Nell’appartamento, il ticchettio di un orologio. L’alitare della notte come una belva di tenebra. Lo scricchiolare delle assi di legno quando lasciò di soppiatto la sua camera. Tutto fu inghiottito dal silenzio. Ma Jacob amava la notte. Ne avvertiva l’oscurità sulla pelle come una promessa. Come un mantello intessuto di libertà e pericolo.
Nel cielo, le stelle impallidivano sotto lo scintillio delle luci della città, e la casa era impregnata della vischiosa tristezza di sua madre. Quando Jacob si avvicinò furtivamente al suo letto e aprì con cautela il cassetto del comodino, la donna non si svegliò. La chiave era proprio vicino ai sonniferi di cui lei non poteva più fare a meno e, mentre sgusciava di nuovo fuori sul corridoio buio, Jacob ne sentì il fresco contatto contro il palmo della mano.
In camera di suo fratello la luce, come sempre, era accesa – Will aveva paura del buio – e Jacob si accertò che dormisse profondamente, prima di entrare nello studio del padre. Dalla sua scomparsa, la mamma non aveva più varcato quella soglia. Non era la prima volta, invece, che lui s’infilava di nascosto in quella stanza abbandonata, per cercare le risposte che lei non voleva dargli.
Lo studio appariva come se John Reckless ne fosse uscito appena un’ora prima, e non da più di un anno. Sulla sedia della scrivania era ancora appeso il cardigan di lana che aveva indossato tante volte, e su un piatto, sempre più secca, c’era una bustina di tè usata, accanto al vecchio calendario dell’anno precedente.
TORNA! scrisse Jacob con l’indice sui vetri appannati delle finestre, sullo scrittoio polveroso e sulle ante a specchio dell’armadio, in cui erano conservate le pistole che suo padre aveva collezionato.
TORNA! Ma la stanza restava silenziosa e vuota. A dodici anni non aveva un padre. Sferrò un calcio ai cassetti, in cui aveva rovistato inutilmente per tante notti. Poi, con un gesto di muto furore, buttò giù libri e riviste dagli scaffali e strappò i modellini di aerei sospesi sopra la scrivania, vergognandosi dell’orgoglio che aveva provato quando aveva avuto il permesso di dipingerne uno di rosso.
TORNA! Avrebbe voluto gridarlo per le strade che, come lame di luce, tagliavano blocchi di case, e dentro alle migliaia di finestre che stampavano quadrati luminosi sullo sfondo scuro della notte.
Il foglietto scivolò fuori da un volume sui motori a propulsione, e Jacob lo raccolse solo perché gli era parso che la scrittura fosse quella di suo padre. Ma si rese subito conto di essersi sbagliato. Simboli ed equazioni, lo schizzo di un pavone, un sole, due lune. Niente che avesse un senso. A eccezione di una frase riportata sul retro della pagina.
LO SPECCHIO SI APRE SOLO PER COLUI CHE NON VEDE SE STESSO.
Jacob si girò, trovandosi faccia a faccia con la propria immagine riflessa.
Lo specchio. Si ricordava ancora di quel giorno in cui suo padre lo aveva appeso al muro. Un occhio scintillante fra le librerie, una voragine di vetro che rifletteva, deformandolo, tutto ciò che John Reckless si era lasciato dietro: la scrivania, la raccolta di pistole antiche, i suoi libri… e il figlio maggiore.
Il vetro era talmente opaco che era quasi impossibile riconoscersi, e più scuro degli altri specchi, ma le ghirlande di rose che ornavano la cornice d’argento apparivano così reali che sembrava stessero per appassire da un momento all’altro.
Jacob chiuse gli occhi.
Voltò le spalle allo specchio.
Provò a tastare dietro la cornice alla ricerca di qualche serratura o chiavistello. Niente. E finiva sempre per ritrovarsi davanti la propria immagine riflessa.
Ci volle un po’ perché capisse.
LO SPECCHIO SI APRE SOLO PER COLUI CHE NON VEDE SE STESSO.
Le mani, ancora piccole, riuscivano a malapena a coprire il riflesso distorto del suo volto ma, quando toccò il vetro bruno, questo gli aderì alle dita come fosse già pronto ad accoglierle, e la stanza che scorse all’improvviso non era più lo studio di suo padre.
Si girò attorno. Le grigie pareti erano rischiarate dalla luna che filtrava attraverso due anguste finestre, e l’assito su cui poggiavano i suoi piedi scalzi era cosparso da gusci di ghianda e ossi di uccello rosicchiati. Il locale era forse appena un po’ più grande dello studio ma, alzando lo sguardo, dal soffitto a travi vide pendere veli di ragnatele.
