Nessuno te lo chiede, è un semplice servizio di traghetto, posso mandare qualcun altro e tu per oggi puoi chiudere, puoi andare al cinema o in discoteca, non c’è bisogno che ci vada tu all’aeroporto, è inutile, tornatene a casa a dormire, dammi retta. Così il capo. Due le possibilità. 1) faceva il paterno sul serio, mi proteggeva dal mio stesso eccesso di zelo, come lo chiama lui. 2) voleva mettermi alla prova, vedere fino a che limite arriva l’impegno, la dedizione, il senso del dovere eccetera di una sua sottoposta.
E la semplice curiosità, dove la mettiamo?
L’aereo dalla Sardegna atterrava (circa) alle 22.20, la figlia e quell’altra erano passate a casa a farsi una doccia. Casa alla Crocetta, naturalmente. Villa bianca su tre piani, seconda metà dell’Ottocento, con ampio giardino cintato da cancellata in ferro, invisibile nella siepe di edera o simile fogliame. A quanto ho capito ci abita la figlia divorziata coi bambini in affidamento a lei, a pianterreno. E sopra, il povero papà con Milena. Ma a quanto ho solo intuito, tra padre e figlia non è proprio un idillio, ci devono essere stati contrasti, anche seri, per via forse del divorzio, o per via di questa Milena, che la figlia non doveva esageratamente gradire. Una ex puttana rumena che ti diventa matrigna, capirai. Sì, dev’essere difficile da mandar giù, un bocconcino del genere e in un ambiente del genere.
Io non ce l’ho affatto con questo tipo di gente. Non m’interessa da quando sono diventati ricchi e come lo sono diventati, fatti loro. Certi colleghi, a parole almeno, preferiscono i quartieri detti a rischio, San Salvario, Porta Palazzo, Stazione Dora, dove le siepi sono fatte di pusher, scippatori, protettori, ladri e trafficanti di tutti i colori, coi loro phone-center e le loro macellerie etniche. Noi siamo soldati – dice – e la vera guerra è lì, quello è il nostro vero lavoro. Sarà, ma qualcuno mi spieghi cosa c’è mai di appassionante in questo meccanismo: fermo, controllo documenti, accertamento falsa identità, rimessa in libertà sul marciapiede dopo mezz’ora. E così tutte le notti, tutti i giorni, in saecula saeculorum.
Il rischio dello scontro a fuoco, la mano sulla pistola, l’inseguimento a 140 all’ora? Ma succede statisticamente di rado e comunque quel tipo di brivido non mi attira. Ho fatto e continuo a fare il mio bravo addestramento e me la caverei; ma non mi attira. Pantofolaia? Dovevo sposarmi con quel gran bastardo di Stefano e tenere una merceria in via San Donato, come mia sorella? Che però non si è stupita quando ho deciso di fare il concorso per entrare nell’Arma: è la tua vocazione, diceva, nelle Forze dell’Ordine e della Curiosità. E dove la metto la curiosità quando mi tocca controllare tutte le sere se Nassim Al-Qualcosa non è per caso in realtà Aziz-el-Qualcos’altro? Mentre qui, tra questa bella gente coi documenti in regola e l’aereo privato, hai perlomeno la curiosità di capire perché e come una battona rumena di ventuno anni è diventata la moglie di un banchiere, o ex banchiere che sia, vicino ai sessanta. E di vederlo in faccia, questo povero vedovo, povero papà.
La villa era naturalmente sotto sorveglianza “informale”, fuori c’era una nostra auto senza contrassegni (baciamano, banchiere = discrezione) e dentro tre colleghi a cercare il pelo nell’uovo senza toccarlo, fra cui il bravo Gilardo a fare gli onori di casa. Atrio d’ingresso come una sala da ballo (e forse ci ballavano davvero, nel 1880), un tappeto grande come il lago piccolo di Avigliana, uno scalone doppio che saliva al piano di sopra, una pinza di marmo con passatoia rossa. E sotto quella specie di arcata, due poltrone a schienale alto e una consolle dorata con un vassoione carico di frutta.
