La convocazione
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La convocazione

  1. 322 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La convocazione

Informazioni su questo libro

Ray Atlee, professore di legge all'Università della Virginia, ha quarantatré anni e da poco è stato abbandonato dalla moglie. La sua vita scorre in una monotonia appena scalfita dalle lezioni di volo e dal sogno irrealizzato di possedere un aereo. Suo fratello Forrest, invece, è la classica pecora nera della famiglia, da sempre alle prese con problemi di alcol e droga.
Grande è il disappunto di Ray quando riceve una fredda convocazione dal padre, il vecchio giudice Reuben V. Atlee, uomo rigido e integerrimo che, malato terminale di cancro, vive recluso nella malandata dimora di Maple Run, nel Mississippi. Nella lettera il Giudice richiede la presenza dei figli per discutere l'amministrazione dei beni di famiglia.
Al suo arrivo Ray trova il padre cadavere con una confezione di morfina accanto e, in un nascondiglio, alcune scatole piene di soldi. Da dove vengono? Perché non se ne fa cenno nel testamento? E chi altri conosce l'esistenza di quel denaro?
Il mistero legato all'origine del patrimonio e la decisione di non perdere l'inaspettata ricchezza coinvolgeranno il protagonista in un incubo dai contorni indefinibili.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804519881
eBook ISBN
9788852015816

1

Giunse per posta, servizio ordinario alla vecchia maniera, perché il Giudice aveva quasi ottant’anni e diffidava dei nuovi sistemi. Niente e-mail o fax. Non usava una segreteria telefonica e non aveva mai amato il telefono. Batteva le sue lettere con i due indici, un tasto alla volta, curvo sulla sua vecchia Underwood appoggiata sopra una scrivania a serranda sotto il ritratto di Nathan Bedford Forrest. Suo nonno aveva combattuto con Forrest a Shiloh e in tutto il profondo Sud e per il Giudice non c’era figura storica più venerata. Per trentadue anni aveva elegantemente evitato di tenere udienze il 13 luglio, giorno del compleanno di Forrest.
Giunse insieme a un’altra lettera, una rivista e due fatture, e fu messa come di consueto nella cassetta riservata al professor Ray Atlee, presso la scuola di legge. Lui la riconobbe immediatamente, perché quelle buste scandivano la sua vita da sempre. Era di suo padre, l’uomo che anche lui chiamava “il Giudice”.
Il professor Atlee osservò la lettera, incerto se aprirla subito o aspettare. Buone o cattive nuove, con suo padre non si poteva mai dire, sebbene il vecchio stesse morendo e le buone notizie fossero rare. La busta era sottile e sembrava contenere un solo foglio; niente di insolito in questo. Il Giudice era stringato nello scrivere, nonostante la passata fama di verbosità nelle sue esternazioni dal banco della corte.
Di sicuro era una lettera formale. Il Giudice non era tipo da convenevoli, aborriva i pettegolezzi e le chiacchiere a tempo perso. Un tè freddo in veranda con lui avrebbe significato una rivisitazione delle battaglie combattute nella Guerra Civile, probabilmente quella di Shiloh, per la quale avrebbe puntualmente addossato tutta la colpa della sconfitta dei Confederati agli immacolati stivali del generale Pierre G.T. Beauregard, un uomo che avrebbe disprezzato persino in cielo, se avessero avuto la ventura di incontrarsi.
Presto sarebbe morto. Aveva settantanove anni e un cancro allo stomaco. Era sovrappeso, diabetico, forte fumatore di pipa, aveva un cuore in disordine già sopravvissuto a tre infarti e una manciata di malanni minori che, dopo averlo tormentato per vent’anni, ora si stavano facendo sotto per il colpo di grazia. Il dolore era costante. Durante la loro ultima telefonata tre settimane prima, quando Ray lo aveva chiamato perché il Giudice considerava una rapina il costo delle interurbane, lo aveva sentito debole e affaticato. Avevano parlato per meno di due minuti.
L’indirizzo del mittente era a lettere d’oro in rilievo: Giudice Reuben V. Atlee, Venticinquesimo distretto, Tribunale della contea di Ford, Clanton, Mississippi. Ray infilò la busta nella rivista e si incamminò. Il Giudice Atlee non era più in carica. Gli elettori lo avevano mandato in pensione nove anni prima, un’amara sconfitta dalla quale non si era mai ripreso. Dopo trentadue anni di onorato servizio, il suo popolo lo aveva dimesso in favore di un magistrato più giovane, armato di pubblicità radiofonica e televisiva. Il Giudice aveva rifiutato la tenzone elettorale. Aveva dichiarato di essere troppo occupato e, soprattutto, aveva aggiunto che la gente lo conosceva bene e, se voleva rieleggerlo, lo avrebbe rieletto. A molti la sua strategia era sembrata presuntuosa. Aveva vinto nella contea di Ford, ma era uscito sonoramente battuto nelle altre cinque.
