
- 280 pagine
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eBook - ePub
Opinioni di un clown
Informazioni su questo libro
Con pantomime teatrali, con telefonate e incontri, un clown lancia accuse feroci all'opulenta società della Germania occidentale, che sembra aver smarrito ogni valore. Un libro del '63, che suscitò polemiche e dibattiti.
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Informazioni
CAPITOLO XV
SAPEVO catalogare il suono, ma non come contenermi nei suoi confronti. Lo avevo udito spesso, ma non avevo mai dovuto reagirvi di persona. In casa dei miei genitori erano le domestiche che reagivano al suono del campanello di casa; il campanello della porta del negozio, dai Derkum, l’avevo udito spesso, ma non mi ero mai alzato. A Colonia abitavamo in una pensione e negli alberghi a suonare non ci sono che i telefoni. Udii il suono del campanello, ma non lo presi in considerazione. Era estraneo, in questo appartamento lo avevo sentito soltanto due volte: una volta che era venuto un ragazzino a portare il latte e quando Züpfner mandò le rose tee a Maria. Quando le rose arrivarono io ero a letto; Maria entrò in camera mostrandomele estasiata, il naso immerso nel mazzo, e ne venne fuori una scena penosa, perché credevo che i fiori fossero per me. Era capitato qualche volta che le ammiratrici mi mandassero fiori in albergo. Dissi a Maria: «Belle quelle rose. Tienile». Lei mi guardò e disse: «Ma sono per me». Arrossii. Ero terribilmente imbarazzato e mi venne in mente che non avevo mai mandato fiori a Maria. Naturalmente le portavo tutti i fiori che ricevevo in teatro, ma proprio comperati per lei non ne avevo mai, spesso dovevo pagarmi io i fiori che mi venivano offerti sulla scena. «Di chi sono quei fiori?» domandai. «Di Züpfner» rispose. «Maledizione» dissi, «che cosa vuol dire questa storia?» Pensai a quel giorno che li avevo visti la mano nella mano. Maria arrossí e disse: «E perché non dovrebbe mandarmi dei fiori?». «La domanda dovrebbe essere posta in maniera diversa» replicai: «perché dovrebbe mandare dei fiori a te?». «Ci conosciamo da tanto tempo» rispose lei, «e forse è un mio ammiratore.» «E va bene» ribattei; «che ti ammiri, ma tutti questi fiori cosí cari – un gesto eccessivo. Lo trovo di cattivo gusto.» Lei ne fu offesa e uscí dalla stanza.
Quando aveva suonato il ragazzino del latte, eravamo seduti nel soggiorno. Maria andò ad aprire e gli diede il denaro. Visite nel nostro appartamento ne avevamo avute una sola volta: Leo, prima che si convertisse; ma lui non aveva suonato il campanello, era salito insieme con Maria.
Il campanello suonava in un modo strano, timido e nello stesso tempo insistente. Ebbi una terribile paura che potesse essere Monica, forse addirittura mandata da Sommerwild con un pretesto qualsiasi. Immediatamente mi riassalí il mio complesso del Nibelungo. Corsi con le pantofole inzuppate di caffè in anticamera, non riuscii a trovare il bottone che avrei dovuto premere. Mentre lo cercavo, mi venne in mente che Monica aveva le chiavi dell’appartamento. Finalmente trovai il bottone, premetti e udii di sotto un rumore come di un’ape che ronza contro il vetro di una finestra. Uscii fuori sul pianerottolo e mi misi accanto all’ascensore. Il segnale «occupato» si accese di una luce rossa, si illuminò il numero uno, poi il due, io fissavo nervosamente le cifre finché improvvisamente mi resi conto che accanto a me c’era qualcuno. Sussultai e mi volsi: una donna carina, biondo chiaro, non eccessivamente sottile, con occhi grigi molto dolci. Il cappello era, per il mio gusto, un po’ troppo rosso. Sorrisi, anche lei sorrise e disse: «Lei è certamente il signor Schnier. Il mio nome è Grebsel, sono la sua vicina. Sono molto lieta di conoscerla finalmente di persona». «Molto lieto anch’io» dissi. Ero davvero molto contento. La signora Grebsel, nonostante il cappello rosso, era davvero una gioia per gli occhi. Vidi che aveva sotto il braccio un giornale, «La voce di Bonn», lei notò il mio sguardo e disse: «Non se la prenda». «Lo prenderò a schiaffi, quel cane» dissi; «se lei sapesse che razza di vigliacco ipocrita è mai. E mi ha anche imbrogliato: un’intera bottiglia di cognac, mi ha scroccato.» Lei rise. «Mio marito e io saremmo felici» disse «di poter far meglio la sua conoscenza. Si ferma a lungo questa volta?» «Sí» risposi, «uno di questi giorni suonerò alla sua porta, se me lo permette. Mi dica, anche da lei è tutto color ruggine?» «Naturalmente» rispose, «il color ruggine è il contrassegno del quinto piano.»
