Il viandante
  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Per la prima volta raccolte in un unico volume le pagine autobiografiche dedicate da Hesse all'avventura del "partire", dell'"essere in cammino". Dalla Foresta Nera all'Italia, alla lontana Indonesia, alla ricerca di verità antiche sotto sembianze nuove.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804469704

Il viandante

SULLA PRATICA DEL VIAGGIARE

Quando fui sollecitato a scrivere qualcosa sulla componente poetica del viaggiare, mi sembrò in un primo momento un’opportunità allettante potere imprecare, una buona volta a cuore aperto, contro gli orrori della moderna industria turistica, la smania, di per sé insensata, di viaggiare, lo squallore degli alberghi attuali, contro città turistiche come Interlaken, contro inglesi e berlinesi, contro la Foresta Nera del Baden, deturpata e ormai smisuratamente cara, contro la ciurmaglia di abitanti delle grandi città che vogliono vivere in mezzo alle Alpi come a casa propria, infine contro i campi da tennis di Lucerna, contro albergatori, camerieri, stile di vita e prezzi degli hotel, vini locali non genuini e costumi regionali fasulli. Ma una volta, quando in treno fra Verona e Padova confessai a una famiglia tedesca le mie opinioni in merito, fui pregato, con fredda cortesia, di tacere, e quando un’altra volta presi a schiaffi, a Lucerna, un cameriere spregevole, non fui più pregato, ma si passò a vie di fatto per costringermi a lasciare l’albergo vergognosamente in fretta. Da allora imparai a dominarmi.
Mi viene anche in mente che, in fondo e nonostante tutto, i miei viaggetti mi hanno enormemente divertito e soddisfatto e che da ognuno di essi ho riportato a casa qualche tesoro, ora grande ora modesto. Allora perché imprecare?
Quanto al problema del modo con cui l’uomo moderno dovrebbe viaggiare, esistono molti libri e libretti, ma nessuno di quelli che conosco è abbastanza valido. Se un tale intraprende un viaggio di piacere, dovrebbe comunque sapere ciò che fa e perché. Oggi il cittadino che viaggia non lo sa: viaggia perché l’estate in città è troppo calda; viaggia perché cambiando aria e vedendo persone e ambienti diversi spera di trovare un po’ di riposo dopo un lavoro affaticante. Va in montagna perché un oscuro imperioso desiderio di tornare alla natura, alla terra e alla sua vegetazione lo assilla con una forza impulsiva che egli non sa valutare compiutamente; va a Roma perché questo fa cultura. Ma si mette in viaggio soprattutto perché anche i suoi cugini e i vicini lo fanno, perché poi potrà parlarne e darsi delle arie, perché così vuole la moda e infine perché dopo, a casa, si sentirà di nuovo proprio a suo agio.
Certo, tutti questi motivi sono comprensibili e onesti, ma perché il signor Krakauer va a Berchtesgaden, il signor Müller nei Grigioni, la signora Schilling a St. Blasien? Il signor Krakauer lo fa perché ha tanti conoscenti che vanno di solito a Berchtesgaden, il signor Müller sa che i Grigioni sono lontani da Berlino e che sono di moda, la signora Schilling ha sentito dire che l’aria di St. Blasien è così buona… Tutte e tre queste persone potrebbero scambiarsi i rispettivi programmi di viaggio e gli itinerari: sarebbe esattamente la stessa cosa. Conoscenti se ne possono avere dappertutto, il proprio denaro lo si può spendere dove si vuole e l’Europa è straordinariamente ricca di località con aria buona.
Ma perché proprio Berchtesgaden? O St. Blasien? Qui sta l’errore. Viaggiare dovrebbe sempre significare vivere una esperienza, e si può avere un’esperienza preziosa soltanto in luoghi, in ambienti con i quali ci troviamo in un rapporto spirituale. Una bella gita occasionale, un’allegra serata trascorsa nel giardino di una trattoria, un viaggetto in battello su un lago qualsiasi non sono di per sé vere e proprie esperienze, non arricchiscono la nostra vita, non possono dare stimoli forti e duraturi; o meglio, possono assurgere a tanto, ma non per i signori Krakauer e Müller.