C’erano voluti tre anni per farlo sloggiare dal palazzo di giustizia. Il suo ufficio al primo piano era sopravvissuto a un incendio e aveva rifiutato due ristrutturazioni. Il Giudice non aveva permesso a nessuno di profanarlo con pennelli e martelli. Quando gli ispettori della contea lo avevano finalmente convinto a lasciare i locali se non voleva essere sfrattato dalla forza pubblica, aveva inscatolato tre decenni di inutili pratiche, appunti, vecchi libri polverosi e li aveva portati a casa, accatastandoli nel suo studio. Una volta riempito lo studio, aveva allineato gli scatoloni lungo i corridoi, in sala da pranzo e persino nell’ingresso.
Ray rivolse un cenno a uno studente seduto nell’atrio. Davanti alla porta del suo ufficio, scambiò qualche parola con una collega. Dopo essere entrato, chiuse a chiave e posò la corrispondenza al centro della scrivania. Si tolse la giacca, l’appese dietro la porta, scavalcò la pila di voluminosi tomi legali che continuava a scavalcare da più di sei mesi ed espresse sottovoce il quotidiano proponimento di riorganizzare il suo ambiente di lavoro.
Il locale era di quattro metri per cinque, con una piccola scrivania e un divanetto, entrambi sepolti da un quantitativo di materiale sufficiente a farlo apparire un docente molto occupato. Non lo era. Per il semestre di primavera teneva un solo corso sull’antitrust. E aveva in programma di scrivere un libro, un’ennesima, noiosa dissertazione sui monopoli, che nessuno avrebbe letto ma che sarebbe andato ad arricchire il suo curriculum. Era titolare di una cattedra, ma come tutti i professori seri era dominato dalla legge accademica del “pubblicare o perire”.
Si sedette alla scrivania e spostò alcune scartoffie per farsi spazio.
La busta era indirizzata al professor N. Ray Atlee, scuola di legge dell’Università della Virginia, Charlottesville, Virginia. Le “e” e le “o” erano sbavate. Erano dieci anni che il nastro andava sostituito. E i codici postali erano un’altra innovazione che il Giudice preferiva ignorare.
La N stava per Nathan, in omaggio al generale, ma erano in pochi a saperlo. Uno dei litigi più aspri era stato per la decisione del figlio di lasciar perdere Nathan e vivere semplicemente come Ray.
Le lettere del Giudice venivano sempre inviate all’università, mai all’abitazione di suo figlio nel centro di Charlottesville. Al Giudice piacevano i titoli e gli indirizzi di prestigio e voleva che la gente di Clanton, compresi gli impiegati postali, sapesse che suo figlio era professore di legge. Non era necessario. Ray insegnava (e scriveva) da tredici anni e tutta la gente importante nella contea di Ford ne era a conoscenza.
Aprì la busta e dispiegò l’unico foglio. Anche su quello campeggiava il nome del Giudice con la sua vecchia carica e l’indirizzo, sempre senza codice postale. Doveva avere scorte inesauribili di carta intestata.
La missiva era indirizzata a Ray e a Forrest, il fratello minore, i due unici figli di uno sfortunato matrimonio che aveva avuto fine nel 1969 con la morte della madre. Come sempre, il messaggio era conciso:
Prego disporre in modo da presentarsi al mio studio domenica 7 maggio, ore 17, per discutere l’amministrazione del mio patrimonio.
In fede,
Reuben V. Atlee
La firma caratteristica si era avvizzita e appariva incerta. Per anni aveva posto il suo sigillo su sentenze e ordinanze che avevano cambiato la vita a innumerevoli persone. Sentenze di divorzio, custodia di minori, alienamento dei diritti di un genitore, adozioni. Ordinanze che concludevano impugnazioni di testamenti e di risultati elettorali, dispute immobiliari, litigi per confini di proprietà. L’autografo del Giudice era stato autorevole e ben riconoscibile; adesso era lo scarabocchio vagamente familiare di un uomo anziano e molto malato.
Malato o no, Ray sapeva che comunque sarebbe stato puntuale all’incontro nello studio di suo padre. Era appena stato convocato e, per quanto irritante, non aveva dubbio che lui e suo fratello si sarebbero sottomessi a un’ultima predica al cospetto di “vostro onore”.