L’ascensore si era arrestato un attimo al terzo piano; adesso si illuminava il numero quattro, il cinque, aprii di scatto la porta e per lo sbalordimento feci un passo indietro. Mio padre uscí dalla cabina, tenne la porta aperta alla signora Grebsel che vi entrava e poi si volse verso di me. «Mio Dio» dissi, «babbo.» Non lo avevo mai chiamato babbo prima d’allora, ma sempre soltanto papà. Lui disse: «Hans» e fece un gesto maldestro per abbracciarmi. Lo precedetti nell’ingresso, presi il suo cappello e il suo cappotto, aprii la porta del soggiorno e gli additai il divano. Sedette, con una cerimonia complessa.
Eravamo entrambi molto imbarazzati. Pare che l’imbarazzo sia l’unica possibilità di intesa fra genitori e figli. Probabilmente quel mio «babbo» a titolo di saluto aveva avuto un tono molto patetico e questo serví solo ad aumentare l’imbarazzo che comunque era inevitabile. Mio padre sedette in una delle poltrone color ruggine e mi guardò scuotendo la testa: con le pantofole fradice, i calzini bagnati, avvolto in quell’accappatoio troppo lungo che per giunta era anche color rosso-fuoco. Mio padre non è molto alto, esile e molto curato nella persona, ma con una tale sapiente noncuranza che quelli della televisione se lo contendono, ogniqualvolta vi siano da discutere questioni economiche. Irradia, inoltre, bontà e buon senso e nel frattempo è diventato piú famoso come divo della televisione di quanto non avrebbe mai potuto diventare come industriale minerario. Detesta ogni minimo accenno di brutalità. A vederlo cosí si penserebbe che fumi dei sigari, non grossi avana, ma quelli leggeri, sottili; il fatto invece che fumi soltanto sigarette, un uomo come lui, un capitalista di quasi settant’anni, lo fa apparire particolarmente giovanile e progressista. Capisco benissimo che lo mandino alla ribalta in tutti i dibattiti dove si tratta di denaro. Gli si vede in faccia che non solo irradia bontà, ma che è buono davvero. Gli tesi le sigarette, gli diedi da accendere e mentre mi chinavo verso di lui disse: «Non so molto sui clown, ma qualcosa credo di sapere. Tuttavia che facessero il bagno nel caffè mi torna completamente nuovo». Sa essere molto spiritoso. «Non faccio il bagno nel caffè, babbo» dissi; «volevo soltanto versarmene una tazza e non ci sono riuscito.» Almeno in questa frase avrei dovuto dire di nuovo «papà», ma ormai era troppo tardi. «Vuoi bere qualcosa?» Sorrise, mi guardò diffidente e domandò: «Che cos’hai in casa?». Andai in cucina. Nel frigorifero c’era il cognac, c’erano anche un paio di bottiglie di acqua minerale, una di vino rosso e della limonata. Presi una bottiglia per qualità, tornai nel soggiorno e allineai tutto quanto davanti a mio padre sul tavolino. Egli si tolse gli occhiali di tasca e studiò le etichette. Scuotendo la testa mise in disparte per prima cosa il cognac. Sapevo che il cognac gli piace e dissi offeso: «Ma mi pare che sia una buona marca». «La marca è ottima» rispose, «ma il miglior cognac cessa di esser tale quando è ghiacciato.»
