Che struggimento nel mio cuore! È passato tanto tempo.
«Non posso accompagnarti dentro, Krista. Ma non andrò via fino a quando non sei in casa al sicuro, te lo prometto.»
Quella sera di novembre al crepuscolo percorrevamo in macchina la strada lungo il fiume – il Black River, nella parte meridionale della contea di Herkimer, nello stato di New York – a sudovest della città di Sparta, una remota giornata avvolta nella nebbia, in cui si percepiva un lieve sentore umidiccio e metallico: il fiume, la pioggia.
Per noi figlie, per sempre figlie, a qualsiasi età, l’odore del fumo di tabacco e dell’alcol, che spesso si accompagnavano, lungi dall’essere sgradevoli erano estremamente invitanti, seducenti.
La macchina correva lungo il fiume, diretta verso casa. Alla guida c’era un uomo, mio padre, Edward Diehl – “Eddy Diehl” lo chiamavano, all’epoca a Sparta era una persona piuttosto conosciuta – “Eddy Diehl”, mio padre, che una notte finì crivellato di colpi, diciotto pallottole esplose in una decina di secondi da un improvvisato plotone di esecuzione di poliziotti del posto.
Quella voce roca, un po’ canzonatoria. A una figlia piace essere presa in giro, sa che è un segno d’amore.
«Diciamo che ci hanno bloccato, micetta. Non c’è altro da aggiungere.»
Mi misi a ridere. Qualunque cosa dicesse papà mi suscitava quasi sempre il riso, e rispondevo Certo.
A una sua osservazione bisognava replicare con prontezza, anche se non era una domanda. Altrimenti ti guardava storto, non si accigliava ma nemmeno sorrideva. Ti assestava un colpetto nelle costole Eh? Dico bene?
Naturalmente papà mi stava riportando a casa un po’ in ritardo, non ci badava. In quei casi era chiaro che non avevo preso l’autobus e mi avevano accompagnato a casa.
Sbadato, ecco com’era Eddy Diehl. Suo malgrado.
Quella sera di novembre, non molto tempo prima di finire ammazzato da un plotone di esecuzione di poliziotti, papà mi stava riaccompagnando nella casa dalla quale mia madre l’aveva scacciato, in circostanze per lui umilianti. Era una comune abitazione di legno bianca a due piani, a cui mio padre, forse ancora adesso, era molto affezionato: l’aveva in parte costruita lui, con le sue mani; aveva diretto i lavori di tinteggiatura e di posa in opera del tetto; una casa come tante lungo la strada che costeggiava il fiume; sulla facciata nord, la più esposta, la vernice cominciava a scrostarsi, le imposte e gli infissi necessitavano di manutenzione; una casa dalla quale molti anni prima Edward Diehl era stato bandito da un’ordinanza emessa dal tribunale penale della contea di Herkimer, Sezione servizi familiari. (Io e mio fratello non avevamo mai visto quel documento, ma sapevamo che esisteva, nascosto da qualche parte tra le carte di nostra madre.)
Lei non voleva mostrarci tali documenti, temeva – un timore irrazionale, tipico di nostra madre – che uno di noi, presumibilmente io, potesse strappare quell’ordinanza.
Non ero il genere di figlia capace di un gesto simile. Ne sono convinta. Ma ero il tipo che si aggrappava a una promessa fatta con noncuranza Non andrò via fino a quando non sei in casa al sicuro, micetta.
Al sicuro da quali pericoli, papà non lo disse.
Ero molto emozionata, papà mi aveva chiamata micetta, come quand’ero piccola, era un po’ che non sentivo quel vezzeggiativo. Anche se non ero più una bambina, e papà doveva saperlo.
Una volta l’avevo sorpreso a osservarmi. Era accaduto due anni prima, frequentavo la terza media. Avevo tredici anni ed ero più bassa di quattro o cinque centimetri di quanto fossi adesso, che di anni ne avevo quindici, non ancora un’adolescente ma neanche più una bambina, piuttosto una ragazzina che non dimostrava la sua età. Stavo attraversando una strada del centro, a diversi isolati dalla scuola, insieme a due compagne di classe. Strillavo, ridacchiavo e correvo, quando un carro attrezzi puntò minaccioso verso di noi, l’autista (maschio, giovane) si divertì a spaventarci sfrecciandoci (spericolatamente) vicino a tutta velocità e schizzandoci le gambe nude con l’acqua di una cunetta; appena raggiunsi il marciapiede, ormai fuori pericolo, ridendo, col fiato corto dopo quel brivido di paura, scorsi per caso un uomo che stava salendo su una macchina parcheggiata lungo il marciapiede, ci fissava con insistenza, guardava i nostri vestiti e le gambe bagnate; alla vista di quell’uomo – di profilo, aveva folti capelli color ruggine, lo intravidi di sfuggita, stavo correndo e non ci fermammo – pensai Quello è papà?
