La maschera ritratto
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La maschera ritratto

  1. 144 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La maschera ritratto

Informazioni su questo libro

Il tepore di un vagone semivuoto in una limpida giornata d'inverno, il conforto di una gita domenicale nei luoghi dell'infanzia e poi un incontro inatteso, un tuffo al cuore... può capitare così, in una giornata qualsiasi, quando "si è ormai cresciuti e non si ha più paura del mondo", di scoprire che l'immagine che abbiamo di noi stessi, messa insieme negli anni tassello dopo tassello, si basa su un errore.
Il protagonista di questo nuovo romanzo di Maurizio Cucchi si trova d'improvviso a dover fare (o rifare) i conti con due figure fondamentali, il padre e il nonno, entrambi prematuramente scomparsi in circostanze misteriose. La sua intima quête si snoda in una doppia esplorazione del passato, che lo conduce in un doppio labirinto nel presente. Un pellegrinaggio che da una Milano affogata nella nebbia lo porta prima al confine con la Svizzera, nella località dove il padre ha trascorso le sue ultime ore, e poi in Sicilia, a Catania, città d'origine del nonno. Un pellegrinaggio che gravita intorno al personaggio di Tina, una donna meravigliosa e piena di forza, di allegria, di mistero, al tempo stesso musa e guida nella ricerca che a sua volta la impegna del marito e del padre, svaniti lasciandosi dietro ferite di ambiguità e assenza.
Percorsi convergenti e osmotici che accomunano il protagonista e Tina nel periglioso attraversamento di una mitologia personale e familiare, portandoli a una progressiva, sofferta, nuova concezione di sé.
Scavando nella scrittura fino a raggiungerne l'essenza, Maurizio Cucchi dà vita alla coraggiosa poesia del viaggio, che è di ciascuno e di tutti, verso la sorgente della propria identità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804606666
eBook ISBN
9788852017889

Il ritratto

(pagine catanesi)
«Era da circa mezzo secolo che in Francia, dove si davano in pubblico perfino otto balli in maschera per settimana, s’era introdotta la perversa invenzione delle maschere-ritratti, le quali, eseguite da pittori esperti e da plastificatori, rendevano al vivo la sembianza di chiunque si voleva. Questa maschera-ritratto di solito la si copriva con un’altra maschera qualunque, la quale, levata con destrezza, lasciava intravedere il volto imprestato che stava sotto, e che ricoprivasi tosto, onde impedire si potesse conoscere l’inganno. Questa moda, dalla Francia si diffuse tosto in Italia, e segnatamente a Milano e a Venezia. Ma i disordini che ne conseguirono furono tali e tanti, che la pubblica morale se ne risentì altamente. Giovani scaltri assumevano il volto di fortunati amanti a ingannar donne e donzelle inesperte. Donne gelose e gelosi amatori e mariti, traevano in insidia donne e amanti creduli, dal che derivarono vendette e delitti.
E due anni prima del tempo a cui ci troviamo, alla duchessa di Choiseul che, rimasta vedova, s’era invaghita di un giovane cavaliere, con atroce giuoco fu fatto comparire ad una festa il marito defunto, ond’ella ne prese tale raccapriccio e sgomento, che, caduta ammalata, morì poi di consunzione. Perciò nella Francia stessa s’eran pubblicati editti e pene gravi contro questa invenzione turpe. Poco dopo la proibì anche la Repubblica di Venezia, e nel marzo dell’anno 1749 era uscita pure a Milano, in conseguenza di gravi inconvenienti avvenuti in quel carnevale, la seguente ordinanza:
“L’eccellentissimo governatore, avendo con sua gravissima indignazione sentito il pessimo e colpevole uso che si è fatto da taluni male intenzionati e osceni giovinastri delle così dette maschere ritratti, ha ordinato ed ordina che ne sia assolutamente vietata ed interdetta la fabbrica e l’introduzione, sotto pena di sei mesi fino a due anni di carcere, da infliggersi tanto a chi ne pagasse o sollecitasse con male suggestioni l’esecuzione, come a chi vi prestasse l’opera dell’arte e della mano per danaro o per qualunque altro compenso. Tanto sia partecipato al senato, ai tribunali, al pretorio e ai giusdicenti.
Milano, 12 marzo 1749”»
(Giuseppe Rovani, Cento anni)
Era ancora buio, quasi notte. Non so perché me ne andavo da Acireale a quell’ora assurda. Ricordo la hall deserta dell’albergo Maugeri. Avevo i brividi, non per il freddo, ma per la desolazione cupa della scena.