«Mio Dio» esclamai, «davvero il cognac non va nel frigorifero?» Mi guardò di sopra le lenti come se mi fossi appena dato alla sodomia. A modo suo è anche lui un esteta; è capace la mattina di rimandare in cucina il toast tre o quattro volte, finché Anna non è riuscita a trovare l’esatto punto di doratura: una sorda lotta che ricomincia daccapo ogni mattina, perché Anna considera in ogni caso il toast come una «stupidaggine anglosassone». «Cognac in frigorifero» disse mio padre con disprezzo; «davvero non lo sapevi o solo fai finta? Con te non si è mai sicuri.»
«Non lo sapevo» risposi. Mi guardò con occhi scrutatori, sorrise e parve convinto.
«E pensare che ho speso tanto denaro per la tua educazione» esclamò. La frase avrebbe dovuto suonare ironica, appunto come ci si figura che possa dire un uomo di quasi settant’anni a un figlio perfettamente adulto; ma l’ironia non gli riuscí, si congelò sulla parola «denaro». Rifiutò scuotendo la testa anche la limonata e il vino e disse: «In queste condizioni, mi pare che l’acqua minerale sia ancora la bevanda piú sicura». Presi dalla credenza due bicchieri e aprii una bottiglia di acqua minerale. Questo per lo meno mi parve di riuscire a farlo senza sbagliare. Annuí con benevolenza mentre mi guardava versare l’acqua nei bicchieri.
«Ti disturba se rimango in accappatoio?» domandai.
«Sí» rispose, «mi disturba. Vestiti come si deve, ti prego. Questo abbigliamento e il tuo... il tuo odore di caffè danno alla situazione una comicità che non le si addice. Ho da fare con te un discorso serio. E poi – scusa se ti parlo cosí apertamente – sai benissimo che detesto ogni forma di sciatteria.»
«Non è sciatteria» replicai, «soltanto una forma di distensione.»
«Non so quante volte nella tua vita mi hai veramente ubbidito» disse, «e ora non sei piú tenuto all’ubbidienza. Ti prego quindi di farmi soltanto un favore.»
Ero sorpreso. Mio padre era sempre stato piuttosto schivo, quasi taciturno. Alla televisione ha imparato a discutere e ad argomentare con uno «charme avvincente». Io ero troppo stanco per sottrarmi a quello charme.
Andai in bagno, mi tolsi i calzini inzuppati di caffè, mi asciugai i piedi, infilai camicia, calzoni e giacca, corsi scalzo in cucina, ammucchiai in un piatto i fagioli che avevo fatto scaldare e vi ruppi sopra semplicemente le uova alla coque, grattai per bene con il cucchiaio il resto delle uova che era rimasto nel guscio, presi una fetta di pane, un cucchiaio e andai nel soggiorno. Mio padre fissò il piatto che avevo in mano con uno sguardo che era un miscuglio sapientemente dosato di sorpresa e di disgusto.
«Scusami» dissi «da questa mattina alle nove non ho piú mangiato nulla e immagino che tu non ci tenga a vedermi cadere svenuto ai tuoi piedi.» Riuscí a emettere una penosa risatina, scosse la testa e disse: «E va bene; ma sai, soltanto albumina non fa molto bene».
«Dopo mangerò una mela» risposi. Mescolai insieme i fagioli e le uova, diedi un morso al pane e presi una cucchiaiata di quel pasticcio, che trovai ottimo.