In seguito mi convinsi che non era lui. Non era papà. La macchina su cui era salito non l’avevo mai vista.
Naturalmente non mi ero voltata a guardare. Quando hai tredici anni e un adulto ti fissa per strada, non ti volti a guardare.
Quel giorno di due anni prima pioveva, come spesso accade a Sparta. Dal lago Ontario verso nord e verso ovest, dai Grandi Laghi e oltre – li conoscevo solo per averli visti sulle carte geografiche, mi piaceva contemplarli: parevano mirabili formazioni nuvolose concatenate tra loro e avevano nomi bellissimi, Ontario, Erie, Huron, Michigan, Superiore; mio padre aveva promesso a me e a Ben che un giorno ci avrebbe portati lì, per una “crociera in yacht” – arrivavano sempre nubi cariche di pioggia, gigantesche incudini grigio-nerastre che parevano sorgere per un malevolo incanto.
Che avvolgeva quei luoghi, e i miei cari.
Dunque, quella sera pioveva. E sullo stretto manto d’asfalto di Huron Pike Road la visibilità era ridotta. Muri di pallida nebbia simili a un’amnesia si paravano davanti alla macchina di papà, le luci gialle dei fari che sembravano così potenti erano inghiottite dalla foschia. In condizioni del genere è facile perdere l’orientamento, dimenticare dove si è diretti e perché; le rade case erano offuscate dalla nebbia e le cassette postali si profilavano nell’oscurità come braccia improvvisamente alzate. «Papà? È qui…» lo avvertii, perché d’un tratto al limitare del vialetto vidi spuntare nella nebbia la nostra cassetta delle lettere, e mi sembrava che mio padre non si fosse accorto di essere arrivato.
Papà emise un grugnito, come a dire Sì, lo so dove diavolo abiti.
Avrebbe imboccato il vialetto? – quel lungo viottolo costellato di pozzanghere che si perdeva nell’oscurità, addentrandosi come una galleria verso la nostra casa che, nel buio fitto, era appena visibile dalla strada e riluceva d’un bianco spettrale. Dalle finestre del soggiorno si scorgeva solo una flebile luce, quelle del piano superiore erano buie. Si sarebbe detto che a casa non ci fosse nessuno, ma io sapevo che mia madre era sul retro, in cucina, dove trascorreva la maggior parte del tempo. Se c’era anche Ben, molto probabilmente era su nella sua stanza, anch’essa affacciata sul retro.
Prima di andarsene di casa – cioè prima che l’ordinanza del tribunale glielo imponesse – mio padre aveva riparato il ripido tetto di assicelle, per un’infiltrazione nella soffitta; aveva risistemato l’impianto elettrico nello scantinato e rimesso a posto i gradini dell’entrata sul retro. Un tempo faceva il falegname, ed era in gamba; adesso lavorava come caposquadra in una impresa edile di Sparta.
Aveva effettuato lavori di falegnameria un po’ ovunque in quella casa, al pianoterra e a quello superiore, segno della cura che vi riservava. Era evidente l’attaccamento di Edward Diehl alla propria famiglia.
Papà non imboccò il vialetto, si fermò sulla strada.
Mi sembrava quasi di sentirlo mormorare tra sé Maledizione, non entro.
Altrimenti si sarebbe avvicinato troppo al luogo della sua vergogna. Al luogo della sua espulsione. Al luogo che gli suscitava dolore e ira, un’ira a volte omicida, dove per lui, bandito da quella casa per disposizione del tribunale, con l’alito che puzzava di whisky e il volto infiammato da una rabbia profonda, violenta e furibonda, era troppo pericoloso addentrarsi.
Trovate strano che io, sempre vissuta in Huron Pike Road, figlia di un uomo come tanti che all’epoca vivevano in quella strada, lungi dal preoccuparmi per l’alito puzzolente di whisky di mio padre ne ricavassi una sensazione di conforto? (Bastava che mia madre non venisse a saperlo. Ma non c’era bisogno che lo sapesse.) Una sensazione che recava un certo rischio, tuttavia confortante, in quanto familiare, visto che si trattava di papà.
D’un tratto si chinò per darmi un umido bacio all’angolo della bocca, l’ispida barba sulle guance mi fece il solletico graffiandomi il viso. I suoi erano i gesti impulsivi e impacciati di un uomo che aveva sempre seguito l’istinto, del quale cominciava ormai a diffidare, come della propria capacità di giudizio e dell’opinione che aveva di sé. Non appena mi baciò, in modo rude, un po’ troppo energico – voleva che ricordassi quel bacio – papà mi spinse via, eravamo entrambi violentemente arrossiti.
«Buonanotte, micetta.»
Non disse ciao, ma buonanotte. Per me era importante.
