Fleur Daxeny arricciò il naso. Mordendosi il labbro, inclinò la testa di lato e per qualche secondo osservò il proprio riflesso in silenzio. Poi fece una risatina.
«Non riesco a decidermi!» esclamò. «Sono tutti favolosi.»
La commessa di “Tanto di cappello!” scambiò un’occhiata esasperata con il giovane parrucchiere che sedeva nervosamente in un angolo, sopra uno sgabello dorato. Era arrivato nella suite di Fleur mezz’ora prima e stava ancora aspettando di cominciare. La commessa intanto iniziava a chiedersi se non stesse sprecando il proprio tempo.
«Mi piace moltissimo questo con la veletta» disse Fleur all’improvviso, afferrando una minuscola creazione in satin nero con la veletta lievemente arricciata. «Non è elegante?»
«Molto elegante» confermò la commessa. Con un balzo in avanti, riuscì ad afferrare al volo il cappellino che Fleur stava lasciando cadere sul pavimento.
«Sì, molto» fece eco il parrucchiere dal suo angolo, poi diede un’occhiata di nascosto all’orologio. Doveva scendere di nuovo nel salone tra quaranta minuti. Trevor non sarebbe stato contento. Forse avrebbe fatto meglio a telefonare per spiegare la situazione. Forse…
«Va bene!» disse Fleur. «Ho deciso.» Sollevò la veletta e sorrise. «Oggi metterò questo.»
«Un’ottima scelta, signora» commentò la commessa, sollevata. «È delizioso.»
«Delizioso» sussurrò il parrucchiere.
«Quindi, se potesse mettermi gli altri cinque nelle scatole…» Fleur sorrise enigmaticamente al suo riflesso nello specchio e si abbassò di nuovo la veletta sul viso. La commessa di “Tanto di cappello!” la guardò a bocca aperta.
«Desidera comprarli tutti?»
«È che non riesco proprio a scegliere. Sono tutti troppo perfetti.» Fleur si voltò verso il parrucchiere: «Allora, tesoro. Puoi inventarti qualcosa di speciale che stia bene con questo cappellino?». Il ragazzo la fissò e arrossì.
«Oh. Sì. Credo di sì. Cioè…» Ma lei si era già voltata.
«La pregherei di segnare tutto sul mio conto dell’hotel» stava dicendo alla commessa. «Nessun problema, vero?»
«Va benissimo, signora» rispose la donna. «E, come ospite dell’hotel, ha diritto a uno sconto del quindici per cento.»
«D’accordo» disse Fleur, facendo un piccolo sbadiglio. «Mi interessa solo che la fattura venga addebitata sul mio conto.»
«Vado immediatamente a sistemare tutto.»
«Bene» disse Fleur. Mentre la commessa usciva dalla stanza, si voltò verso il giovane parrucchiere con un sorriso radioso. «Sono tutta tua.»
La sua voce era bassa, melodiosa e curiosamente priva di accento. All’orecchio del parrucchiere adesso suonava anche leggermente strafottente. Il ragazzo arrossì ancora di più mentre si avvicinava a Fleur. Si fermò alle sue spalle, raccolse i capelli in una mano e li lasciò ricadere in una pesante cascata rosso-oro.
«I suoi capelli sono in ottima salute» disse goffamente.
«Non sono belli?» fece Fleur, compiaciuta. «Ho sempre avuto bei capelli. E una bella pelle, naturalmente.» Inclinò la testa, aprì appena l’accappatoio dell’hotel e si passò delicatamente la guancia sulla spalla morbida. «Quanti anni pensi che abbia?» domandò all’improvviso.
«Io non… non saprei…» cominciò a balbettare il ragazzo.
«Ho quarant’anni» disse Fleur pigramente. Chiuse gli occhi. «Quaranta» ripeté in tono riflessivo. «È una cosa che dà da pensare, no?»
«Lei non dimostra…» cominciò il parrucchiere con imbarazzata cortesia. Fleur aprì un occhio verde da gatto.
«Non dimostro quarant’anni? E quanti ne dimostro?»
Il ragazzo la guardò a disagio. Aprì la bocca per parlare, poi la richiuse. Il fatto era, pensò improvvisamente, che quella donna incredibile sfuggiva a ogni classificazione. Sembrava non avere età, non appartenere ad alcuna classe sociale, era indefinibile. Incontrando lo sguardo di Fleur, avvertì un brivido ed ebbe la consapevolezza, improvvisa e nettissima, che quel momento fosse in qualche modo importante. Con le mani che gli tremavano leggermente, lasciò scorrere le dita sulla massa setosa dei capelli di Fleur.
«Lei dimostra l’età che dimostra» sussurrò. «I numeri non c’entrano.»
«Che dolce» disse Fleur in tono leggero. «E adesso, tesoro, prima di cominciare con i capelli, perché non mi ordini una bella coppa di champagne?»