«Dovresti almeno metterci sopra un po’ di quel concentrato di pomodoro» disse.
«Non ne ho in casa» risposi.
Mangiai troppo in fretta e gli inevitabili suoni che facevo mangiando parevano dare fastidio a mio padre. Soffocò la nausea, ma in maniera assai poco convincente e alla fine mi alzai, andai in cucina, vuotai il piatto in piedi davanti al frigorifero e mentre mangiavo mi contemplavo nello specchio che sta appeso sopra il frigorifero. Nelle ultime settimane non avevo fatto neppure il piú importante degli esercizi: la ginnastica facciale. Un clown, il cui effetto principale consiste nell’immobilità della maschera, deve mantenere il viso perfettamente mobile. Un tempo, prima di cominciare a fare i miei esercizi, usavo farmi una linguaccia per sentirmi realmente vivo e presente prima di estraniarmi di nuovo da me stesso. Piú tardi abbandonai questo esercizio e presi a guardarmi attentamente in viso, senza servirmi di alcun artificio, ogni giorno per almeno mezz’ora, finché alla fine non esistevo piú: dal momento che non sono incline al narcisismo, spesso mi sentivo prossimo alla pazzia. Dimenticavo semplicemente che ero io quella faccia che vedevo nello specchio, voltavo lo specchio quando avevo finito gli esercizi e quando, piú tardi, nel corso della giornata mi vedevo per caso, passandoci davanti, in uno specchio, mi spaventavo: c’era un estraneo nella mia stanza da bagno, al gabinetto; un tizio che non sapevo se fosse serio o buffo, un fantasma pallido con il naso lungo; e allora correvo piú in fretta che potevo da Maria, per vedermi nel suo viso. Da quando lei non c’è piú non riesco piú a fare i miei esercizi: ho paura di diventare pazzo. Quando avevo finito il mio allenamento andavo da lei, piú vicino possibile, fin quando riuscivo a vedermi nelle sue pupille: un’immagine minuscola, un po’ deformata, ma riconoscibile. Quello ero io, eppure ero quello stesso di cui avevo paura quando ero davanti allo specchio. Come potevo spiegare a Zohnerer che senza Maria non posso piú fare gli esercizi allo specchio? Osservarmi ora mentre mangiavo era soltanto triste, non mi faceva paura. Potevo sempre attaccarmi al cucchiaio, potevo riconoscere i fagioli, le tracce di bianco e di giallo d’uovo, la fetta di pane che diventava sempre piú piccola. Lo specchio mi confermava qualcosa di pietosamente reale come un piatto vuoto, una fetta di pane che diventava sempre piú piccola, una bocca leggermente unta che ripulivo con la manica della giacca. Non era un esercizio. Non c’era nessuno che mi avrebbe strappato allo specchio. Lentamente ritornai nel soggiorno.
«Troppo in fretta» disse mio padre; «tu mangi troppo in fretta. Siediti un momento. Non bevi qualcosa?»
«No» risposi, «volevo farmi un caffè, ma non ci sono riuscito.»
«Vuoi che te lo faccia io?» domandò.
«Sei capace di fare il caffè?» domandai.
«Godo fama di saper fare un ottimo caffè» rispose.
«Ah, lascia stare» dissi, «bevo un po’ d’acqua minerale, non ha importanza.»
«Ma te lo faccio volentieri» insistette.
«No, grazie» dissi. «In cucina c’è un disordine spaventoso; un’enorme pozzanghera di caffè, scatole di conserve, gusci d’uovo per terra.»