Era tipico del Giudice scegliere un giorno che fosse conveniente per sé senza consultare gli altri. Era nella sua natura, e forse in quella della categoria dei giudici in generale, stabilire date e scadenze con scarso riguardo per il prossimo. Era una mano pesante che si imparava a esercitare quando si aveva a che fare con il ritmo frenetico delle sessioni, parti recalcitranti, avvocati troppo impegnati, avvocati indolenti. Ma il Giudice aveva governato la sua famiglia praticamente nello stesso modo in cui aveva presieduto la sua aula di tribunale, e quella era la ragione principale per cui Ray Atlee insegnava legge in Virginia e non la esercitava nel Mississippi.
Rilesse la convocazione, poi la posò in cima ai promemoria e ai documenti ancora in sospeso. Andò alla finestra a contemplare il cortile dove tutto era in fiore. Non si sentiva in collera né rattristato, piuttosto amareggiato di dover ancora una volta sottostare a un ordine di suo padre. Ma il vecchio stava morendo, si disse. Sii indulgente. Non ci sarebbero state molte altre gite a casa.
Il patrimonio del Giudice era avvolto nel mistero. Il bene principale era la casa, un lascito dello stesso Atlee che aveva combattuto con il generale Forrest. In una via alberata della vecchia Atlanta avrebbe avuto un valore superiore al milione di dollari, ma non a Clanton. La costruzione si ergeva al centro di due ettari di terreno trascurato a tre isolati dalla piazza della cittadina. I pavimenti erano imbarcati, il tetto malandato, e le pareti non avevano conosciuto imbiancatura in tutta la vita di Ray. Lui e suo fratello potevano rivenderla forse per centomila dollari, ma l’acquirente avrebbe dovuto spendere due volte tanto per renderla abitabile. Nessuno dei due avrebbe mai pensato di viverci; Forrest, dal canto suo, non ci metteva piede da anni.
La casa si chiamava Maple Run, quasi fosse una sontuosa villa con servitù e un ricco calendario di eventi mondani. L’ultimo aiuto era stato Irene, la domestica. Era morta da quattro anni e dopo di lei nessuno aveva più passato l’aspirapolvere sui pavimenti o il panno sui mobili. Il Giudice pagava un tizio venti dollari alla settimana perché tagliasse l’erba, ed era un esborso al quale si rassegnava con grande riluttanza. Ottanta dollari al mese erano una rapina, nella sua erudita opinione.
Quando Ray era bambino, la mamma si riferiva alla casa chiamandola Maple Run. Non pranzavano mai a casa, bensì a Maple Run. Il loro indirizzo non era Atlee, Fourth Street, bensì Maple Run, Fourth Street. Erano poche le famiglie di Clanton che avevano un nome per la propria dimora.
Quando la madre di Ray era morta per un aneurisma, l’avevano adagiata sul tavolo nel salotto principale. Per due giorni i concittadini erano passati, avanzando in corteo nel portico, attraverso l’ingresso e il salotto, per rendere l’ultimo saluto, e finire in sala da pranzo per il punch e i biscotti. Nascosti in soffitta, Ray e Forrest avevano maledetto il padre per aver consentito un simile spettacolo. Laggiù c’era la mamma, una bella e giovane donna, ora pallida e irrigidita in una bara scoperchiata.
Forrest aveva sempre chiamato la casa “Maple Ruin”. Gli aceri rossi e gialli che una volta fiancheggiavano la via erano morti per qualche sconosciuta malattia. I loro tronchi marci non erano mai stati estirpati. Quattro querce enormi ombreggiavano il prato antistante. Scaricavano foglie a tonnellate, troppe perché qualcuno potesse raccoglierle con il rastrello. E almeno due volte l’anno perdevano un ramo, che si abbatteva con uno schianto sul tetto, dove talvolta rimaneva. E la casa era sempre lì, anno dopo anno, lustro dopo lustro, ad accusare i colpi ma senza crollare mai.
Nonostante tutto era ancora un bell’edificio in stile georgiano, con il colonnato, un monumento glorioso per coloro che l’avevano costruita e ora il triste memento di una stirpe in declino. Ray non voleva averci niente a che fare. Per lui la casa era un album di memorie spiacevoli e ogni volta che ci tornava era una nuova occasione di malinconia. Oltre tutto, non si poteva permettere il salasso economico necessario a mantenere una proprietà che meritava di essere rasa al suolo. Forrest avrebbe preferito bruciarla piuttosto che possederla.
Il Giudice voleva invece che Ray prendesse la casa e la conservasse alla famiglia. Se n’era discusso in termini vaghi in quegli ultimi anni. Ray non aveva mai trovato il coraggio di dirgli: “Quale famiglia?”. Lui non aveva figli. Esisteva un’ex moglie, ma non c’erano prospettive di una replica. Lo stesso valeva per Forrest, con la sola differenza che lui aveva due ex mogli, una vertiginosa collezione di ex fidanzate e l’attuale ménage con Ellie, una pittrice e vasaia che pesava un quintale e aveva dodici anni più di lui.