Dov’era finito? Quando si accostò a una delle finestre, la luce della luna gli disegnò delle chiazze sulla pelle. Al ruvido davanzale erano attaccate penne di uccello lorde di sangue e sotto, giù in fondo, s’intravedevano mura bruciate e fosche alture sulle quali tremolava solo qualche fioco bagliore isolato. Si trovava in cima a una torre. La distesa di case e le strade illuminate… sparite. Non c’era più niente di ciò che gli era familiare. Non una sola luna, bensì due campeggiavano fra le stelle nella volta celeste, e la più piccola era rosso cupo come una moneta arrugginita.
Jacob si voltò verso lo specchio e, sul proprio viso, riconobbe la paura. Un sentimento che gli era sempre piaciuto. Cancellava persino la nostalgia per suo padre e lo attirava in luoghi oscuri, oltre porte proibite e lontano da se stesso.
Sui muri di pietra non c’erano aperture, solo una botola sul pavimento. Quando la sollevò, scorse i resti di una scala mezzo bruciata che spariva nell’oscurità e, per un attimo, credette di vedere sotto di sé un ometto minuscolo che si arrampicava sulla parete. Ma uno scalpiccio alle sue spalle lo fece trasalire.
Gli scivolarono in testa delle ragnatele e, un attimo dopo, qualcosa gli saltò addosso con un rauco brontolio. Dal verso sembrava un animale, ma la faccia stravolta, che digrignava i denti nel tentativo di azzannarlo alla gola, era quella di un vecchio pallido e grinzoso. Era molto più piccolo di Jacob e, per giunta, magro come uno stecco. I suoi abiti parevano fatti di tela di ragno, e la lunga chioma bianca gli scendeva fino ai fianchi. Jacob lo afferrò per l’esile collo, ma lo strano essere gli conficcò i denti gialli nella mano. Il ragazzo cacciò un urlo e, con un pugno, se lo scrollò via. Ma l’altro non si diede per vinto e, leccandosi il sangue dalle labbra, tornò alla carica. Jacob allora gli mollò un calcio e avanzò barcollando verso lo specchio.
L’ibrida creatura si rialzò prontamente, ma il ragazzo stava già premendo la mano sul riflesso del proprio volto spaventato. La figura rinsecchita svanì insieme alle pareti di pietra e, dietro di sé, Jacob ritrovò la scrivania del padre.
— Jacob?
Il cuore gli martellava così forte in petto che la voce del fratello gli arrivò a fatica, appena percettibile.
Prese fiato e si allontanò dallo specchio.
— Jake, sei lì dentro?
Jacob si tirò la manica sopra la mano ferita e aprì la porta.
Gli occhi di Will erano dilatati dal terrore. Il suo fratellino aveva fatto di nuovo brutti sogni. Lo seguiva come un cucciolo dappertutto, e Jacob lo proteggeva al parco e nel cortile della scuola. Talvolta gli perdonava persino di essere il cocco di mamma.
— Ma’ dice che non dobbiamo entrare qui.
— E da quando in qua faccio quello che dice lei? Se fai la spia, domani non ti porto al parco con me.
Will si sporse per sbirciare dentro ma, quando il fratello si richiuse la porta alle spalle, chinò il capo. Will era prudente tanto quanto Jacob agiva con leggerezza; mite tanto quanto Jacob era irruente; tranquillo tanto quanto Jacob era irrequieto. Quando gli prese la mano, Will notò che il fratello aveva le dita sporche di sangue e lo scrutò con aria interrogativa, ma lui lo trascinò in camera senza dire una parola.
Ciò che lo specchio gli aveva mostrato apparteneva a lui. A lui solo.
Il sole era ormai basso su ciò che restava del castello, eppure Will dormiva ancora, sfiancato dai dolori che lo squassavano da giorni.
Un errore, Jacob, dopo tanti anni di prudenza.
Tanti anni durante i quali un intero mondo era appartenuto soltanto a lui. Finiti. Tanti anni durante i quali quei luoghi sconosciuti erano diventati la sua casa: quindici, per la precisione, quando sgusciava dietro lo specchio e stava via per settimane. A sedici non contava neanche più i mesi, e tuttavia era riuscito a mantenere il segreto. Finché, una volta, la fretta lo aveva tradito.
Smettila, Jacob, non puoi farci più niente.
Si alzò in piedi e coprì Will col cappotto. Le ferite sul collo del fratello erano guarite bene, ma sul braccio sinistro s’intravedeva già la pietra, con le sue venature verde chiaro che si diramavano fin sulla mano, scintillando come marmo lucido sotto la pelle sottile.