«Va bene, come vuoi.» Pareva davvero offeso, in maniera sproporzionata alla cosa. Mi versò l’acqua minerale, mi porse il suo astuccio delle sigarette, ne presi una, me l’accese e ci mettemmo a fumare. Mi faceva pena. Probabilmente con il mio piatto di fagioli lo avevo completamente disorientato. Aveva certo calcolato di trovare a casa mia quello che per lui rappresenta la parola bohème: uno studiato disordine e ogni sorta di cose moderne ai muri e sul soffitto; invece l’appartamento è arredato in maniera casuale e del tutto priva di stile, direi quasi di una banalità piccolo borghese e notai che questo l’opprimeva. La credenza l’avevamo comperata scegliendola da un catalogo, i quadri alle pareti erano tutte stampe, soltanto due erano astratti, le uniche cose graziose erano due acquerelli di Monica Silvs che erano appesi sopra il cassettone: paesaggio del Reno III e paesaggio del Reno IV in toni di grigioscuro con tracce appena percettibili di bianco. Le poche cose graziose che abbiamo – seggiole, un paio di vasi e il carrello per il tè che sta nell’angolo – le ha comperate Maria. Mio padre è un uomo che ha bisogno di atmosfera ma l’atmosfera del nostro appartamento lo rendeva nervoso e lo faceva ammutolire. «Te lo ha raccontato la mamma che sono qui?» domandai alla fine, quando ci eravamo già accesi la seconda sigaretta senza aver ancora pronunciato una parola.
«Sí» disse «perché non sei capace di evitare certe cose?»
«Se non si fosse presentata al telefono con la sua voce da comitato sarebbe stato tutto diverso» risposi.
«Ma che cos’hai contro quel comitato?» domandò lui calmo.
«Niente» dissi, «è una bella cosa che i contrasti razziali vengano risolti, ma la mia concezione di razza è diversa da quella del comitato. I negri, per esempio, adesso sono addirittura l’ultimo grido; era già un pezzo che volevo offrire alla mamma un negro che conosco molto bene come figura per il presepio, e quando si pensa che ci sono centinaia di razze diverse di negri... Il comitato non resterà mai senza lavoro. Oppure gli zingari» dissi, «la mamma dovrebbe invitarne qualcuno ai suoi tè. Cosí, presi direttamente dalla strada. Ce ne sono ancora sufficienti esemplari.»
«Non è di questo che volevo parlare con te» disse.
Tacqui. Mi guardò e proseguí piano: «Volevo parlarti di denaro». Continuai a tacere. «Suppongo che tu ti trovi in un certo imbarazzo. Di’ almeno qualcosa.»
«Imbarazzo è una bella espressione. Probabilmente per un anno non potrò piú salire su un palcoscenico. Guarda qui.» Tirai su il calzone e gli mostrai il ginocchio gonfio, poi lo riabbassai e mi puntai l’indice sul petto, a sinistra. «E qui» dissi.
«Mio Dio» esclamò, «cuore?»
«Sicuro, cuore.»
«Telefonerò subito a Drohmert e lo pregherò di riceverti. È il miglior cardiologo che abbiamo.»
«Malinteso» feci io, «non ho bisogno di consultare Drohmert.»
«Ma hai detto cuore.»
«Forse avrei dovuto dire anima, spirito, che so io; a me pareva che cuore fosse l’espressione giusta.»
«Ah» disse asciutto, «quella storia.» Certamente Sommerwild gli aveva raccontato la «storia» al circolo, fra lepre in salmí e birra durante una partita di Skat. Si alzò, cominciò a camminare avanti e indietro, poi si arrestò dietro la sua poltrona, si appoggiò alla spalliera e abbassò lo sguardo su di me.
«Ti sembrerà certamente stupido ma ti voglio dire una cosa importante» disse; «sai che cosa ti manca? Ti manca proprio quello che fa di un individuo un vero uomo: la capacità di farsi una ragione delle cose.»
«Questo oggi me lo sono già sentito dire un’altra volta.»
«Allora te lo senti dire per la terza: fattene una ragione.»
«Lascia stare» dissi stancamente.
