Mi raccomando: tutti vestiti bene
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Mi raccomando: tutti vestiti bene

  1. 238 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Mi raccomando: tutti vestiti bene

Informazioni su questo libro

David Sedaris gioca nella neve con le sorelle. Va in vacanza con la famiglia. Pulisce il pavimento della sorella. Trova lavoro. Va al matrimonio del fratello. Dà indicazioni a un viaggiatore che si è perso. Si mangia un hamburger. Si fa misurare la glicemia. Eccetera eccetera. Roba assolutamente normale, no?
Ma è proprio a partire da questa "roba assolutamente normale" che il genio comico di David Sedaris, l'autore di Ciclopi e Holidays on Ice, fa emergere in tutta la sua micidiale crudezza l'esilarante assurdità della vita quotidiana. Se è vero che tutte le famiglie felici si rassomigliano, e che ogni famiglia infelice è infelice a suo modo, va anche detto che ogni famiglia ha il suo ricco campionario di scheletri nell'armadio, di nefandezze condivise, di bizzarrie più o meno edificanti, di bassezze perpetrate o subite. Ed è questo cuore oscuro della vita quotidiana che Sedaris disseziona nei suoi racconti in modo brillante quanto impietoso, dando corpo alla più struggente e spassosa delle commedie umane.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804564034
eBook ISBN
9788852015274

La bambina della porta accanto

«Insomma, fine dell’esperimento» disse mia madre. «Ci hai provato, non ha funzionato, e adesso si volta pagina, no?» Aveva indosso il suo tipico abbigliamento da “rimbocchiamoci le maniche”: gonna turchese sbiadita, fazzoletto di cotone in testa e una delle camicette sportive che mio padre le aveva comprato nella speranza che iniziasse a giocare a golf. «Cominciamo dalla cucina» disse. «È sempre la cosa migliore.»
Stavo di nuovo cambiando casa. Stavolta per colpa dei vicini.
«Oh, no» disse mia madre. «Non dare la colpa a loro. Siamo sinceri.» A lei piaceva esaminare i miei problemi risalendo alla radice, che di solito ero io stesso. Come quando, per esempio, mi beccai un’intossicazione alimentare: la colpa non era del cuoco. «Sei tu che hai voluto a tutti i costi mangiare orientale. Sei stato tu a ordinare il lomain
«Lo mein. Sono due parole.»
«Oh, adesso il signorino parla anche cinese! Di’ un po’, Charlie Chan, come si dice nella tua lingua ‘sei ore tonde tonde di vomito e diarrea?’»
Quel che intendeva dire è che ero stato tirchio. Il ristorante cinese da due soldi, l’appartamento da settantacinque dollari al mese: “Chi più spende, meno spende”. Era uno dei suoi ritornelli preferiti. Ma se uno i soldi non li ha, come fa a spenderli?
«E di chi è la colpa se non hai soldi? Non sono certo io a snobbare i lavori a tempo pieno. E non sono io quella che scialacqua tutta la sua paga in cretinate.»
«Questo lo so da me.»
«Meno male» concluse lei, e quindi ci mettemmo a imballare gli oggetti fragili.
Nella mia versione della storia, il problema cominciò con la vicina di casa, una bambina di terza elementare che, secondo mia madre, avrebbe portato solo guai, come si era capito fin dall’inizio. «Metti insieme i vari pezzi» mi disse la prima volta che la chiamai per raccontarglielo. «Fai un passo indietro. Rifletti.»
Ma su cosa avrei dovuto riflettere? Quella bambina aveva nove anni.
«Oh, sono le peggiori» disse mia madre. «Qual è il suo nome? Brandi? Volgarotto, no?»
«Scusami tanto» le dissi, «ma sto parlando con la stessa persona che ha chiamato sua figlia Tiffany?»
«Avevo le mani legate!» protestò mia madre. «Quei maledetti greci mi avevano messo con le spalle al muro, e tu lo sai.»
«Se lo dici tu.»
«Tornando a questa bambina» proseguì lei, e io intuii che cosa mi avrebbe chiesto prima ancora che lo dicesse. «Suo padre cosa fa?»