Fatti i pochi scalini, ho visto la macchina di Nino, che era già arrivato, ferma nello squallore assorbente della via deserta. Mi toglieva così un po’ d’ansia.
È un uomo gentile e tenero, e avevamo fatto subito amicizia. Sceso dalla macchina, lo vedevo nella sua poca statura, un po’ curvo, con i baffi neri foltissimi e i capelli crespi e corvini come incollati dietro la fronte alta.
Abbiamo ripreso il discorso del giorno prima, andando verso l’aeroporto. Gli avevo spiegato quelle lontane origini un po’ misteriose, un po’ dolorose, anche se di un dolore non mio. Era stato contento di quella mia confidenza inattesa, e quasi stravagante. Nino è un uomo molto discreto e sensibile, pieno di riguardi, attento agli altri come è raro vedere. Proprio per questo mi aveva ispirato fiducia. Un uomo profondo e nobile, ma lentissimo, dai ritmi che giudicavo arabi, per me incomprensibili, che lo portavano a rinvii e dilazioni continue. «Ritmi tragici» mi è capitato di dirgli, «ritmi fatali», «pieni del vostro passato remoto, così irrevocabile e totale.»
In aeroporto, nell’attesa che voleva assolutamente condividere con me, abbiamo continuato a chiacchierare, a commentare. Ho fatto qualche facile ironia sul personaggio in questione, sul nonno misterioso e per me, allora, addirittura odioso.
«Comunque» mi ha detto chiaro lui «mi darò da fare. Metterò in moto le mie amicizie e conoscenze al comune, vedrò di far trovare all’anagrafe qualcosa di meno vago di quello che sai.»
Infatti, il solo documento ufficiale che avevo, spedito dal municipio di Catania qualche mese prima, mi dava un’informazione laconica e burocratica: «Non figura iscritto in questo registro di popolazione». Non nascondo che la formulazione non mi era dispiaciuta, quel linguaggio mi era parso un muro interessante. Lo avevo detto a Nino, che aveva strizzato gli occhi sorridendo.
«In ogni caso» aveva anche aggiunto «un mio compaesano, che lavorava con me in biblioteca, si è trasferito in città, adesso è al comune di Catania, e se glielo chiedo mi aiuta…»
Ci siamo salutati con un abbraccio, il primo, forse, di tanti, e lui è rimasto lì fermo, prima di vedermi quasi scomparire con la mia borsa leggera. Camminavo verso l’aereo e lo cercavo di lontano, con lo sguardo e già con po’ di affetto complice.
«Mah… cosa vuoi… mi spiace, ma non posso dire molto. Non ho molto da aggiungere a quello che sai, che ti ho già detto quella volta, tanti anni fa.»
Ero seduto lì davanti a lei, che mangiava la sua cena di anziana diabetica, di malavoglia, dopo che la suora le aveva fatto la puntura. Come tutte le sere. Ma io avevo sentito d’improvviso il bisogno di saperne di più. Capita sempre così. Quando sei giovane, i racconti che ti fanno di cose passate, magari anche remotissime, non ti interessano; anzi, ti annoiano, ti molestano, e nemmeno li ascolti. Poi, passando il tempo, vorresti sapere di più, sapere tutto, arrivare quasi al fondo delle tue radici, metterti a esplorarle; mi viene da dire: a succhiarle. Ma è quasi sempre troppo, troppo tardi. Chi è rimasto ormai è vecchio, vecchissimo e ha la memoria a toppe, tutta smangiata e confusa, ritagliata attorno a poche cose, sempre le stesse. Oppure non ne vuole più sapere, specie se sono ricordi infelici, che turbano. E gli altri che sapevano sono tutti morti.
«Mi ricordo che quando ero già grande, avrò avuto sedici o diciassette anni, è venuto a trovarmi. C’è stato anche qualcosa di strano… Ma questa storia te l’ho già raccontata tanto tempo fa.»
Ho pensato subito al volto della foto, dove si vede un uomo, un ragazzo, posso dire adesso, dall’aria fiera, sotto i capelli scuri, ondulati, con la riga; la fronte non troppo alta, le labbra odiosamente carnose, il collo chiuso della divisa, e dietro, con scrittura invadente, la dedica alla sua piccola Ines.
«Mi aveva regalato una bella radio, grande…» e ha guardato la radiolina che si teneva sempre a portata di mano, sua fedelissima compagna.
