TI TROVO UN PO’ PALLIDA
Io sciagurata ricordo soltanto, ed è già un miracolo, che la barca di questi inglesi tanto carini amici di Fabrizia si chiama Rasselas II e perdo quindi una barca un galeone di tempo per trovarla, dopo averne già perso moltissimo a parcheggiare duecentocinquanta chilometri fuori dal porto. Dentro, passata la guardiola, c’è la solita folla invelenita di tutti i porti artificiali, cioè di tutte le cose progettate razionalissimamente ma che poi contro ogni calcolo girano al casino senza nome. Faccio altri chilometri lungo queste banchine che sembrano le corsie di un ospedale durante un’epidemia di peste, e su indicazioni scandinave gesti greci e smaglianti sorrisi spagnoli mi trascino fino al letto 718 dove hanno ricoverato la Rasselas II, un affare bianco con due alberi.
Non vedo nessuno, salgo, vado di sotto guidata da un filo di pianoforte, e lì trovo i due carini che ascoltano una musicassetta di Bach o Vivaldi, lei mangiando una mela lui arcuato sopra un sedile come un mazzancollo di cui ha anche il colore. Cadono e ricadono testardamente dalle nuvole, non sanno, non capiscono, alzano le sopracciglia, io già sto per prendere e andarmene furibonda, quando c’è tutta una serie di «oh» per salutare lo Spirito Santo disceso a illuminarli, oh so you are Gea, oh yes, oh sorry, oh well, oh please, e scava scava, dalla miniera salta fuori che loro non sono affatto loro, ma due amici, due ospiti della Rasselas II, i cui proprietari (un Jeff, a quanto pare, e una Harriett) sono scesi a terra, sono andati a Port’Ercole a comprare degli, oh, zucchini in italiano nel testo.
Ma non dovevano aspettare me, non dovevo portarli tutti quanti a Montepulciano, non era questo che avevano combinato ieri sera con Fabrizia dato che io ho la grossa giardinetta eccetera?
Oh yes, oh no, oh dear, oh God, c’è stato un malinteso, loro avevano creduto che a Montepulciano ci fosse un concerto di Gazzelloni, ma poi hanno saputo che invece Gazzelloni stasera suona a Massa Marittima, e allora hanno telefonato a Fabrizia, ma Fabrizia era uscita, e allora hanno lasciato detto...
Oh merda. Lei mi porge, e io respingo, una miserabile mela, mentre il mazzancollo si informa su Gazzelloni, è lui l’appassionato, il fan, ha tutti i suoi dischi, solo che non ha mai avuto la fortuna di sentirlo dal vivo, l’ha sempre mancato per un pelo, l’anno scorso eccetera, l’anno prima di nuovo eccetera. Io gli spiego che per me è sempre stato difficile mancarlo, sono anni che d’estate, nell’Italia centrale, una non è libera di arrivare in un qualsiasi paesetto, nella più infima basilica, nella più microscopica gelateria all’aperto, senza trovarci, oh, Gazzelloni che suona il suo flauto. Oh yes, oh I see, oh really.
Sbarco dalla Rasselas II pensando che se li assassinavo con un’ascia nessuno mi avrebbe mai scoperta, rifaccio le corsie, ritrovo l’auto che è diventata un forno, riparto col mio bel vestitino a strisce fradicio di sudore e col dente che ricomincia a darmi fastidio.
Rallento. Sto per decidere di tornare a casa, al buio, al fresco, con un tè freddo e uno dei settecentodiciotto libri che dovrei leggere.
Ma Fabrizia ha talmente insistito, a Montepulciano fanno il Tamerlano di Haydn, che è una delizia barocca, un gioiellino rarissimo non rappresentato da quattrocento anni (ma non ci sarà un bon motif?) e poi viene gente così simpatica, Obo e Malvina da Punta Ala, i Janner da Castiglione, i Berluschi hanno promesso anche loro, da Siena dovrebbe venire Giorgio insieme a due prodigiosi cineasti francesi, e poi naturalmente Ascanio, Gabriele, la Isa, che è tornata ieri dal Sudafrica, i Valdo con uno psicanalista argentino loro amico, l’inevitabile Micheletti, il lugubre marchese Gabbiani che poi dice sempre di essersi tanto divertito...
Vedere tutta questa gente dovrebbe secondo Fabrizia farmi del bene, distrarmi, aiutarmi a superare la mia crisi matrimoniale, perché per lei come per tutti gli egocentrici il tempo non passa mai, continua a trattarmi come due anni fa, quando ci siamo lasciati malamente con Roby, che io continuo a considerare un indicibile verme ma di cui m’importa ormai meno di niente dal punto di vista emotivo eccetera. Ma poi nemmeno, la verità è che le piace organizzare queste cose, una lunga catena di antenati generali le ha trasmesso la passione per concentramenti, dislocazioni, marce di trasferimento, avanzate e ritirate, convergenze e ricognizioni sul difficile terreno di Toscana, Umbria e alto Lazio. Le grandi manovre.