Le spiegai che il padre non ce l’aveva, perlomeno non che io sapessi, dopodiché rimasi in attesa che lei si accendesse l’ennesima sigaretta. «Vediamo un po’» disse. «Una bambina di nove anni battezzata con il nome di un superalcolico. Una madre single che vive in un quartiere dove non si avventura nemmeno la polizia. Cos’altro abbiamo?» A sentirla, pareva che quelle persone le avessi plasmate io con la creta, che fosse colpa mia se la bambina aveva nove anni e sua madre non era riuscita a tenersi un marito. «Questa donna… immagino che un lavoro non ce l’abbia, o sbaglio?»
«Fa la barista.»
«Ah, splendido» disse mia madre. «Continua.»
La donna lavorava di sera, e lasciava la figlia a casa da sola dalle quattro del pomeriggio fino alle due o tre del mattino. Erano entrambe bionde, con i capelli quasi bianchi, e ciglia e sopracciglia pressoché invisibili. La madre se le scuriva con la matita per gli occhi, ma la bambina sembrava proprio non averle. Il suo viso era paragonabile al clima di quei luoghi dove le stagioni non si distinguono l’una dall’altra. Di tanto in tanto, intorno agli occhi le compariva una sfumatura violacea. Poteva spuntarle un labbro gonfio o un graffio sul collo, ma i suoi lineamenti non tradivano nulla.
Una bambina così ispirava compassione. Senza padre, senza sopracciglia, e con quella madre. I nostri appartamenti avevano una parete in comune, e ogni sera io sentivo la madre rientrare dal lavoro. Il più delle volte era in compagnia, ma che fosse sola o con qualcuno trovava sempre una scusa buona per tirare giù la figlia dal letto e sgridarla. Brandi aveva lasciato una ciambella sul televisore, Brandi si era dimenticata di svuotare la vasca da bagno. Sono lezioni di vita importanti, ma altrettanto importante è dare il buon esempio. Non ero mai entrato in casa loro, ma ciò che avevo intravisto dalla porta era piuttosto squallido. Non semplicemente disordine o caos, ma disperazione, come nel covo di un depresso.
Con la vita che faceva, non fu una sorpresa che Brandi si affezionasse a me. Una madre normale probabilmente si sarebbe fatta qualche domanda – la figlia di nove anni che passa tanto tempo con un uomo di ventisei – ma quella non sembrava darvi peso. Per lei non ero altro che un sostegno gratuito: un baby-sitter gratis, un distributore di sigarette gratis, praticamente un intero negozio. A volte la sentivo attraverso la parete: «Ehi, vai a chiedere al tuo amico un rotolo di carta igienica». «Chiedi al tuo amico di farti un panino.» Se aspettava visite e voleva starsene da sola, sbatteva la bambina fuori di casa. «Perché non vai dal tuo amichetto a vedere cosa fa?»
Prima che mi trasferissi lì, la madre di Brandi aveva sfruttato la coppia che viveva al piano di sotto, ma era evidente che ormai i rapporti si fossero raffreddati. Accanto ai carrelli della spesa incatenati al loro ballatoio, c’era un cartello acquistato in un negozio con la scritta VIETATO L’INGRESSO, seguito da una scritta a mano: “E soprattutto a te, Brandi!!!”.
Anche al secondo piano c’era un ballatoio, su cui si affacciavano la porta della stanza di Brandi e della mia. Pur essendo, in teoria, uno spazio comune ai due appartamenti, di fatto era sempre invaso dalla loro spazzatura, ragion per cui me ne servivo raramente.
«Non vedo l’ora che tu esca dalla fase-topaia» aveva detto mia madre dopo una prima occhiata all’edificio. Parlava come se lei fosse cresciuta nel lusso, anche se in realtà la casa della sua infanzia era molto peggio. Gli abiti che indossava, i delicati ponti che le tenevano i denti al loro posto: era tutto pura invenzione. «Tu ti scegli i quartieri malfamati perché così puoi sentirti superiore» diceva, tipico preludio a una lite. «Nella vita uno deve puntare in alto. Ogni tanto può anche fermarsi dov’è, per un po’, ma che senso ha puntare in basso?»