Uauh, ci vuole come minimo una banca per tenere in funzione un domicilio del genere, quando entro nel mio bilocale è tanto se riesco a togliermi il giaccone senza sbattere coi gomiti nelle pareti.
Gilardo ci ha fermate subito, attente a non camminare sul tappeto, bisogna girarci intorno, per cortesia. Allora ho notato i papaveri sparsi sul lato più vicino alla porta. Non molti, in disordine e ormai ridotti a cenci appena più rossi del tappeto. Anche le due signore li hanno notati ma non hanno fatto domande. Ho chiesto io se li tenevano in casa e la Camilla ha negato, no, mai, i papaveri sono belli nei campi ma appena li raccogli appassiscono, anche in vaso durano due ore. E poi sono filate sul lungolago fino all’appartamento di lei, Camilla, dove abita coi bambini dopo il divorzio. A cambiarsi e rinfrescarsi, come si dice.
«E questi papaveri?»
«Molto utili, molto importanti» diceva Gilardo.
«Per le impronte?»
Gilardo è impermeabile all’ironia (o forse fa finta?).
«No, per le impronte ci sarà poco da ricavare, ma è per il modus succedendi.»
Chissà chi, negli anni, ha inventato questo scherzo, che come succede è rimasto, è ormai entrato nel nostro gergo corrente, una frase fatta che non fa più ridere nessuno, la si usa normalmente.
«Se t’interessa» diceva Gilardo, «ti faccio vedere il modus succedendi, almeno come lo ricostruisco io.»
Siamo saliti al primo piano dove abitava il banchiere con moglie strangolata. In cima alla doppia scala c’era un breve balcone affacciato sulla sala da ballo e di lì si passava nell’appartamento. Salotti e salottini, vasi, tappeti, comò d’antiquariato, divani e divanetti, specchiere. In uno dei salottini c’era il televisore piattissimo, un tavolo basso con sopra una scatola d’argento piena di sigarette, un libro, un bicchiere di Coca, una ciotola mezza piena di gianduiotti. E riviste di moda sparse sul tappeto.
«Allora, lei è qui tranquilla col televisore acceso...»
«Ma l’avete trovato acceso?»
«No, dicevo così, ma può averlo spento prima di scendere. Oppure sfogliava una rivista. È lo stesso.»
E qualcuno suonava al cancello, lei si alzava, forse guardava dalla finestra che dà sul corso ma non vedeva nessuno per via della siepe troppo folta, come risultava dalle telecamere.
«Ma c’erano telecamere?»
«Certo. Due, una sul davanti e una sul cancelletto nel retro, in giardino. Ma si vedono solo foglie, le hanno lasciate crescere troppo.»
Il visitatore si faceva comunque riconoscere, lei dunque lo conosceva, si fidava, scendeva, apriva e quello le offriva il mazzolino di papaveri.
«Così i papaveri tolgono di mezzo l’ipotesi che lei sia uscita di casa di sua iniziativa, che insomma l’abbiano prelevata mentre se ne andava a spasso, capisci?»
Chi le aveva portato quegli effimeri fiori? Un parente, forse. Queste ragazze hanno sempre una quantità di parenti più o meno raccomandabili, cugini, cognati, padri alcolizzati. Era facile immaginarla seduta qui a sgranocchiare dolciumi, a fumare, annoiarsi... Già non ne poteva più della nuova vita? Già il banchiere l’aveva stufata?
«E com’era vestita? Si sa?»
No, ancora non si sapeva. Qualcosa per forza doveva avere addosso perché l’avevano poi spogliata e rivestita da puttana. Ma il “qualcosa” non si sapeva cosa fosse, una vestaglia, chissà. Comunque domani sarebbe venuto qui il marito con la figlia, a controllare il guardaroba, vedere cosa mancava.
«Andiamo lo stesso a dare un’occhiata.»