Il ragazzo lasciò ricadere le mani in un gesto di lieve delusione e andò ubbidiente al telefono. Mentre digitava il numero, la commessa di “Tanto di cappello!” rientrò nella suite con una pila di cappelliere. «Ecco fatto!» esclamò affannata. «Se vuole firmare qui…»
«Una coppa di champagne, per favore» stava dicendo il parrucchiere. «Camera 301.»
«Mi stavo chiedendo…» cominciò la commessa cautamente. «È sicura di volere tutti e sei i cappellini in nero? Abbiamo altri colori stupendi.» Si picchiettò gli incisivi con aria riflessiva. «C’è un verde smeraldo meraviglioso che starebbe d’incanto con i suoi capelli…»
«Nero» dichiarò Fleur decisa. «Mi interessa solo il nero.»
Un’ora più tardi Fleur si guardò allo specchio, sorrise e annuì. Indossava un semplice tailleur nero fatto su misura che le stava a pennello, e ai piedi calzava sobrie scarpe nere. Le calze, dello stesso colore, facevano risaltare le gambe snelle. I capelli erano stati lisciati e raccolti in un impeccabile chignon; il cappellino che aveva scelto era perfetto.
L’unica nota vivace era un accenno di seta rosa salmone sotto la giacca. Fleur aveva sempre un tocco di colore, per quanto severo potesse essere l’abbigliamento o l’evento. In mezzo a una folla di deprimenti abiti scuri, una minuscola pennellata di rosa salmone avrebbe attirato inconsciamente l’occhio su di lei. La gente l’avrebbe notata senza capire bene perché. Ed era esattamente questo che Fleur voleva.
Continuando a guardarsi allo specchio, abbassò la veletta sul viso. L’espressione compiaciuta scomparve, sostituita da un’altra di profonda, imperscrutabile tristezza. Fissò in silenzio il proprio riflesso per qualche minuto, poi afferrò la borsetta di pelle nera e la tenne lungo il fianco. Annuì lentamente un paio di volte, osservando il modo in cui la veletta creava ombre misteriose sul viso.
Il telefono squillò e Fleur sembrò riprendere vita.
«Pronto?»
«Dove sei stata? Ho cercato di chiamarti.» La voce roca e l’accento greco erano inconfondibili. Fleur, irritata, corrugò la fronte.
«Sakis! Tesoro, sono un po’ di fretta…»
«Dove stai andando?»
«Da nessuna parte in particolare. Solo a fare un po’ di shopping.»
«Perché mai dovresti fare shopping? Ti ho comprato dei vestiti a Parigi.»
«Lo so, tesoro, ma questa sera volevo sorprenderti con qualcosa di nuovo.» La voce di Fleur grondava persuasione e affetto. «Qualcosa di elegante, di sexy…» Ebbe un’ispirazione improvvisa. «Oh, senti, Sakis» aggiunse con circospezione «mi chiedevo se non fosse una buona idea pagare in contanti, in modo da avere un po’ di sconto. Posso farmi dare dei soldi qui in hotel, vero? Dal tuo conto?»
«Solo fino a una certa cifra. Diecimila sterline al massimo, mi pare.»
«Non ci andrò neppure vicino!» La voce di Fleur era allegra e spumeggiante. «Voglio prendere solo un vestito! Cinquecento sterline al massimo.»
«E appena l’avrai comprato, tornerai immediatamente in hotel.»
«Naturalmente, tesoro.»
«Niente naturalmente. Questa volta non devi fare tardi. Hai capito? Non-devi-fare-tardi.» Le parole erano state abbaiate come un ordine. Fleur fece una smorfia, irritata. «È chiaro? Leonidas passerà a prenderti alle tre. L’elicottero decollerà alle quattro. I nostri ospiti arriveranno alle sette e tu dovrai essere pronta a riceverli. Non voglio che ti presenti in ritardo come l’ultima volta. È stato… È stato sconveniente. Mi stai ascoltando? Fleur?»
«Certo che ti ascolto, ma stanno bussando alla porta. Vado a vedere chi è e…»
Aspettò un paio di secondi, poi riattaccò con decisione. Un attimo dopo sollevò di nuovo il ricevitore.
«Pronto? Può mandare qualcuno a prendere il mio bagaglio, per favore?»
La hall dell’hotel era tranquilla. La commessa di “Tanto di cappello!” la vide passare davanti alla boutique e la salutò con un cenno della mano, ma Fleur la ignorò.
«Sto partendo» disse appena arrivò al banco della reception. «E vorrei anche effettuare un prelievo. Il conto è a nome di Sakis Papandreous.»
«Ah, certo.» L’impeccabile impiegata bionda della reception digitò rapidamente sulla tastiera del computer, poi alzò lo sguardo sorridendo. «Che somma desidera?» Fleur ricambiò il sorriso.
«Diecimila sterline. E, per favore, potrebbe chiamarmi due taxi?» L’impiegata la guardò sorpresa.
«Due?»
«Uno per me, uno per i miei bagagli. I bagagli vanno a Chelsea.» Fleur abbassò gli occhi dietro la veletta sottile. «Io devo andare a una commemorazione funebre.»