Essendo relativamente nuova alla classe media, temeva che i figli potessero riscivolare nel mondo della pubblica assistenza e delle dentature in cattivo stato. La vera raffinatezza non ci era ancora entrata nel sangue, o almeno così credeva lei. I miei vestiti usati la mandavano su tutte le furie, così come il materasso di seconda mano, adagiato, senza il lusso di una rete, sul pavimento di legno. «Non è ironico» mi diceva. «Non è etnico. È da maiali.»
Le suite matrimoniali andavano bene per gente come i miei genitori, ma in quanto artista io preferivo vivere senza comodità. La povertà conferiva ai miei dilettantismi artistici una patina di autenticità assai necessaria, e immaginavo di ripagare il mio debito risollevando magnanimamente le vite di quelli che mi circondavano, non in massa, ma uno a uno, alla vecchia maniera. Era, pensavo, il minimo che potessi fare.
Raccontai a mia madre che avevo lasciato entrare Brandi in casa mia, e lei sospirò profondamente all’altro capo della linea. «E scommetto che le avrai offerto una visita guidata, vero? Mister Presuntuoso. Mister Grand’uomo.» Su quella frase litigammo pesantemente. Non la chiamai per due giorni. Poi il telefono squillò. «Figlio mio» mi disse. «Non hai idea del guaio in cui ti stai cacciando.»
Una bambina maltrattata viene a bussare alla tua porta, e tu che fai? La mandi via?
«Esatto» disse mia madre. «Anche a calci, se necessario.»
Ma io non ci riuscii. Quella che mia madre definiva ostentazione, per me era stata una semplice visita turistica. «Questo è il mio impianto stereo» avevo detto a Brandi. «Questa è la padella elettrica che mi hanno regalato a Natale, e questo invece l’ho preso in Grecia l’estate scorsa.» Ero convinto di mostrarle oggetti che chiunque potesse possedere e apprezzare, mentre lei non sentiva altro che il pronome possessivo. «Questa è la mia fascia d’onore» voleva dire “Appartiene a me. Non è tua”. Di tanto in tanto le regalavo qualcosa, convinto che l’avrebbe custodita per sempre come un tesoro: una cartolina dell’Acropoli, qualche busta prestampata, le salviette umidificate della Olympic Airlines. «Per me?» diceva lei. «Davvero?»
L’unica cosa che possedeva, l’unico oggetto speciale, era una bambolina alta circa trenta centimetri, chiusa in una scatola di plastica trasparente. Era la versione economica di una di quelle bambole provenienti da vari paesi, nella fattispecie la Spagna, con un vestitino rosso barbabietola e una mantiglia floscia adagiata sulla testa. Alle sue spalle, stampato sul cartone, era ritratto il luogo di provenienza: una strada, costeggiata su entrambi i lati da piñatas, che risaliva una collina fino a una polverosa plaza de toros. La bambola era stata un regalo della nonna, che aveva quarant’anni e viveva in una roulotte accanto a una base militare.
«Cos’è» disse mia madre, «uno sceneggiato-verità? Ma chi è questa gente?»
«Questa gente» le risposi, «sono i miei vicini di casa, e ti sarei grato se non ti facessi beffe di loro. La nonna non ne ha affatto bisogno, io non ne ho bisogno, e sono sicuro che nemmeno una bambina di nove anni ne ha bisogno.» Non le dissi che la nonna era soprannominata Canaglia, o che nelle foto mostratemi da Brandi indossava un paio di jeans tagliati all’altezza della coscia e un braccialetto alla caviglia.
«Con lei non ci parliamo più» mi aveva detto Brandi quando le avevo restituito la fotografia. «È uscita dalle nostre vite, e noi ne siamo felici.» La sua voce era monotona, robotica, ed ebbi l’impressione che quella frase gliel’avesse inculcata in testa la madre. Usava un tono simile quando presentava la sua bambola: «Non è per giocare. È solo da guardare».