Forse proprio per queste persone non esiste sulla Terra alcun luogo che stia con loro in un rapporto abbastanza profondo. Non esiste per tali viaggiatori alcun paese, alcuna costa o isola, montagna o vecchia città, dove siano attratti dal fascino di un’aspettativa, e il vederli appaghi sogni a lungo vagheggiati e il conoscerli significhi raccogliere tesori. Tuttavia i loro viaggi potrebbero essere più felici e più belli, dal momento che bisogna pur viaggiare. Prima di intraprendere un viaggio, sia pure soltanto sulla carta geografica, dovrebbero informarsi almeno superficialmente delle caratteristiche essenziali del paese e della località dove intendono recarsi, del rapporto in cui tali luoghi si trovano – per posizione, configurazione del suolo, clima e abitanti – con la propria patria e con il luogo di residenza abituale. E durante il soggiorno nella località straniera dovrebbero cercare di familiarizzare con i tratti caratteristici della regione: dovrebbero ammirare montagne, cascate, città non solo di sfuggita, ma imparare a conoscerle una per una nella loro giusta e necessaria collocazione, nel loro sviluppo, e proprio per questo individuarne la bellezza.
Chi ha buona volontà scopre da sé i semplici segreti insiti nell’arte di viaggiare: non pretenderà di bere birra di Monaco a Siracusa (e se pur riuscirà ad averne, la troverà mediocre e costosa). Non si recherà in paesi stranieri senza comprendere, almeno un poco, la loro lingua. Non giudicherà il paesaggio, gli abitanti, le consuetudini, la cucina e i vini sul metro del proprio paese e non desidererà vedere il veneziano più energico, il napoletano più calmo, il bernese più gentile, il vino Chianti più dolce, la riviera più fresca, il litorale della laguna più in pendenza sul mare. Al contrario, tenterà di adeguare il proprio stile di vita agli usi e al carattere della località in cui si trova. Così, per esempio, a Grindelwald si alzerà di buon mattino e più tardi a Roma. E dappertutto cercherà di avvicinarsi alla gente del luogo e di comprenderla. Non frequenterà comitive internazionali e non scenderà in hotel con clientela internazionale, ma sceglierà alberghi i cui titolari e i relativi dipendenti sono gente del posto o, meglio ancora, alloggerà presso privati, la cui vita di famiglia sarà per lui come uno specchio delle consuetudini locali.
Sarebbe indicibilmente ridicolo che in Africa un viaggiatore volesse accomodarsi con finanziera e cilindro sulla groppa di un cammello. Ma si considera una scelta del tutto normale indossare a Zermatt o a Wengen abiti di stile parigino, parlare tedesco in città francesi, bere vino del Reno a Göschenen e mangiare a Orvieto gli stessi piatti che si consumano a Lipsia. Se chiedi a queste persone che cosa pensino dell’Oberland bernese, diranno che i prezzi praticati dalla ferrovia della Jungfrau sono uno scandalo e, se fai cadere il discorso sulla Sicilia, verrai a sapere che laggiù non esistono camere con riscaldamento e che, però, a Taormina troverai un’eccellente cucina francese. Se chiedi notizie sulla popolazione e sul suo modo di vivere, ti racconteranno che quella gente porta vestiti infinitamente buffi e parla un dialetto incomprensibile.
Ora basta con questo argomento. Volevo parlare della bellezza del viaggiare, non dell’irrazionalità della maggior parte dei viaggiatori. La poesia del viaggiare non consiste nel vivere un periodo di distensione lontani dalla vita monotona che si trascorre in patria, lontani dal lavoro, dalle arrabbiature, non si può cogliere nel trovarsi casualmente con altre persone e nell’osservare una realtà diversa, e nemmeno si trova nel soddisfare una curiosità. È invece presente nell’esperienza, autenticamente vissuta, cioè nell’arricchimento interiore, nel concatenare in modo organico dati di nuova acquisizione, nell’accrescersi della nostra capacità di comprensione dell’unità nel molteplice, del grande intreccio costituito dalla terra e dall’umanità, nel ritrovare antiche verità e leggi in contesti del tutto nuovi.
A tutto questo si aggiunge ciò che in modo specifico vorrei chiamare “il romanticismo del viaggiare”: la varietà delle impressioni, l’attesa, serena o ansiosa, di sorprese, ma anzitutto il lato meraviglioso dei rapporti con persone che ci sono nuove ed estranee. Lo sguardo scrutatore del portiere o del cameriere è lo stesso a Berlino come a Palermo, ma lo sguardo del pastorello retico, che hai colto di sorpresa su un prato sperduto dei Grigioni, non puoi dimenticarlo. E neppure dimentichi la famigliola di Pistoia, che una volta ti ha ospitato per due settimane. Forse ti sfuggono i nomi, forse non ti ricordi più con esattezza i piccoli destini e le preoccupazioni di quelle persone, ma non ti dimenticherai mai come in un’ora felice ti sei avvicinato prima ai bambini, poi alla piccola, pallida donna di casa, quindi a suo marito o al nonno. Perché con loro non avevi da parlare di cose ben conosciute, non dovevi allacciarti a una realtà vecchia e comune; per quella gente tu eri nuovo ed estraneo come essa lo era per te e dovevi necessariamente lasciare da parte il convenzionale, basarti su te stesso e risalire alle radici del tuo essere per poter dire loro qualcosa. Forse parlavi con loro di argomenti insignificanti, ma parlavi da uomo a uomo, tastando il terreno e chiedendo, con il desiderio di cominciare a comprendere un poco questi stranieri, di conquistarti un pezzo del loro essere e della loro vita e di portarlo via con te.