Ma nella cameretta del guardaroba, dentro quegli armadi a muro con le porte scorrevoli, non c’erano vuoti evidenti, i vestiti pendevano spenti, cera colata da trenta candele funebri. Ho pensato: dio che tristezza, non c’è più un corpo per tutti questi vestiti. Anche se poi, pena o non pena, ho fatto scorrere l’occhio su tutto il campionario di mezza stagione, sete, cotoni, lini, velluti, dove avrei pescato (e provato) una mezza dozzina di modelli. L’ho detto a Gilardo che mi ha guardato perplesso.
«Non puoi, non hai l’autorizzazione del giudice.»
Adorabile. Stanza da letto vasta, con vasto letto matrimoniale. Studiolo del banchiere con ritratto di bella signora sulla quarantina.
«E quella?»
«Prima moglie, immagino. Morta di qualcosa.»
Sedeva davanti a un tavolino ovale, una mano alla scollatura, l’altra posata accanto a un gran vassoio carico di frutta, lo stesso che c’era di sotto.
«Vedi? Tutto a posto, qui non è venuto nessuno.»
Siamo tornati giù attorno al lago e Gilardo chiudeva il suo modus succedendi, diceva per me loro le sono saltati addosso subito, già qui sul tappeto, e lei ha lasciato cadere i papaveri, è caduta probabilmente anche lei, svenuta, imbavagliata o comunque messa ko, e poi l’hanno tirata su, presa di peso, portata fuori, infilata in macchina e via.
«Perché dici “loro”?»
«Perché uno solo non ce la poteva fare, ci doveva essere un complice che s’è infilato in casa anche lui, e forse un terzo a guidare l’auto.»
«Una banda, insomma.»
«Be’, quelli sempre si muovono in banda.»
«Ma non hanno rubato niente?»
«Pare di no, solo la ragazza.»
Siamo andati a fare il giro del pianterreno, Gilardo apriva tranquillamente tutte le porte: sul lavoro, formale o informale, niente lo intimidisce, niente lo ferma. La figlia Camilla è sbucata da un anditino strofinandosi addosso l’accappatoio di spugna bianca, costosissimo. Scusate, faccio in un momento. L’altra non si vedeva. Anche qui, salottini, un salone con doppio bovindo, grandi quadri, tappeti, argenti, saletta da pranzo, e poi una scala di pietra nera che scendeva nel seminterrato, con le camere dei bambini, trecento giochi, una cucina (probabilmente quella originale, 1880, col suo montacarichi), tutto perfettamente in ordine, non una lampada sbattuta per terra, un cuscino fuori posto.
«Nemmeno qui sono venuti» diceva Gilardo.
«Io però mi chiedo, se permetti...»
Era sempre Gilardo che continuamente si chiedeva, e tutti lo prendevamo in giro. Chiudeva gli occhi, alzava indice e pollice uniti in cerchio e si chiedeva. Cose ovvie, di solito, ma ammiravo la sua capacità di tornare sullo stesso chiodo, sul già considerato, sul già detto e ridetto, imperturbabile.
«Prego, figurati» diceva lui, serio, con un lievissimo tremito del suo quasi doppiomento.
«Come mai non era anche lei in quel castello per il week-end con la figlia e l’amica di casa? Dopo tutto faceva parte anche lei della famiglia, no? Com’è che l’hanno lasciata qui sola soletta?»
Ma già mentre lo dicevo avevo la risposta. Non è che non l’avessero invitata, era lei che non c’era voluta andare, la rumena appena scesa dal marciapiede, la battona, la puttana. Che ci andava a fare al castello, che c’entrava con quella bella gente alla grigliata? Il marito sicuramente la spingeva, la trascinava, cercava di portarsela di qua e di là a testa alta. Questa è mia moglie, signori! Ma doveva essere dura, durissima per la povera Milena. Sì, se l’era impalmato, il banchiere, ma bastava un’occhiata di quella bella gente per annientarla. Un mezzo sorrisetto. Una gentilezza in più. Nessuno poteva dimenticare per un solo momento da dove veniva, la sposa extracomunitaria. Meglio starsene in casa, mi sento poco bene, sono stanca, ho mal di testa.