Chiunque avesse imposto quella regola, l’aveva palesemente supportata con una minaccia. Brandi faceva scorrere un dito lungo i bordi della scatola, in preda alla tentazione, ma io non la vidi mai aprirne il coperchio. Era come se la bambola potesse esplodere, qualora rimossa dal suo ambiente naturale. Il suo mondo era quella scatola, ed era un mondo davvero strano.
«Vedi?» mi disse Brandi un giorno. «Sta tornando a casa per cucinare quelle conchiglie.»
Si riferiva alle nacchere che penzolavano dal polso della bambola. Era un pensiero buffo, infantile, e probabilmente avrei dovuto darle corda, anziché fare il saputello. «Potrebbero essere conchiglie se fosse una bambola americana» le dissi. «Ma lei viene dalla Spagna, e quelle cose si chiamano nacchere.» Le scrissi la parola su un pezzo di carta. «Nacchere. Cercalo sul dizionario.»
«Ma lei non viene dalla Spagna, viene da Fort Bragg.»
«Be’, lì l’avranno comprata» risposi, «ma lei, in teoria, è spagnola.»
«E con questo cosa vorresti dire?» In assenza di sopracciglia era difficile stabilirlo con esattezza, ma credo che fosse arrabbiata con me.
«Non vorrei dire proprio niente» le dissi. «È la pura e semplice verità.»
«Dici le bugie. Quel posto lì non esiste.»
«Certo che esiste» ribattei. «Si trova accanto alla Francia.»
«Sì, figurati. E la Francia cosa sarebbe, un negozio?»
Non potevo credere alla conversazione che stavo intrattenendo. Come si fa a non sapere che la Spagna è un paese? Anche se uno ha solo nove anni, non può non averlo sentito dire almeno alla televisione, o da qualche altra parte. «Oh, Brandi» dissi. «Dobbiamo procurarti una cartina geografica.»
Essendo incapace di comportarmi diversamente, ben presto ricaddi all’interno di uno schema fisso. Lavoravo part-time come muratore, e tornavo a casa alle 17.30 in punto. Cinque minuti dopo, Brandi veniva a bussare alla mia porta, e rimaneva lì a sbattere le palpebre finché io non la lasciavo entrare. All’epoca mi era venuto il pallino delle sculture in legno, e scolpivo statuette le cui teste avevano la forma degli utensili che usavo di giorno in giorno: martello, accetta, spazzola metallica. Prima di mettermi al lavoro, piazzavo sulla mia scrivania qualche foglio di carta e delle matite colorate. «Disegna la tua bambola» le dicevo. «Copia l’arena dei tori che c’è sullo sfondo. Esprimiti!» Incoraggiavo Brandi ad ampliare i suoi orizzonti, ma di solito lei gettava la spugna dopo pochi minuti, dicendo che era troppo difficile.
Perlopiù osservava, spostando lo sguardo dal mio coltellino alla bambola spagnola parcheggiata sulla scrivania davanti a lei. Mi raccontava quant’erano stupidi i suoi insegnanti, e poi mi chiedeva che cos’avrei fatto se avessi avuto un milione di dollari. Se allora avessi avuto un milione di dollari probabilmente li avrei spesi in droghe fino all’ultimo centesimo, ma non lo ammettevo perché era mio proposito dare il buon esempio. «Vediamo un po’» dicevo. «Se avessi tutti quei soldi, con tutta probabilità li regalerei.»
«Come no. Cos’è, li daresti alla gente per strada?»
«No, creerei una fondazione e cercherei di migliorare la vita degli altri.» A quel punto persino la bambola si mordeva la lingua per non ridere.
Quando le domandavo che cosa avrebbe fatto lei con un milione di dollari, Brandi descriveva automobili e vestiti e grossi braccialetti carichi di pietre preziose.
«E il tuo prossimo? Non vorresti renderlo felice?»
«No. Io voglio farmi invidiare.»
«Non è vero» le dicevo.
«Altroché.»