Chi in paesi stranieri non soltanto volge la sua attenzione alle cose famose e più sorprendenti, ma avverte la necessità di afferrare di essi la realtà più vera e profonda e vuole interiorizzarla con amore, noterà che incontri casuali e fatti di poco conto appariranno nel suo ricordo come rivestiti per lo più di un particolare splendore. Se penso a Firenze, vedo anzitutto non il Duomo o l’antico Palazzo della Signoria, ma il piccolo stagno con i pesciolini rossi nel Giardino di Boboli, dove durante il mio primo pomeriggio fiorentino dialogai con alcune donne e con i loro bambini, sentii per la prima volta parlare l’idioma locale e percepii la città a me nota da tanti libri come qualcosa di reale e di vivo, una città con cui potevo parlare e che potevo afferrare con le mani. Il Duomo e il Palazzo Vecchio e tutti i monumenti famosi di Firenze non mi sono tuttavia sfuggiti; credo anzi di averli vissuti in modo migliore e di essermene appropriato con cuore più aperto di quanto non capiti a turisti scrupolosi con il loro bravo Bedaeker; mi si presentano in forma certa e coerente come scaturiti da esperienze piccole e secondarie, e se pure ho dimenticato qualche bel quadro degli Uffizi, in compenso mi ricordo delle serate trascorse chiacchierando in cucina con la padrona di casa e delle notti consumate discorrendo con uomini e ragazzi in piccole osterie, del sarto loquace di periferia, che sotto la sua porta di casa mi ricucì i calzoni strappati, che ancora indossavo, e intanto mi faceva infuocati discorsi politici, canticchiava melodie di opere e allegre arie popolari. Queste bazzecole diventano spesso il nocciolo di preziosi ricordi. La graziosa cittadina di Zofingen non la posso più dimenticare, nonostante la brevità della mia permanenza – due ore soltanto – proprio perché là ho fatto a pugni con un giovanotto innamorato della figlia dell’oste. E l’attraente villaggio di Hammerstein, a sud di Blauen, nel Baden, non sarebbe così vivo e bello nel mio ricordo con tutti i suoi tetti e le sue viuzze, se non l’avessi raggiunto, quando meno me l’aspettavo, una sera, sul tardi, dopo una lunga spiacevole peregrinazione nella foresta. Lo scorsi all’improvviso e con mia grande sorpresa, dopo aver doppiato la sporgenza di un’altura, estendersi nella profondità sotto di me, quieto e sonnacchioso, una casa incollata all’altra, con la luna che spuntava in quel momento sullo sfondo. Se fossi arrivato fin là per la comoda strada maestra e lo avessi attraversato, non saprei nulla di tutto questo. Mi fermai in quel villaggio un’ora soltanto, eppure dentro di me è rimasta per tutta la vita un’immagine bellissima e gradita. E con l’immagine di questo piccolo borgo posseggo anche quella di un intero, singolare paesaggio.
Chi nei suoi verdi anni ha viaggiato un bel po’ con scarsi quattrini e senza un bagaglio che si rispetti, ha provato senz’altro queste impressioni. Una notte trascorsa in un campo di trifoglio o nel fieno appena mietuto, un pezzo di pane e formaggio elemosinato in una baita sperduta, arrivare impensatamente in una locanda nell’atmosfera di una festa nuziale paesana ed essere invitati a parteciparvi: tutto questo rimane indelebilmente nella memoria. Senonché al di là del casuale non si deve dimenticare l’essenziale, né al di là del romantico la poesia. Lasciarsi trasportare fuori mano durante un viaggio e affidarsi al benedetto caso è certamente una prassi raccomandabile, ma ogni viaggio deve avere un contenuto e un senso ben precisi, se si vuole viverlo in modo soddisfacente e profondo. Se uno si aggira per vincere la noia e per curiosità insulsa in paesi la cui intima natura gli rimane estranea e indifferente, fa qualcosa di sconveniente e di ridicolo. Come un’amicizia o un amore assiduo per i quali si compiono sacrifici, come un libro che si sceglie dopo ponderata riflessione, si acquista e si legge, così ogni viaggio di piacere o di studio è un atto d’amore che comporta volontà di apprendere e spirito di sacrificio. Il suo scopo è quello di rendere un paese e il suo popolo, una città o una regione un possesso spirituale del viaggiatore, che con amore e dedizione deve scrutare una realtà a lui estranea e tenacemente sforzarsi di comprenderne l’intima essenza. Il ricco commerciante di salumi, che per vanteria e malinteso senso della cultura parte per Parigi o per Roma, non consegue nulla di tutto questo. Ma chi nei lunghi ardenti anni della giovinezza ha nutrito in sé lo struggente desiderio di raggiungere le Alpi o il mare o le antiche città d’Italia e finalmente è riuscito a racimolare un po’ di tempo e di denaro, si impossesserà con passione di ogni pietra miliare, delle mura di ogni monastero, coperte di rose rampicanti, di ogni cima innevata e di ogni tratto di mare, e non li lascerà più sfuggire dal proprio cuore prima di averne compreso il linguaggio, prima che sia divenuto vivo quanto per lui era morto e dotato di parola ciò che per lui era muto. In un solo giorno la sua esperienza si arricchirà infinitamente di più e proverà molte più cose di quanto non possa un rappresentante di moda in anni di lavoro, e porterà con sé per tutta la vita un tesoro di gioia e di acquisizioni bene intese, un senso di appagante completezza.