E difatti quando le due signore sono ricomparse fresche e profumate, hanno pienamente confermato (a modo loro). No, Milena in campagna non ci poteva venire, soffriva di allergie, i pollini le davano delle crisi tremende, se ne stava più volentieri chiusa in casa, al buio. Capirai.
Uscendo, mi sono ancora girata a guardare quei papaveri sparsi, appassiti, ridotti a niente. Chi glieli aveva portati, mi chiedevo come Gilardo, alla bella strangolata? Una donna, una ex collega redenta anche lei o niente affatto redenta? Una parente di cui si fidava? O non piuttosto un amante, un uomo dei bei tempi del marciapiede, il truce pappone di cui lei però era ancora innamorata? Botte da orbi, ma al cuore non si comanda. Succede, succede tutti i giorni, alla faccia dei ricchi banchieri residenti nelle candide ville della Crocetta.
Sì, ho dato un’ultima occhiata al tappeto-lago, alla doppia scala, agli stucchi, alla bianca vastità di quel salone da ballo. Tutto perfetto, tutto intatto e pronto per la perquisizione a pettine fine di domattina. Che non tocca a me, non mi riguarda, non sono una scientifica.
Solo e soltanto una gran rompicoglioni, questo ero diventata per Michele, detto (da me) il Mitile, alla fine della nostra (breve) convivenza. Tu vedi solo i difetti, sai solo vedere gli errori, devi sempre bacchettare tutto e tutti! Ma se io quella notte a Asti-Ovest non gli gridavo di rallentare andavamo a infilarci dritti sparati sotto quel Tir olandese (NL), poco ma sicuro. E che criticavo gli spaghetti (troppo peperoncino), criticavo la sua camicia nuova (troppe righe), criticavo il suo disordine (l’altra scarpa? sarà qui sotto il sofà), criticavo il suo barbiere (è un cane, ti fa delle basette orribili).
Anche se già mia madre e mia sorella me lo dicevano sebbene in altri termini, perché rompicoglioni fa “pistina” in dialetto: sei una pistina, sei una criticona impossibile, e mi chiamavano il sergente maggiore, si mettevano sull’attenti per l’ispezione. Ma andate un po’ a...
E d’altra parte se una è fatta così è fatta così (un concetto che li fa impazzire) e in più qui nell’Arma tutta questa rompicoglioneria, questa pistinaggine è apprezzata da colleghi e superiori, si chiama “spiccato spirito di osservazione”, così diceva un rapporto su di me, prendi e porta a casa. Che serve a vedere la mosca nel minestrone? Nossignore, serve a vedere la mela, cioè che dal vassoio di frutta di marmo lì sotto lo scalone manca una mela.
«Gilardo.»
«Dimmi.»
«Secondo me manca una mela. Nel quadro di sopra c’è una mela che qui non c’è.»
Le due donne erano sulla porta, abbiamo chiesto a loro. No, no, la mela ci doveva essere, non s’era spaccata, non s’era persa, fino all’altro giorno era lì in mezzo alle banane, alle pere, alle pesche. Siamo andati su a prendere il quadro con la mela, abbiamo fatto il confronto.
La piramide era un po’ diversa, nel quadro la banana spuntava più a sinistra, di fichi neri se ne vedevano bene due, l’ananas stava proprio in cima. Di mele ce n’erano tre, una gialla, una verde e poi la rossa. Era la rossa che mancava. Potevano averla presa i bambini? No, assolutamente, con quell’artiglieria di marmo era vietatissimo giocare. Fatta cadere dai domestici peruviani che poi non avevano detto niente? No, impossibile: era Felipe che spolverava col piumino e Felipe aveva la mano leggerissima, un vero Debussy del piumino, non poteva aver fatto cadere lui la mela. E allora? Allora qualcuno l’aveva presa ma per farne cosa? Un souvenir? Ma te lo immagini un assassino che usciva dalla villa con la mela in tasca, in mano? Se lo chiedeva Gilardo sulla porta quando ce ne siamo andati e me lo chiedevo anch’io salendo in macchina con le due donne.