«Ma Brandi!» Le preparavo un bicchiere di latte al cioccolato, e lei continuava a stilare la sua lista più o meno fino alle 18.55, quando il momento dell’amicizia si concludeva ufficialmente. Se il lavoro era andato a rilento e non avevo troppi trucioli da raccogliere, la lasciavo rimanere un paio di minuti extra, ma non di più.
«Perché devo andarmene in questo preciso istante?» mi chiese una sera. «Cos’è, devi lavorare?»
«Be’, no. Non esattemente.»
«E allora perché tanta fretta?»
Non avrei mai dovuto dirglielo. Il vantaggio dell’essere un ossessivo-compulsivo è che sei sempre in orario al lavoro. Lo svantaggio è che sei sempre in orario su tutto. Sciacquare la tazza del caffè, farti un bagno, portare il bucato alla lavanderia automatica: i tuoi andirivieni non hanno segreti, non c’è spazio per la spontaneità. In quel periodo della mia vita, andavo nello stesso bar quasi tutte le sere, inforcando la bicicletta alle sette in punto e tornando alle nove spaccate. Non cenavo mai lì, mi limitavo a bere caffè, seduto sempre nello stesso separé e rivolto sempre nella stessa direzione, leggendo libri della biblioteca per un’ora esatta. Dopodiché andavo a fare la spesa. Ci andavo anche se non mi serviva niente, perché a tale scopo era destinato quel particolare momento della giornata. Se non c’era molta coda tornavo a casa per la strada più lunga, oppure facevo qualche giro dell’isolato. Ero incapace di rientrare in anticipo perché non era previsto che trascorressi quei cinque, dieci minuti nell’appartamento.
«E cosa succede se una volta arrivi dieci minuti in ritardo?» mi chiese Brandi. Anche mia madre mi faceva spesso la stessa domanda. Tutti quanti me la facevano. «Secondo te crolla il mondo se entri da quella porta alle nove e quattro?»
Lo dicevano per scherzo, ma la risposta era sì. Era esattamente ciò che pensavo mi sarebbe capitato. Il mondo sarebbe crollato. Le sere che trovavo il mio separé occupato da qualche altro cliente ne uscivo distrutto. «C’è qualche problema?» mi chiedeva la cameriera, e io non riuscivo nemmeno ad aprire bocca per risponderle.
Brandi si era inserita nella mia tabella di marcia da poco più di un mese, quando mi accorsi che in casa mancavano alcune cose: gomme da matita, certi blocchetti di ricevute che avevo portato dalla Grecia. Rovistando nei cassetti e negli armadi mi resi conto che mancavano altre cose: una scatola di puntine, un portachiavi a forma di arachide.
«So già cosa mi stai per dire» disse mia madre. «Quella ladruncola ha aperto la porta e ti è entrata in casa mentre eri al bar. È così?»
Odiai la rapidità con cui l’aveva capito.
Quando affrontai Brandi, lei vuotò il sacco istantaneamente. Fu come se morisse dalla voglia di confessare, e addirittura avesse provato e riprovato più volte la confessione. Le scuse balbettate, la richiesta di perdono. Mi abbracciò all’altezza della vita, e quando infine si staccò pensai che mi sarei trovato la camicia bagnata di lacrime. Non fu così. Non so perché a quel punto feci quello che feci, o meglio, forse lo so. Rientrava tutto nel mio ridicolo piano per impartire il buon esempio. «Tu lo sai cos’è che dobbiamo fare ad...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Noi e loro
  5. Scenda la neve
  6. Il Bagnasciuga
  7. Carte false
  8. Contemplare le stelle
  9. Monie fa la differenza
  10. Cambiamenti spiccioli
  11. Egira
  12. Homo immobiliaris
  13. La bambina della porta accanto
  14. Il lavoro nel sangue
  15. Fine di una storia
  16. Ripeti con me
  17. Tra i sei e gli otto uomini neri
  18. Il Gallo si sistema
  19. Possesso
  20. Mettiamoci un coperchio sopra
  21. Un problema spinoso
  22. Il pollo nel pollaio
  23. Chi è lo chef, in questa casa?
  24. Baby Einstein
  25. La nuit dei morti viventi
  26. Indice