«Oh, mi dispiace» disse la donna, porgendo a Fleur i numerosi fogli del conto dell’hotel. «Si tratta di una persona molto vicina a lei?»
«Non ancora» rispose Fleur, firmando il conto senza prendersi il disturbo di controllarlo. Osservò il cassiere infilare le mazzette di banconote in due buste con lo stemma dell’hotel, poi prese delicatamente le buste e le mise nella borsetta, richiudendola con un colpo secco. «Ma non si sa mai.»
Seduto con gli occhi chiusi nel primo banco della St Anselm’s Church, Richard Favour ascoltava i rumori prodotti dalla gente che andava riempiendo la chiesa: mormorii smorzati, passi strascicati, il ticchettio dei tacchi sul pavimento e l’organo che suonava Jesu, Joy of Man’s Desiring.
Richard aveva sempre odiato Jesu, Joy of Man’s Desiring. Quel pezzo gli era stato proposto dall’organista durante l’incontro di tre settimane prima, quando si era capito che lui non sapeva citare un solo brano di musica d’organo amato da Emily. C’era stato un silenzio un po’ imbarazzato mentre Richard frugava invano nella memoria, poi l’organista aveva mormorato con tatto: “Jesu, Joy of Man’s Desiring è sempre molto popolare…”, e lui, sollevato, aveva accettato subito il suggerimento.
Adesso aggrottava la fronte, scontento. Di certo avrebbe potuto pensare a qualcosa di più personale di quel motivo fin troppo noto, no? Emily aveva amato molto la musica, era sempre andata ai concerti quando la salute glielo permetteva. Possibile che non si fosse mai voltata verso di lui con gli occhi scintillanti per dirgli: “Adoro questo brano”? Richard cercò ancora di ricordare, ma l’unica immagine che gli veniva alla mente era quella di Emily a letto, debole, fragile, con lo sguardo spento e senza lamentarsi. Provò una fitta di rimorso. Perché non aveva chiesto a sua moglie quale fosse il suo brano musicale preferito? In trentatré anni di matrimonio non glielo aveva mai domandato. E adesso era troppo tardi. Adesso non lo avrebbe più saputo.
Si passò la mano sulla fronte con un gesto stanco e abbassò gli occhi sul programma che aveva in grembo. Le parole stampate sembrarono fissarlo: “Commemorazione per Emily Millicent Favour”. Semplici caratteri neri su semplice cartoncino bianco. Richard aveva resistito a tutti i tentativi del tipografo di fargli aggiungere optional generalmente apprezzati quali bordi d’argento o angeli in rilievo. Su questo Emily sarebbe stata d’accordo… Almeno lo sperava.
C’erano voluti parecchi anni di matrimonio prima che Richard si rendesse conto di non conoscere affatto sua moglie, e molti altri ancora per capire che non l’avrebbe mai conosciuta. All’inizio il sereno distacco di Emily era stato parte del suo fascino, insieme al volto pallido e grazioso e all’elegante figura da ragazzino che lei teneva risolutamente celata, così come faceva con i suoi pensieri più intimi. E più Emily si era chiusa nel suo riserbo, più Richard si era sentito torturato dal bisogno di conoscerla davvero. Era arrivato al giorno del matrimonio tormentato da una bramosia che confinava con la disperazione. Finalmente, aveva pensato, avrebbero potuto rivelare l’uno all’altra la parte più segreta di se stessi. Aveva desiderato disperatamente esplorare non solo il corpo di Emily, ma anche la sua mente, la sua persona: voleva scoprire le sue paure e i suoi sogni più intimi, diventare il suo compagno per la vita.
Si erano sposati in una ventosa giornata di sole in un piccolo villaggio del Kent. Per tutto il giorno Emily era apparsa composta e serena, e Richard aveva creduto che fosse semplicemente più brava nel nascondere la spasmodica aspettativa che di certo provava quanto lui: un’aspettativa che si era fatta sempre più grande a mano a mano che la giornata si esauriva e si avvicinava l’inizio della loro vita insieme.
Richard ripensò a quei primi, frementi attimi dopo che la porta si era chiusa alle loro spalle e lui e sua moglie erano rimasti soli nella suite dell’hotel a Eastbourne. Aveva osservato Emily mentre si toglieva il cappello con i soliti movimenti fluidi e precisi, sperando che gettasse a terra quella stupida cosa e si precipitasse tra le sue braccia, ma desiderando allo stesso tempo che quella deliziosa, incerta attesa durasse per sempre. Gli era sembrato che Emily stesse ritardando di proposito il momento della loro unione, tormentandolo con quei suoi modi freddi e indifferenti, quasi sapesse esattamente quello che gli passava per la mente.
E poi, finalmente, Emily si era voltata e aveva incontrato il suo sguardo. Richard aveva fatto un respiro profondo senza sapere bene da dove cominciare, quale dei suoi pensieri esprimere per primo. Lei l’aveva fissato distrattamente con i suoi occhi chiari e aveva chiesto: “A che ora è la c...