Che Forrest non avesse messo al mondo figli sembrava un miracolo, ma finora non se n’era scoperto nessuno.
Come discendenza, gli Atlee si avviavano a una triste e inevitabile estinzione, la qual cosa non preoccupava affatto Ray, che viveva per sé, non per onorare il padre o il glorioso passato della famiglia. Tornava a Clanton solo in occasione dei funerali.
Degli altri beni del Giudice non si era mai discusso. Un tempo la famiglia Atlee era stata facoltosa, ma molto prima che nascesse Ray. C’erano stati terreni, piantagioni di cotone, schiavi, ferrovie, banche e cariche politiche, il tradizionale portfolio di un notabile confederato che, in termini di liquidità, sul finire del Ventesimo secolo non aveva alcun significato. Sufficiente, tuttavia, a conferire agli Atlee la qualifica di “ereditieri”.
A dieci anni Ray aveva saputo che la sua famiglia era agiata. Suo padre era giudice e la sua casa aveva un nome: nelle campagne del Mississippi questo significava che lui era un bambino ricco. Prima di morire, sua madre aveva fatto del suo meglio per radicare in Ray e Forrest un senso di superiorità nei confronti del prossimo. Loro abitavano una magione. Erano presbiteriani. Andavano in vacanza in Florida, ogni tre anni. Di tanto in tanto cenavano al Peabody Hotel di Memphis. Vestivano bene.
Poi Ray era stato ammesso a Stanford. Ma i suoi sogni si erano infranti sotto le categoriche parole del Giudice: “Non me lo posso permettere”.
“Come sarebbe a dire?” aveva chiesto.
“Quello che ho detto. Non posso permettermi Stanford.”
“Non capisco.”
“Allora sarò più esplicito. Puoi iscriverti a qualunque università. Ma se vai a Sewanee, allora pagherò io.”
Ray andò a Sewanee, senza il sostegno di un congruo patrimonio di famiglia, mantenuto da suo padre in modo appena sufficiente a coprire istruzione, libri, alloggio e iscrizione all’associazione studentesca. La specializzazione l’aveva completata alla scuola di legge di Tulane, dove era sopravvissuto servendo ostriche in un ristorante nel quartiere francese.
Per trentadue anni il Giudice aveva incassato lo stipendio da magistrato, tra i più bassi del paese. A Tulane, Ray aveva letto un rapporto sui compensi della magistratura e aveva appreso con dispiacere che i giudici del Mississippi guadagnavano cinquantaduemila dollari l’anno quando la media nazionale era di novantacinquemila.
Il Giudice viveva da solo, spendeva poco per la casa, non aveva vizi tranne fumare la pipa e preferiva tabacco economico. Possedeva una vecchia Lincoln, mangiava male ma molto e indossava gli stessi abiti neri fin dagli anni Cinquanta. Il suo debole era la beneficenza. Risparmiava e poi regalava i suoi soldi.
Nessuno sapeva quanto denaro il Giudice donasse in un anno. Il dieci per cento andava automaticamente alla Chiesa presbiteriana. A Sewanee andavano duemila dollari e altrettanti ai Figli dei Veterani Confederati. Queste tre donazioni erano scolpite nel marmo. Il resto no.
Il Giudice Atlee era generoso con chiunque. Un bambino invalido che aveva bisogno di stampelle. Una squadra universitaria in trasferta per un torneo. Una sottoscrizione promossa dal Rotary Club per vaccinare neonati in Congo. Un ricovero per cani e gatti randagi nella contea di Ford. Un tetto nuovo per l’unico museo di Clanton.
L’elenco era interminabile, e per ricevere un assegno bastava scrivere poche righe. Il Giudice Atlee non mancava mai di esaudire le richieste, e così era stato fin dai tempi in cui Ray e Forrest avevano lasciato la casa paterna.
Ray se lo immaginò immerso nel disordine e nella polvere del suo scrittoio a battere brevi note di accompagnamento alla sua Underwood e infilarle nelle buste intestate insieme ad assegni appena leggibili della First National Bank di Clant...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La convocazione
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Capitolo 22
  26. Capitolo 23
  27. Capitolo 24
  28. Capitolo 25
  29. Capitolo 26
  30. Capitolo 27
  31. Capitolo 28
  32. Capitolo 29
  33. Capitolo 30
  34. Capitolo 31
  35. Capitolo 32
  36. Capitolo 33
  37. Capitolo 34
  38. Capitolo 35
  39. Capitolo 36
  40. Capitolo 37
  41. Capitolo 38
  42. Capitolo 39
  43. Copyright