L'amore ai tempi del colera
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L'amore ai tempi del colera

  1. 392 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Un amore romantico e infinito, capace di pazientare, con fede incrollabile, per "cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese". Tanto deve infatti aspettare Florentino Aziza, poeta e proprietario della Compagnia Fluviale del Caribe, prima di poter finalmente vedere realizzato il suo sogno con Fermina Daza, la più bella ragazza della Colombia. La cronaca di una lunga e fiduciosa attesa, di un desiderio che non si sopisce ma viene accresciuto dagli anni, superando tutti gli ostacoli. Una storia d'amore e di speranza con la quale, per una volta, Márquez abbandona la sua abituale inquietudine e il suo impegno di denuncia sociale, per raccontare un'affascinante epopea di passione e di ottimismo. Un romanzo atipico e splendido da cui emergono il gusto intenso per una narrazione corposa e fiabesca, le colorate descrizioni dell'assolato Caribe e della sua gente.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804543152

L’amore ai tempi del colera

A Mercedes, naturalmente
Sempre innanzi vanno questi luoghi:
hanno già la loro dea incoronata.
LEANDRO DÍAZ
Era inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati. Il dottor Juvenal Urbino lo sentì non appena entrato nella casa ancora in penombra, dove si era recato d’urgenza a occuparsi di un caso che per lui aveva smesso di essere urgente già da molti anni. Il rifugiato antillano Jeremiah de Saint-Amour, invalido di guerra, fotografo di bambini e suo avversario di scacchi più compassionevole, si era messo in salvo dai tormenti della memoria con un suffumigio di cianuro d’oro.
Trovò il cadavere avvolto da una coperta sulla branda da campo dove aveva sempre dormito, vicino a uno sgabello con la bacinella che era servita per vaporizzare il veleno. Sul suolo, legato a una gamba della branda, c’era il corpo disteso di un grosso danese nero col petto niveo, e accanto a lui le grucce. La stanza soffocante e composita che serviva sia da camera da letto sia da laboratorio iniziava appena a illuminarsi col bagliore dell’alba attraverso la finestra aperta, ma era una luce sufficiente a riconoscere subito l’autorità della morte. Le altre finestre, come qualsiasi fessura della stanza, erano imbavagliate con stracci o sigillate con cartoni neri, e questo aumentava la densità opprimente. C’erano un bancone zeppo di flaconi e boccette senza etichetta, e due bacinelle di peltro scrostato sotto una lampadina comune ricoperta di carta rossa. La terza bacinella, quella del liquido fissante, era vicino al cadavere. C’erano riviste e giornali vecchi ovunque, pile di negativi su lastre di vetro, mobili rotti, ma tutto era preservato dalla polvere grazie a una mano attenta. Sebbene l’aria della finestra avesse purificato l’ambiente, rimaneva ancora, per chi fosse in grado di identificarlo, il sentore tiepido degli amori sventurati delle mandorle amare. Il dottor Juvenal Urbino aveva pensato più di una volta, senza spirito premonitore, che quello non era un luogo propizio per morire in grazia di Dio. Ma col tempo aveva finito coll’immaginare che quel disordine obbediva a una risoluzione cifrata della Divina Provvidenza.
Un commissario di polizia era già arrivato insieme a uno studente molto giovane che faceva pratica come medico condotto nell’ambulatorio municipale, ed erano stati loro ad aerare la stanza e a coprire il cadavere finché non fosse arrivato il dottor Urbino. Tutti e due lo salutarono con una solennità che questa volta era più di condoglianze che di venerazione, perché nessuno ignorava il grado della sua amicizia con Jeremiah de Saint-Amour. L’eminente professore strinse la mano di entrambi, come faceva da sempre con ogni allievo prima di cominciare la sua lezione quotidiana di clinica medica, e poi prese l’orlo della coperta con i polpastrelli di indice e pollice, come se fosse un fiore, e scoprì il cadavere palmo a palmo con una flemma sacramentale. Era tutto nudo, rigido e sbilenco, con gli occhi aperti e il corpo blu, e lo si sarebbe detto più vecchio di cinquant’anni rispetto alla sera prima. Aveva le pupille diafane, la barba e i capelli giallognoli, e il ventre solcato da una cicatrice antica cucita con punti da imballaggio. Il torace e le braccia avevano una larghezza da galeotto tanto si era affaccendato con le grucce, ma le gambe inermi sembravano quelle di un orfano. Il dottor Juvenal Urbino lo contemplò per un istante col cuore addolorato come pochissime altre volte nei lunghi anni della sua lotta sterile contro la morte.