Chi non si vede costretto a risparmiare denaro e tempo e ha voglia di viaggiare, dovrebbe sentire come necessità inderogabile quella di appropriarsi spiritualmente, pezzo per pezzo, dei paesi che affascinano i propri occhi e il proprio cuore, e conquistarsi un frammento di mondo imparando a conoscerlo e a gustarlo lentamente, mettere radici in molti paesi diversi e raccogliere da oriente e da occidente le pietre per costruire il bell’edificio di una vasta comprensione della Terra e della sua vita.
Non nego che la maggior parte dei nostri attuali viaggiatori di piacere è formata da cittadini affaticati che non desiderano altro se non sentire per qualche tempo la vicinanza ristoratrice e consolante della vita allo stato di natura. Parlano volentieri di “natura” e hanno per essa una sorta di amore, un misto di paura e di benevolenza. Ma dove la cercano e quanti la trovano?
È un errore molto diffuso quello di credere che bisogna recarsi soltanto in belle località per essere vicini alla “natura” e gustarne le forze e i consolanti effetti. Certo, è evidente che l’abitante di una grande città, scappato dalle sue strade roventi, trova beneficio nella frescura e nella purezza dell’aria marina o soggiornando fra i monti. E questo gli basta. Egli si sente più vispo, respira più profondamente, dorme meglio e torna riconoscente a casa, convinto di avere goduto in modo giusto la “natura” e di averla assorbita. Ignora, però, di averne accolto in sé e compreso soltanto gli aspetti più fugaci, meno essenziali, e di avere lasciato lungo il cammino le cose migliori senza scoprirle. Egli non sa né vedere né cercare né viaggiare.
Credere che sarebbe molto più semplice e facile accogliere nel proprio animo un pezzo di Svizzera o di Tirolo o un tratto del Mare del Nord o della Foresta Nera, piuttosto che farsi una solida idea di Firenze o di Siena, è del tutto errato. La gente che di Firenze ricorda soltanto la torre del Palazzo Vecchio e la cupola del Duomo assimilerà anche di Schliersee soltanto il contorno del Wendelstein e di Lucerna esclusivamente un’immagine del Pilatus e i vapori esalanti dalla superficie azzurra del lago; così, dopo qualche settimana, il suo più autentico bagaglio spirituale di ricordi sarà povero come lo era prima del viaggio. La natura si getta ai piedi dell’osservatore non più della cultura e dell’arte ed esige dall’uomo impreparato della città una dedizione infinita prima di svelarsi e di offrirsi in dono.
È bello viaggiare per ferrovia o in diligenza oltrepassando il Gottardo, il Brennero o il Sempione ed è bello viaggiare da Genova a Livorno lungo la riviera o sul vaporetto da Venezia a Chioggia. Ma di queste impressioni rimane raramente qualcosa di duraturo. Soltanto persone particolarmente fini e di profonda cultura sono capaci di cogliere e di conservare nel proprio animo gli elementi caratteristici di un paesaggio piuttosto esteso, davanti al quale passano quasi di sfuggita. Nella maggior parte della gente rimane solo un’impressione generale di aria marina, di azzurro dell’acqua e di contorni delle rive, e anche questo si cancella ben presto come il ricordo di una scena teatrale. Succede così a quasi tutti i partecipanti dei viaggi di gruppo, oggi così graditi, attraverso i paesi del Mediterraneo.
Non si deve pretendere di vedere e di conoscere tutto. Chi ha percorso da cima a fondo due...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. «Motivi per partire non mancano mai» In viaggio con Hermann Hesse
  4. Il viandante
  5. Fonti
  6. Copyright