di volta in volta il fratello minore, Quinto, il cugino Lucio e due amici: Servio, un puntiglioso avvocato che aspirava a diventare giudice, e Attico, l’azzimato, affascinante Attico a cui nulla importava della retorica perché abitava ad Atene e non aveva alcuna intenzione di dedicarsi alla politica, ma amava la compagnia di Cicerone. Tutti si sorpresero di fronte alla metamorfosi del suo aspetto e della sua salute, e l’ultima sera che passarono insieme – ormai era autunno e bisognava tornare a Roma – si riunirono per constatare l’effetto di Molone sull’oratoria dell’amico.
Mi piacerebbe ricordare di che cosa parlò Cicerone quella sera dopo cena, ma temo di essere la dimostrazione vivente di quanto cinicamente sostenuto da Demostene, che cioè l’importante non è ciò che si dice ma come lo si dice. Me ne rimasi discretamente in disparte, avvolto nell’ombra, e ora mi tornano alla mente solo le falene che volavano impazzite attorno al fuoco delle torce come pulviscolo di cenere, il cortile inondato dal chiarore stellare e i visi rapiti di quei giovani, resi rubizzi dalla luce delle torce e rivolti verso Cicerone. Ma ricordo ciò che disse alla fine Molone quando il suo pupillo, chinando il capo di fronte a un’immaginaria giuria, tornò a sedersi. Dopo un lungo silenzio si alzò e parlò con voce roca: «Mi congratulo con te, Cicerone, e sono sbalordito. Ma al tempo stesso mi dispiace per la Grecia e per il suo destino. La supremazia della nostra eloquenza era rimasta il nostro unico motivo di vanto, e adesso vi siete presi anche quella». Poi allungò un braccio, indicando al di là della terrazza illuminata dalle lanterne il mare buio e lontano. «Torna a casa, ragazzo mio, torna e conquista Roma.»
Eh già, facile a dirsi. Ma come si fa a conquistare Roma potendo contare soltanto sulla propria voce?
Il primo passo da fare è ovvio: diventare senatore.
A quell’epoca per entrare in Senato bisognava avere almeno trentun anni ed essere ricchi. Più precisamente occorreva possedere beni per almeno un milione di sesterzi, e questo soltanto per candidarsi alle elezioni annuali, che si tenevano di luglio per nominare venti nuovi senatori destinati a subentrare a quelli morti o divenuti troppo poveri per poter mantenere la loro carica. Ma dove lo trovava un milione, Cicerone? Suo padre non possedeva sicuramente una somma simile, la proprietà di famiglia era piccola oltre che ipotecata. Gli si presentavano a quel punto le tre opzioni tradizionali, ma per racimolare tutti quei soldi avrebbe impiegato troppo tempo, e rubarli sarebbe stato rischioso. Di conseguenza, subito dopo il nostro ritorno da Rodi, Cicerone si sposò. Terenzia aveva diciassette anni, il seno piatto come quello di un ragazzo e la testa piena di riccioli neri. La sorellastra era una vergine vestale, a dimostrazione della elevata condizione sociale della sua famiglia. Ma, soprattutto, Terenzia era proprietaria di due isolati di alloggi popolari a Roma, di terreni boscosi ai margini della città e di un podere, per un valore complessivo di un milione e un quarto. (Ah, Terenzia, insignificante, splendida e ricca Terenzia: che fenomeno eri! L’ho vi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Imperium
  4. Parte prima. GLI ANNI DA SENATORE. 79-70 a.C.
  5. Parte seconda. GLI ANNI DA PRETORE. 68-64 a.C.
  6. Copyright