«Stronzo» gli disse. «Ormai il peggio era passato.»
Lo ricoprì e riassunse la sua prestanza accademica. L’anno prima aveva festeggiato gli ottant’anni con un giubileo ufficiale di tre giorni, e nel discorso di ringraziamento aveva respinto ancora una volta la tentazione di ritirarsi a vita privata. Aveva detto: «Avrò tutto il tempo che vorrò per riposare quando sarò morto, ma questa eventualità non rientra ancora nei miei progetti». Sebbene ci sentisse sempre meno dall’orecchio destro e si appoggiasse a un bastone con l’impugnatura d’argento per nascondere l’incertezza dei passi, continuava a indossare col portamento dei suoi anni da ragazzo il vestito intero di lino, col panciotto attraversato dalla catena d’oro dell’orologio. La barba alla Pasteur, color madreperla, e i capelli dello stesso colore, ben stirati e con la riga netta in mezzo, erano tratti fedeli del suo carattere. L’erosione della memoria sempre più inquietante la compensava nei limiti del possibile con appunti scritti in fretta su foglietti sparsi, che finivano per confondersi in tutte le sue tasche, al pari degli strumenti, delle boccette di medicine, e di tante altre cose alla rinfusa nella valigetta zeppa. Era non solo il medico più vecchio e più illustre della città, ma anche l’uomo più elegante. Tuttavia, il suo sapere troppo ostentato e il modo nient’affatto ingenuo di usare il potere del suo nome gli erano valsi meno affetto di quanto meritasse.
Le istruzioni al commissario e al praticante furono precise e rapide. Non occorreva fare l’autopsia. L’odore della casa bastava a indicare che la causa della morte erano state le esalazioni del cianuro reso attivo nella bacinella da qualche acido fotografico, e Jeremiah de Saint-Amour era troppo esperto in questo campo perché fosse stato un incidente. Davanti a un dubbio del commissario, lo bloccò con una stoccata tipica del suo modo di essere: «Non si dimentichi che sono io a firmare il certificato di morte». Il medico giovane rimase deluso: non aveva mai avuto la fortuna di studiare gli effetti del cianuro d’oro su un cadavere. Il dottor Juvenal Urbino era rimasto sorpreso di non averlo visto alla facoltà di Medicina, ma capì subito il perché dal suo facile rossore e dalla pronuncia andina: probabilmente era arrivato da poco in città. Gli disse: «Qui non le mancherà qualche pazzo d’amore che gliene fornisca l’occasione uno di questi giorni». E gli bastò dirlo per rendersi conto che fra gli innumerevoli suicidi che ricordava, quello era il primo col cianuro che non fosse causato da un infortunio d’amore. Qualcosa cambiò allora nei modi della sua voce.
«Quando l’avrà trovato, stia molto attento» disse al praticante: «di solito hanno sabbia nel cuore».
Poi parlò col commissario come avrebbe fatto con un subalterno. Gli ordinò di sveltire la procedura affinché il funerale avesse luogo quel pomeriggio stesso e col massimo riserbo. Disse: «Ne parlerò poi col sindaco». Sapeva che Jeremiah de Saint-Amour era di un’austerità primitiva, e che guadagnava con la sua arte più di quanto avesse bisogno per vivere, sicché in qualche cassetto della casa doveva esserci denaro in abbondanza per le spese del funerale.
«Ma se non lo trovate, non importa» disse. «Mi faccio carico io di tutto.»
Ordinò di comunicare ai giornali che il fotografo era morto di morte naturale, anche se pensava che la notizia non li avrebbe interessati affatto. Disse: «Se proprio bisogna, parlerò io col governatore». Il commissario, un funzionario serio e umile, sapeva che il rigore civico del professore esasperava persino i suoi amici più cari, ed era stupito davanti alla facilità con cui sbrigava le formalità legali per accelerare il funerale. L’unica cosa da cui si astenne fu parlare con l’arcivescovo affinché Jeremiah de Saint-Amour venisse seppellito in terra consacrata. Il commissario, a disagio per la sua stessa impertinenza, cercò di scusarsi.
«Credevo che quest’uomo fosse un santo» disse.
«Una cosa ancora più strana» disse il dottor Urbino: «un santo ateo. Ma questi sono affari di Dio».
Remote, dall’altra parte della città coloniale, si udirono le campane della cattedrale che chiamavano alla messa solenne. Il dottor Urbino si infilò gli occhiali a mezza luna con la montatura d’oro, e consultò l’orologio con la catena, che era quadrato e sottile, col coperchio a molla: rischiava di perdere la messa di Pentecoste.