«Abbiamo fatto un giro in taxi… Parlava sempre lui… Io non sapevo… Mi ha messo una mano paterna su una gamba… Ma per me era uno sconosciuto, io ero molto ingenua, ma quella mano non mi ha fatto molto piacere… Non so se siamo andati al cinema… Sai, sono passati tantissimi anni… Ricordo bene, però, che mi ha promesso di farmi sposare con un signore, con un ufficiale come lui… Voleva farmi tornare a scuola… Ha detto che mi avrebbe mandato regolarmente dei soldi… Ma io non ho visto più niente: né lui né i soldi… Non so la mamma, che però è morta così presto, è durata ancora così poco, poveretta…»
“Caro Nino” gli avevo scritto per ringraziarlo e come lasciandomi poi andare in un discorso libero, quasi delirante, “ti sarò sempre grato per il tuo interessamento, così utile per me, e soprattutto così concreto.
Mi chiedo anch’io, ogni tanto, perché vada in cerca di questi fantasmi. Vorrei che fosse per lei, che avrebbe avuto diritto di sapere, e che forse non ne ha più voglia. Tutto, infatti, per lei, è già andato molto oltre, troppo oltre, e tornare non le serve. Infatti non so ancora se le dirò quello che ho saputo, perché forse servirebbe solo a turbarla di più.
Forse ho voluto sapere solo per me… Chissà, per capire meglio, anche se sempre meno mi importa capire di me stesso. Penso che ci sia altro da scoprire, oltre noi stessi, voglio dire… In questo momento, per esempio, guardo dalla finestra, e mi viene subito una gran voglia di uscire, di andare… Ma dove? Dirai tu… Non importa… nel mondo esterno… È un’ora così bella, Nino, quest’ora di tarda mattina, che vorrei essere meglio nel mondo, esserci dentro con più vita, con maggiore naturalezza semplice… Sai, c’è chi guarda nel fondo di se stesso, calamitato dentro se stesso, con gli occhi rivolti all’interno, rovesciati, dominato da un io… come dire… estremo, enorme, divorante. E dunque ridicolo. Affonda, affoga nel suo stesso nulla. Si abbassa e deprime dentro le proprie stesse acque più profonde. Che profonde non sono. Meglio, allora, rivolgere gli occhi fuori, dove è il loro vero destino, degli occhi, voglio dire… Se ci riusciamo, naturalmente… Anche perché noi troppo ingenuamente ci crediamo individui e ci crediamo padroni. Padroni della nostra sorte, per esempio, padroni delle nostre scelte. Ma non credo sia così. L’economia dell’universo, la forza magnetica del cosmo, non so se dico bene, la presenza del sole là fuori, ci attraggono a volte senza che noi possiamo saperlo, o capirlo. Però, possiamo sentirlo, sentirlo. Ed ecco che – magari per qualche minuto o per qualche ora soltanto – entriamo in una specie di armonia con l’universo nel quale ci troviamo. E allora, anche se sappiamo di esserci per poco, caduchi e transeunti, di passaggio verso la fine, finiti nella finitudine, diciamo sì, restiamo come sospesi in un’atmosfera di quiete naturale, in pace. Per questo, tante volte, ti ho detto: mi piace essere qui, mi piace dormire, leggere, mangiare, amare da cent’anni la stessa donna, guardare il mare, uscire e vedere il mondo, mi piace esserci, vivere…
Come vedi mi sono lasciato andare. Avrei voluto e dovuto dirti altre cose, parlarti del capitano e ingegnere, del nonno Alfredo… Disgraziato, in fondo… È anche morto giovane…”
Nino aveva mantenuto la promessa, e un paio di mesi dopo quell’incontro, dopo qualche telefonata, mi aveva mandato un foglio degno di un autentico investigatore. Mi raccontava anche che non era stato facile trovare le notizie e che era dovuto andare lui di persona a Catania, nei sotterranei del comune, dove l’amico l’aveva fatto entrare, lasciandolo rovistare tra pigne di cartacce, di documenti e di antichi faldoni luridi. Così aveva trovato quello che cercava.
Lui, Alfredo Gandolfo, era morto a Verona, in ospedale militare, in tempo di guerra, già nel 1941, e in ogni caso diversi anni dopo quella visita che aveva fatto a Milano, forse solo di passaggio. Ma il foglio di famiglia rivelava altre verità. Il capitano, l’ingegnere, aveva seminato vari figli in giro per l’Italia. Chissà, forse il fascino della divisa, forse l’estrazione sociale elevata, forse… Tina era però la primogenita e gli altri quattro, fra maschi e femmine, erano nati nel giro di una decina di anni: a Bologna, a Bengasi nientemeno, e un paio anche in Sicilia, a Giarre e Catania, città d’origine del capitano.