«Ma che cosa credi che abbia provato io quando Leo è venuto da me a dirmi che si faceva cattolico? Per me è stato un dolore come la morte di Henriette. Non mi avrebbe fatto tanto male se mi avesse detto che voleva diventare comunista. In questo avrei almeno potuto figurarmi qualcosa: un giovane che insegue un ideale sbagliato di giustizia sociale e roba del genere. Ma quello...» Si afferrò alla spalliera della poltrona e scosse violentemente la testa. «Quello no! No!» Pareva proprio che facesse sul serio. Si era fatto pallidissimo e appariva improvvisamente molto piú vecchio della sua età.
«Siediti, babbo» dissi; «adesso bevi un cognac.»
Sedette e fece un cenno di assenso verso la bottiglia del cognac. Io andai a prendere un bicchiere dalla credenza, glielo riempii; lui lo prese e lo bevve, senza dire grazie né fare un cenno. «Tu certo non lo puoi capire» disse. «No» risposi. «Io ho paura per ogni giovane che crede in quella cosa» disse; «per questo mi ha colpito cosí profondamente, ma alla fine anche di questo ho dovuto farmi una ragione. Una ragione. Perché mi guardi cosí?»
«Devo farti le mie scuse» dissi. «Quando ti vedevo in televisione ho sempre pensato che saresti stato un magnifico attore. Persino un po’ un clown.»
Mi guardò con diffidenza, quasi offeso, e io continuai in fretta: «No, davvero papà, straordinario». Ero contento di aver ritrovato il «papà».
«Mi hanno semplicemente costretto a quella parte» disse lui.
«Ma ti sta a pennello» risposi «e quello che tu reciti è molto ben fatto.»
«Io non recito niente» fece lui serio «assolutamente niente. Non ho bisogno di recitare niente.»
«Male» replicai, «male per i tuoi avversari.»
«Non ho avversari» replicò lui indignato.
«Ancora peggio per i tuoi avversari» insistetti.
Mi guardò ancora sospettoso, poi rise e disse: «Ma non li considero degli avversari».
«Molto peggio ancora di quanto pensassi» replicai, «ma quelli con i quali tu parli continuamente di denaro lo sanno che tu in definitiva gli taci sempre la cosa piú importante – o vi mettete d’accordo prima di andare davanti alle telecamere?»
Si versò un altro cognac e mi guardò con aria interrogativa: «Volevo parlare con te del tuo avvenire».
«Un momento» dissi, «mi interessa semplicemente sapere come avviene questa storia. Voi parlate sempre di percentuali – dieci, venti, cinque o cinquanta per cento – ma non dite mai: per cento di quanto?» Mentre alzava il bicchiere, beveva il cognac e tornava a guardarmi, aveva un’espressione quasi stupida. «Voglio dire» continuai «che io non ho imparato molto a far di conto, però so che il cento per cento di un mezzo pfennig è mezzo pfennig, mentre il cinque per cento di un miliardo sono cinquanta milioni; capisci che cosa voglio dire?»
«Mio Dio, hai davvero tanto tempo per stare davanti alla televisione?»
«Sí» risposi, «dopo quella storia, come tu la chiami, guardo la televisione, mi fa sentire magnificamente vuoto. Mi dà il vuoto integrale. E quando si vede il proprio padre una volta ogni tre anni, fa sempre piacere incontrarlo di tanto in tanto sullo schermo della televisione. In qualche bettola, davanti a un bicchiere di birr...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Dedica
- Capitolo I
- Capitolo II
- Capitolo III
- Capitolo IV
- Capitolo V
- Capitolo VI
- Capitolo VII
- Capitolo VIII
- Capitolo IX
- Capitolo X
- Capitolo XI
- Capitolo XII
- Capitolo XIII
- Capitolo XIV
- Capitolo XV
- Capitolo XVI
- Capitolo XVII
- Capitolo XVIII
- Capitolo XIX
- Capitolo XX
- Capitolo XXI
- Capitolo XXII
- Capitolo XXIII
- Capitolo XXIV
- Capitolo XXV