Nel salotto c’era un’enorme macchina fotografica su ruote, come quelle dei giardini pubblici, e un fondale con un crepuscolo sul mare dipinto a pennellate artigianali, e le pareti erano tappezzate di ritratti di bambini nelle loro circostanze memorabili: la prima comunione, il travestimento da coniglio, il compleanno felice. Il dottor Urbino aveva visto quelle pareti ricoprirsi a poco a poco, un anno dopo l’altro, durante il cavillare assorto dei pomeriggi di scacchi, e aveva pensato spesso con un palpito di desolazione che in quella galleria di ritratti casuali c’era il germe della città futura, governata e pervertita da quei bambini incerti, e nella quale non sarebbero più rimaste neppure le ceneri della sua gloria.
Sulla scrivania, accanto a un barattolo contenente diverse pipe da lupo di mare, c’era la scacchiera con una partita incompiuta. Malgrado la fretta e l’umore cupo, il dottor Urbino non resistette alla tentazione di studiarla. Sapeva che era la partita della sera prima, perché Jeremiah de Saint-Amour giocava tutti i pomeriggi della settimana e almeno con tre avversari diversi, ma arrivava sempre alla fine e poi riponeva la scacchiera e le pedine nella scatola, e la scatola in un cassetto della scrivania. Sapeva che giocava con le pedine bianche, e quella volta era evidente che sarebbe stato sconfitto senza rimedio in quattro mosse. «Se fosse un delitto, qui ci sarebbe una buona pista» disse tra sé. «Conosco solo un uomo capace di organizzare un’imboscata così perfetta.» Non avrebbe potuto vivere senza scoprire perché quel soldato indomito, abituato a battersi fino all’ultimo sangue, non avesse portato a termine la guerra finale della sua vita.
Alle sei del mattino, mentre faceva l’ultima ronda, la guardia notturna aveva visto il cartello affisso sulla porta: «Entrate senza bussare e avvisate la polizia». Poco dopo era accorso il commissario col praticante, ed entrambi avevano ispezionato la casa in cerca di qualche prova che contraddicesse l’odore inconfondibile delle mandorle amare. Ma nei brevi minuti che richiese l’analisi della partita incompiuta, il commissario scoprì fra le carte sulla scrivania una busta indirizzata al dottor Juvenal Urbino, e protetta da così tanti sigilli di ceralacca che fu necessario lacerarla per estrarne la lettera. Il medico scostò la tenda nera della finestra per avere più luce, diede dapprima un rapido sguardo agli undici fogli scritti da tutt’e due le parti con una calligrafia attenta, e non appena ebbe letto il primo paragrafo capì di essersi perso la comunione di Pentecoste. Lesse col respiro agitato, tornando indietro di più pagine per riprendere il filo che aveva smarrito, e quando ebbe terminato sembrava che tornasse da molto lontano e dopo lungo tempo. La sua prostrazione era visibile malgrado lo sforzo per impedirlo: sulle labbra aveva lo stesso colore blu del cadavere, e non riuscì a dominare il tremore delle dita quando ripiegò la lettera e la ripose nel taschino del panciotto. Allora si ricordò del commissario e del giovane medico, e sorrise loro dalle brume del dolore.
«Nulla di particolare» disse. «Sono le sue ultime volontà.»
Era una mezza verità, ma loro la credettero completa perché lui ordinò di sollevare una mattonella non cementata del pavimento e lì trovarono un libro dei conti molto usato insieme alle chiavi per aprire la cassaforte. Non c’era tutto il denaro che pensavano, ma ce n’era d’avanzo per le spese del funerale e per pagare altre faccende minori. A quel punto il dottor Urbino era consapevole che non sarebbe riuscito a raggiungere la cattedrale prima del Vangelo.
«È la terza volta che perdo la messa della domenica da quando ho l’uso della ragione» disse. «Ma Dio capisce.»
Sicché preferì indugiare qualche minuto di più per mettere a posto ogni dettaglio, sebbene faticasse a sopportare l’ansia di dividere con sua moglie le confidenze della lettera. Si impegnò ad avvertire i numerosi rifugiati dei Caraibi che vivevano in città, qualora avessero voluto rendere gli ultimi onori a chi si era comportato come il più rispettabile di tutti, il più attivo e radicale, sia pure dopo la chiara evidenza che aveva ceduto alla remora del disincanto. Avrebbe pure avvertito i suoi amici di scacchi, fra i quali c’erano professionisti insigni come manovali senza nome, e altri amici meno assidui, ma che forse avrebbero voluto partecipare al funerale. Prima di leggere la lettera postuma aveva deciso di essere il primo, ma dopo averla letta non era sicuro di nulla. Comunque avrebbe mandato una corona di gardenie, qualora Jeremiah de Saint-Amour avesse avuto un ultimo minuto di pentimento. Il funerale avrebbe avuto luogo alle cinque, che era l’ora propizia nei mesi più caldi. Se avessero avuto bisogno di lui l’avrebbero trovato a partire da mezzogiorno nella casa di campagna del dottor Lácides Olivella, suo amato discepolo, che quel giorno festeggiava con un pranzo di gala le nozze d’argento con la professione.