Non solo. Nino non si era accontentato dell’essenziale, ma aveva scavato ancora, portando alla luce l’esistenza di un considerevole numero di eredi, di figli a loro volta sparsi in città diverse, a quanto risultava a quell’anno, il 1979, molto tempo dopo quelle striminzite rivelazioni materne, che avevano stimolato un mio improvviso rigurgito di passione familiare e di precoce senilità.
Questa volta Nino aveva superato se stesso. Infatti aveva dato incarico a un suo amico di controllare la casa, il quartiere, di fare degli appostamenti come un vero e proprio detective. Mi aveva scritto: “Carmelo è un caro ragazzo, si è offerto lui. Gli ho raccontato la storia per sommi capi, con qualcuna delle sue stranezze. Lui passa ogni giorno da quelle parti, per andare all’Università e per tornare a casa. Lavora negli uffici. Così può capire se Scalia qualche volta esce o si fa vedere, cercare almeno di capire chi è, com’è fatto, se davvero è sempre via. Può darsi che non riesca a scoprire niente, ma intanto proviamo, cosa ci costa? Al massimo, se riesce a capirci qualcosa, gli faremo un regalo, non credi? Si chiama Carmelo, come ti dicevo, non ha moltissimo da fare, oltre il lavoro, ha venticinque anni. E poi, quando andava a scuola gli ho dato qualche lezione di latino gratis…”.
Per qualche mese, secondo i normali ritmi prolungati di Nino, non avevo avuto nessuna notizia. Poi, un giorno, quando non ci pensavo neanche più, mi ha telefonato per dirmi che il nostro uomo era stato visto e riconosciuto con sicurezza: «Scalia è più vicino agli ottanta che ai settanta. Così almeno pare, ma verificheremo. In ogni caso, Carmelo ha capito che era lui perché l’ha visto entrare e aprire una finestra che deve corrispondere al suo appartamento. Si era informato, non so bene come, ma la cosa è certa. L’uomo ha un’aria distinta ma dimessa; anzi, molto, ma molto trasandata. Porta un cappotto che potrebbe essere elegante, forse di cammello, ma tutto padellato. Alto, capelli ancora abbastanza folti e grigi, spettinati, cammina senza guardare in faccia nessuno. Ha un amico, meno anziano di lui, diciamo sui sessanta, che ogni tanto va a trovarlo, o forse anche lo aiuta, gli porta da mangiare o qualcos’altro, in buste, sacchetti, pacchetti vari. Sembra un tipo meno irsuto e scontroso, un tipo affabile. Carmelo ha sentito che una volta, dalla finestra che si affaccia sulla via, al secondo piano, Scalia lo chiamava… Sì, lo chiamava: “Tanino, vieni su che non mi sento bene”.
Carmelo una volta l’ha visto sul portone e lo ha fermato. Gli ha chiesto se il signor Scalia era in casa. Lui non ha fatto molte storie, anche perché andava di fretta, e gli ha risposto soltanto: “Sì, l’ingegnere è in casa, ma adesso non ha tempo”.
Insomma sappiamo che il vecchio c’è, conosciamo qualcosa delle sue abitudini e dei suoi orari… Ah, dimenticavo… Carmelo è passato di lì quattro o cinque volte prima di sera, verso le sette, e quasi sempre ha visto Tanino che saliva, per andare dal suo amico.
Mi sembra che questa volta, se hai la possibilità di tornare, potremmo provare a fargli una visita, capire se vuole parlarci, se non è proprio così scorbutico come sembra. La casa non ha portineria, per cui sarebbe bene aspettare l’arrivo di Tanino, perché al citofono, chissà…»
Via Etnea… A fissarla da sud a nord è come una freccia velocissima, dalla traiettoria dritta, senza ondeggiamenti. Dalla Porta Uzeda, degli “Uzeda” appunto, il casato spagnolo dei Viceré, che l’aprirono nel 1695, gli anni della ricostruzione dopo il terremoto. La ricostruzione che porta i bei nomi di architetti come il Vaccarini e il Battaglia, e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La maschera ritratto
  4. Gita al confine
  5. Il ritratto (pagine catanesi)
  6. Copyright