Solo un errore.
Jacob si appoggiò alle colonne coperte di fuliggine e guardò in alto verso la torre in cui si trovava lo specchio. Non l’aveva mai attraversato senza prima assicurarsi che Will e la madre si fossero addormentati, mai. Ma dalla morte di quest’ultima, nell’appartamento non c’era più nulla, se non una stanza vuota in più. E Jacob non vedeva l’ora di premere la mano contro il vetro scuro di quella porta segreta per andarsene. Lontano.
Impazienza, Jacob. Chiamala col suo nome. Uno dei tuoi tratti più spiccati.
Vedeva ancora il volto di Will dietro di sé, deformato dallo specchio. — Dov’è che vai, Jacob?
Un volo a Boston, un viaggio in Europa: di scuse ne aveva trovate tante in passato. Anche lui, come suo padre, era un bugiardo pieno d’inventiva. Ma questa volta aveva già messo la mano sul vetro fresco e, naturalmente, Will l’aveva imitato.
Il suo piccolo grande fratellino.
— Ha già preso il loro odore. — La sagoma di Volpe si staccò dall’ombra delle mura diroccate. Aveva il pelo di un fulvo così acceso che sembrava spennellato con lo stesso rosso delle foglie autunnali; sulle zampe posteriori erano ancora ben visibili le cicatrici della tagliola da cui Jacob l’aveva liberata cinque anni prima. Da allora, lei stava sempre al suo fianco. Vegliava sui suoi sonni, lo avvertiva dei pericoli che i suoi ottusi sensi umani non captavano e gli dava consigli che era meglio seguire.
Un errore.
Jacob passò sotto il portone dai cui cardini storti pendevano ancora i resti carbonizzati dei battenti. Sulla scalinata principale uno gnomo raccoglieva ghiande dai gradini sgretolati. Appena l’ombra del ragazzo lo sovrastò, sgattaiolò via in tutta fretta. Naso appuntito, occhi rossi, pantaloni e camicia cuciti con indumenti rubati agli umani: la rocca in rovina pullulava di quegli esseri.
— Mandalo indietro! È per questo che siamo venuti qui, no? — lo incalzò Volpe con una malcelata impazienza nella voce.
Jacob scosse il capo. — Non avrei dovuto portarlo qui. Di là non c’è niente che possa aiutarlo.
Jacob aveva raccontato a Volpe del mondo da cui veniva, ma lei preferiva non sentirne parlare. Le bastava quanto già sapeva: che quello era il luogo dove lui spariva troppo spesso e dal quale portava con sé ricordi che lo seguivano come fantasmi per settimane.
— E allora? Cosa credi che gli succederà qui? — Volpe non lo disse esplicitamente, ma Jacob le aveva letto nel pensiero. In quel mondo, i padri uccidevano i figli non appena sotto la loro pelle compariva la pietra.
Prese a contemplare i tetti rossi ai piedi dell’altura, i cui contorni sfumavano nel crepuscolo. A Schwanstein si accendevano le prime luci. Da lontano, la città assomigliava a quei disegni stampati sulle scatole di latta di panpepato, ma da qualche anno, ormai, i colli retrostanti erano attraversati dalle rotaie della ferrovia e, nel cielo serale, saliva il fumo grigio delle ciminiere delle fabbriche. Il Mondo Oltre lo Specchio voleva crescere. Ma la pietra che aveva attecchito nelle carni di suo fratello non era frutto dei telai meccanici, dei treni o delle altre conquiste moderne. Piuttosto sembrava originata da un’antica magia che aleggiava sui poggi e nei boschi.
Un corvo d’oro si posò accanto a Will. Jacob lo scacciò prima che gli gracchiasse nell’orecchio una delle sue sinistre maledizioni.
Will gemette nel sonno. La pelle lottava per non cedere alla pietra, e Jacob percepiva il dolore del fratello come fosse il proprio. Solo per l’affetto che nutriva nei suoi confronti era sempre tornato indietro nel vecchio mondo, anche se, di anno in anno, le visite si erano diradate. Sua madre aveva pianto e minacciato di sbatterlo in collegio, senza avere la minima idea di dove il figlio sparisse. Will, invece, lo aveva sempre accolto gettandogli le braccia al collo, ansioso di vedere cosa gli avesse portato: le scarpe di uno gnomo, il berretto di un pollicino, un bottone di vetroelfo, scaglie di un genio delle acque. Will nascondeva quei regalini sotto il letto, pensando che tutte quelle storie che Jacob gli raccontava in proposito fossero fiabe inventate per lui.
Adesso sapeva che erano tutte vere.
Jacob gli coprì col cap...