Il dottor Juvenal Urbino aveva abitudini facili da seguire, dopo essersi lasciato alle spalle gli anni tormentosi delle prime armi, e aver raggiunto una rispettabilità e un prestigio senza pari nella provincia. Si alzava al primo canto del gallo, e a quell’ora cominciava a prendere le sue medicine segrete: bromuro di potassio per rinfrancarsi l’umore, salicilati per i dolori delle ossa nei periodi di pioggia, gocce di segale cornuta per i capogiri, belladonna per un buon dormire. Prendeva qualcosa a ogni ora, sempre di nascosto, perché nella sua lunga vita di medico e di professore era stato sempre contrario a prescrivere palliativi per la vecchiaia: gli era più facile sopportare i dolori altrui che i suoi. In tasca teneva sempre un sacchettino di canfora che aspirava a pieni polmoni quando nessuno lo vedeva, per allontanare la paura di tante medicine alla rinfusa.
Rimaneva per un’ora nel suo studio, a preparare la lezione di clinica medica che tenne alla facoltà di Medicina tutti i giorni dal lunedì al sabato, alle otto in punto, fino alla vigilia della sua morte. Era pure un lettore attento alle novità letterarie che gli mandava per posta il suo libraio di Parigi, o a quelle che ordinava da Barcellona tramite il suo libraio locale, sebbene non seguisse la letteratura in lingua spagnola con la stessa attenzione che quella francese. Comunque, non leggeva mai di mattina ma dopo la siesta, per un’ora, e la sera prima di addormentarsi. Finito lo studio, faceva quindici minuti di esercizi respiratori in bagno, davanti alla finestra aperta, respirando sempre dalla parte in cui cantavano i galli, dove c’era l’aria nuova. Poi faceva il bagno, si sistemava la barba e si impomatava i baffi in un ambiente saturo di vera acqua di Colonia di Farina Gegenüber, e si vestiva di lino bianco, con panciotto e cappello floscio, e stivaletti di capretto. A ottantun anni aveva sempre i modi facili e lo spirito festoso di quando era tornato da Parigi, poco dopo la grande epidemia del morbo colera, e i capelli ben pettinati con la riga in mezzo erano uguali a quelli della gioventù, tranne che per il colore metallico. Faceva colazione in famiglia, ma seguendo un regime personale: infuso di fiori di assenzio, per il benessere dello stomaco, e una testa d’aglio i cui spicchi pelava e mangiava a uno a uno masticandoli con scrupolo insieme a una pagnotta di pane, per prevenire gli affanni del cuore. Dopo la lezione era raro che non avesse qualche impegno relativo alle sue iniziative civiche, alle sue milizie cattoliche o alle sue invenzioni artistiche e sociali.
Pranzava quasi sempre a casa, faceva una siesta di dieci minuti seduto sulla terrazza del giardino, ascoltando in sogno le canzoni delle domestiche sotto le fronde dei manghi, ascoltando le grida dei venditori ambulanti della strada, il fragore di olio e motori della baia, i cui effluvi aleggiavano dentro la casa nei pomeriggi caldi come un angelo condannato al marciume. Poi leggeva per un’ora i libri più recenti, soprattutto romanzi e saggi storici, e dava lezioni di francese e di canto al pappagallo domestico che da anni era un’attrazione locale. Alle quattro usciva a visitare i suoi malati, dopo essersi bevuto una brocca grande di limonata con ghiaccio. Malgrado l’età non gli piaceva ricevere i pazienti in studio, e continuava a seguirli a casa loro, come aveva fatto sempre, da quando la città era così tranquilla che poteva andare ovunque a piedi.