Non sembrava che piovesse forte, ma appena scesi dalla macchina di papà e mi avviai di corsa verso casa una pioggia gelida prese a venir giù a catinelle. Fui investita da un’impetuosa raffica di vento che sollevava foglie fradice d’acqua. Correvo impacciata a capo chino, a perdifiato, mi veniva da ridere, ero così goffa, lo zainetto che stringevo in mano mi sbatteva sulle gambe, e per poco non incespicai. Mi seccava l’idea che mio padre mi stesse guardando. A metà del vialetto mi voltai e vidi – in qualche modo me lo aspettavo – i rossi fanalini di coda della macchina di mio padre svanire nella nebbia.
«Buonanotte, papà!…»
Magari penserete Ma glielo aveva promesso! Doveva aspettare fino a quando lei non fosse stata al sicuro in casa.
Se credete che rimasi delusa, ferita, o almeno sorpresa, sbagliate; non sono mai stata una figlia che giudica il proprio padre; proprio lui, giudicato a torto in modo così severo e crudele dagli altri; e comunque non vorrei ricordare un’offesa tanto insignificante e banale, un malinteso, un momento di distrazione da parte di un uomo che aveva per la mente ben altre preoccupazioni, attratto com’era sempre più vorticosamente e inesorabilmente nel gorgo che l’avrebbe portato alla morte e all’oblio, un episodio avvenuto una piovosa sera di novembre del 1987, in fondo a quel vialetto ghiaioso costellato di pozzanghere lucenti, quando avevo quindici anni e non vedevo l’ora di iniziare a vivere davvero.
Il rimprovero fu come una freccia scoccata da un arco, diretta al mio cuore.
Una nota di rimprovero appena percettibile, lo si sarebbe quasi scambiato – se questo fosse un telefilm comico, e voi spettatori non abituali – per un rimbrotto scherzoso, birichino.
«Sei stata con lui, Krista, vero.»
Mia madre non pose l’accento sulla parola lui. Col tono lievemente accusatorio della mamma di una sit-com, quel “lui” suonava piatto come cemento.
E non era una domanda. Era un’affermazione: un rimprovero.
«Almeno potevi chiamare. Avvertirmi che non prendevi l’autobus. Se non pensassi solo a te – e a lui – capiresti che…»
Che ero in pensiero. Oppure offesa.
È facile ferire l’orgoglio di una madre, non crediate che l’amore di una madre sia incondizionato.
Ancora col fiatone per la corsa sotto la pioggia, indignata e con i capelli scarmigliati, mi sfilai gli stivaletti con un calcio e appesi con gesti maldestri il giaccone al gancio accanto alla porta, quasi sperando che si strappasse. Era un capo elegante color porpora, in finta seta, con rifiniture crema, lo avevo comprato di recente e quando era ancora nuovo mi piaceva molto, ma ormai lo consideravo dozzinale e troppo pretenzioso. Cercavo di evitare mia madre, di sfuggire il suo sguardo accusatorio, in cui si scorgeva un misto di sollievo – era stata davvero in pensiero per me, non sapendo che fine avessi fatto – e di rabbia crescente. Nella finestra quadrata sopra il piano di lavoro, anche quella, come gran parte della cucina, rifatta da mio padre, per un gioco di prospettiva si riflessero le nostre immagini; ma eravamo indistinguibili, non si capiva chi fosse la madre e chi la figlia. Con voce ingannevolmente calma, mia madre disse: «Krista, almeno guardami. Sei… sei stata… con lui?».
Adesso l’enfasi su quel lui c’era. Inconfondibile.
Una cinghia dello zainetto mi si era impigliata nei piedi. La scalciai via, sentivo il viso in fiamme. Sì, mormorai con un filo di voce, perché non sapevo mentire a mia madre, conosceva così a fondo il mio cuore ribelle, e quando mi chiese cosa avevo detto, con aria colpevole ma spavalda ripetei: «Sì. Sono stata con… papà».
Papà era una parola che usavo da bambina. Ben non la pronunciava da anni.
«E dove sei stata, con “papà”?»
«In giro in macchina. Da nessuna parte.»
«“Da nessuna parte”.»
«Lungo il fiume. In nessun posto speciale.»
Invece era speciale. Perché stavo da sola con papà.
Il tradimento è qualcosa di doloroso. Il tradimento è la ferita più profonda. Il tradimento è ciò che rimane dell’amore, quando questo finisce.
Mia madre si chiamava Lucille. Nessuno la chiamava “Lucy”. In frangenti simili, e sempre più mentre crescevo, sembrava avvinta, tormentata, da un’acuta consapevolezza della propria autorità e dalla constatazione che adesso andava scemando; anche nelle discussioni più banali accampava misteriose pretese che a quanto pareva non venivano mai del tutto soddisfatte. Da quando suo marito – ora ex marito – cioè mio padre, ci aveva definitivamente lasciato, o – questo a me e a Ben non era mai stato chiaro – era stato costretto a la...