E va bene, il mio reparto ridotto a un unico soldato per la defezione della marina britannica si mette in moto col suo maldidenti verso il punto di adunata generale che sono i ruderi di Roselle, così finalmente li vediamo, secoli che ci ripetiamo bisogna andare a Roselle, coso dice che sono stupendi molto meglio dell’Acropoli, la figlia di cosa ci ha scavato con l’università di Firenze o di Harvard.
A qualche chilometro dal bivio in fondo a una curva in discesa mi trovo in mezzo al solito incidente stradale, freno rimettendoci quasi un tacco, passo con gli occhi chiusi come faccio sempre in questi casi, cioè cerco di concentrarmi sul metro di strada che ho davanti, sulla targa di chi mi precede, sulla paletta del carabiniere che mi segnala di aspettare o di filare. Restringo sottintendo ignoro.
Censuro.
Non che io sia una specialmente impressionabile, passo anzi in genere per una donna “forte”. Sarò svenuta tre volte in tutta la mia vita, una volta per essere rimasta trentasei ore senza mangiare sulla maledetta barca (che si chiama Tease, odio i nomi di barche) di mio marito, del mio ex marito, insomma di Roby; e un’altra volta per avere eroicamente mangiato un uovo nero cinese a un pranzo in casa di un allevatore di cavalli (odio i nomi di cavalli) nel Baden o in Baviera, non ricordo più. E quanto a piangere la mia media è di un gigantesco strillo annuale, due al massimo. Topi, ragni e serpi non mi procurano altro che un sano raccapriccio e ho assistito senza batter ciglio a non poche strazianti agonie di parenti e di amici. Non so ovviamente come reagirei su uno di quei campi di battaglia dove volano fettine e spezzatini umani, ma posso dire che in presenza di piaghe, escoriazioni, fratture, ascessi e simili, di cui hanno sofferto in varie età i miei figli, non ho mai avuto bisogno di sali o di cognac, che fra l’altro non mi piace.
Non sono dunque eventuali immagini di orrore e di scempio che mi sforzo di filtrare quando vedo un incidente. Del resto questo particolare incidente non sembra avere niente di spettacolare, auto di coinvolti o di curiosi ferme sul ciglio a destra e a sinistra, due della stradale a sbracciarsi con le loro palette, altri inginocchiati sull’asfalto a tirare righe di gesso e a misurare lunghe strisce nere di frenate, una sfavillante infarinatura di vetri rotti, un’ambulanza bianca, nuziale.
Con le code degli occhi dietro le lenti da sole non posso non cogliere due macchine gettate di sghimbescio sulla strada e ridotte a quella consistenza non più metallica ma di cera in liquefazione che hanno gli oggetti in certi quadri surrealisti e che io, già un anno dopo il matrimonio, associavo al carattere colante, marmellatoso di Roby. In fondo è per questo, e non per la sua pur offensiva storia con Ippolita, che mi sono alla fine disappiccicata da lui.
Passo comunque in punta di ruote fra quei non storici ruderi e vedo più avanti la causa probabile di tutto, una pecora che ha tagliato la strada a qualcuno e che ora giace grigia e sanguinolenta sull’asfalto. Per scansarla una giardinetta azzurra è andata a sbattere contro un ulivo, sportelli divelti, muso conciato come un fazzoletto dopo una scenata, fumante fuoruscita di interiora meccaniche. E lì sopra un suggestivo cartellone turistico pubblicitario che esibisce quattro cavalieri in fila su una spiaggia toscana al tramonto, in controluce (stanno andando a un concerto di Gazzelloni?). Dall’altra parte della strada un avido vecchio in tuta sportiva rossa, fermo accanto alla sua bicicletta, memorizza ogni particolare per raccontarlo poi ai nipotini attorno al desco.
Sono in ritardo, accelero, infilo una strada in terra battuta, mi arrampico nella macchia fin dove incontro sbarre cancelli divieti, mi sistemo alla meno peggio dietro la Rolls dei Valdo, il cui autista-gorilla Raffaele non alza la testa dal suo giornalino western, e mi fermo indecisa tra una freccia indicante la salita ai ruderi veri e propri e un’altra verso il giro delle mura ciclopiche, che in questa parte del mondo significa mura etrusche.
A questo punto mi trafigge come un crampo l’idea di aver dimenticato qualcosa. Panico. Di andare all’Elba sulla barca dei Friedel? Di chiudere la porta di casa? O c’è mia madre venuta da Losanna che mi sta aspettando da due ore alla stazione di Orbetello? Panico. Frustrazione e sgomento.
Ascanio mi salva rotolando giù dal sentierino delle mura, neanche mi vede tanto va di fretta, gli grido «ehi!», si volta appena, continua la corsa fino alla sua Range Rover, piglia su una cinepresa, risale sbuffando verso di me.
«Ciao Gea come va non ti avevo vista come va il tuo dente» dice in una sola sequenza.
L’anno scorso a Giannutri, una volta che ero rimasta sola in topless con lui, mi è arrivato addosso come un accertamento fiscale e ho dovuto fulminarlo con uno schizzo di spray solare negli occhi. D...