Tornato dall’Europa per la prima volta, girava sul landò di famiglia con due sauri dorati, ma allorché questo era divenuto inutilizzabile l’aveva cambiato con una vittoria a un solo cavallo, e aveva continuato a usarla sempre con un certo sprezzo per la moda, quando le carrozze cominciavano ormai a sparire dalla circolazione e le uniche che rimanevano in città servivano solo per portare a spasso i turisti e le corone ai funerali. Sebbene rifiutasse di ritirarsi, era consapevole che lo chiamavano solo per casi disperati, ma riteneva che pure questo fosse un genere di specializzazione. Era in grado di capire cos’aveva un malato solo dal suo aspetto, e diffidava sempre più delle medicine alla moda, e guardava con allarme alla volgarizzazione della chirurgia. Diceva: «Il bisturi è la prova maggiore del fallimento della medicina». Pensava che seguendo un criterio rigoroso ogni medicina fosse un veleno, e che il settanta per cento del cibo consueto affrettasse la morte. «Comunque» era solito dire durante le sue lezioni, «la poca medicina che si conosce la conoscono solo pochi medici.» Dai suoi entusiasmi giovanili era passato a una posizione che lui stesso definiva umanesimo fatalista. «Ognuno è padrone della propria morte, e l’unica cosa che possiamo fare, arrivato il momento, è aiutarlo a morire senza paura né dolore.» Ma nonostante queste idee estreme, che facevano parte del folclore medico locale, i suoi antichi allievi seguitavano a consultarlo anche quando erano ormai professionisti affermati, perché gli riconoscevano quello che allora si chiamava occhio clinico. Comunque era sempre stato un medico caro ed esclusivo, e la sua clientela si era sempre concentrata nelle case avite del quartiere dei viceré.
Le sue giornate erano così metodiche, che sua moglie sapeva dove mandargli un messaggio se si presentava qualche motivo urgente nel corso del pomeriggio. Da giovane si attardava al Caffè della Parrocchia prima di rincasare, sicché aveva perfezionato la sua esperienza negli scacchi complice suo suocero e alcuni rifugiati dei Caraibi. Ma fin dagli albori del nuovo secolo non era più tornato al Caffè della Parrocchia e aveva cercato di organizzare tornei nazionali patrocinati dal Circolo Sociale. A quell’epoca era arrivato Jeremiah de Saint-Amour, con i suoi ginocchi già morti e senza ancora il mestiere di fotografo di bambini, e di lì a tre mesi chiunque sapesse muovere un alfiere su una scacchiera lo conosceva, perché nessuno aveva saputo vincergli una partita. Per il dottor Juvenal Urbino era stato un incontro miracoloso, in un momento in cui gli scacchi si erano trasformati per lui in una passione indomita e non gli rimanevano più molti avversari per saziarla.
Grazie a lui, Jeremiah de Saint-Amour aveva potuto essere quello che era stato fra noi. Il dottor Urbino si era trasformato nel suo protettore incondizionato, nel suo garante per tutto, senza neppure prendersi la briga di controllare chi fosse, né che cosa facesse, né da quali guerre senza gloria venisse in quelle condizioni di invalidità e disordine. Infine gli aveva prestato il denaro per aprire il laboratorio da fotografo, che Jeremiah de Saint-Amour gli aveva restituito con un rigore puntiglioso, fino all’ultimo soldo, da quando aveva ritratto il primo bambino impaurito dal lampo di magnesio.
Era accaduto tutto per gli scacchi. All’inizio giocavano alle sette di sera, dopo cena, con giusti vantaggi per il medico a causa della superiorità notevole dell’avversario, ma sempre meno, finché non si erano ritrovati alla pari. In seguito, quando don Galileo Daconte aprì in un patio il primo cinema, Jeremiah de Saint-Amour fu uno dei suoi clienti più puntuali, e le partite a scacchi si ridussero alle sere in cui non c’erano prime. A quell’epoca era diventato così amico del medico, che questi lo accompagnava al cinema, ma sempre senza la moglie, in parte perché lei non aveva la pazienza di seguire il filo delle vicende difficili, in parte perché gli era sempre sembrato, a puro fiuto, che Jeremiah de Saint-Amour non fosse una buona compagnia per nessuno.
La sua giornata diversa era la domenica. Assisteva alla messa solenne nella cattedrale, e poi rincasava e lì rimaneva a riposare e a leggere sulla terrazza del giardino. Di rado usciva a visitare un malato in una festa comandata, a meno che non fosse di estrema urgenza, e da molti anni non accettava impegni mondani che non fossero inevitabili. Quel giorno di Pentecoste, per una coincidenza eccezionale, si erano prodotti due eventi rari: la morte di un amico e le nozze d’argento di un suo discepolo eminente. Tuttavia, invece di rincasare subito, come aveva previsto dopo aver...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’amore ai tempi del colera
  4. Copyright