La casa di ghiaccio
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La casa di ghiaccio

Venti piccole storie russe

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La casa di ghiaccio

Venti piccole storie russe

Informazioni su questo libro

Venti storie di principi, buffoni, briganti, rivoltosi, e altri indimenticabili personaggi, ambientati nella Russia del XVIII e XIX secolo, che offrono una straordinaria e inedita immagine del passato del paese più affascinante ed enigmatico d'Europa.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
eBook ISBN
9788852016387

1

Seicentoventi cani e due dozzine di cammelli seguivano Pietro II quando, l’8 settembre 1729, lasciò Mosca per l’ennesima battuta di caccia – una volta ancora a Gorenki, dove una volta ancora lo avrebbe ospitato Aleksej Grigor’evič Dolgorukov, padre del favorito Ivan. Il principe Aleksej si adoperò in ogni modo per allietare e svagare il sovrano che proprio nelle sue terre festeggiò il quattordicesimo compleanno; appena se ne presentasse l’occasione, lo lasciava solo con Ekaterina, la maggiore e la più bella delle sue tre figlie. Diciotto anni, aspetto soave, indole fiera e volitiva, Ekaterina Alekseevna aveva da tempo un’amorosa intesa con il conte di Millesimo, segretario della missione austriaca a Pietroburgo; l’ambizione cancellò ogni altro sentimento, la lusinga della corona le rubò il pudore: divenne l’amante dello zar. Convinto di aver tradito l’ospitalità, la fiducia delle persone che credeva a lui più devote, Pietro II agì come l’onore gli imponeva; tornato a Mosca, il 19 novembre annunciò al Consiglio Supremo e alle massime cariche militari il suo prossimo matrimonio con Ekaterina Dolgorukova; un ukaz le conferiva il titolo di «Altezza imperiale» e «augusta fidanzata», il clero doveva ricordarne il nome durante le funzioni religiose. Il popolo di Mosca esultò: il «piccolo sole bello» sposava una sua figlia, purissimo sangue boiaro; ora sarebbe rimasto per sempre nella vecchia capitale ripudiando definitivamente Pietroburgo, la «città di acqua e paludi» amica dell’Europa, i suoi «uomini nuovi», gli invisi costumi stranieri. Rabbia e sgomento si impadronirono invece degli innumerevoli nemici dei Dolgorukov – la potente, arrogante famiglia che da anni si accaparrava cariche, ricchezze, onorificenze. Erano già riusciti ad assoggettare la flebile volontà dello zar fanciullo, imparentandosi con lui ne sarebbero divenuti gli intoccabili reggenti.
Alle tre pomeridiane del 30 novembre, accompagnata da un folto corteggio, Ekaterina Dolgorukova arrivò a palazzo Le Fort; insieme a dignitari di Corte, generali, diplomatici (mancava solo il conte di Millesimo, precipitosamente inviato en courrier a Vienna), erano già in attesa i membri della famiglia imperiale. La corona dorata che sovrastava la sua carrozza urtò contro l’architrave del portone, cadde sul selciato, andò in pezzi: «Brutto segno!» esclamarono dalla folla, «queste nozze non si faranno mai!». A ogni uscita della residenza dello zar, perfino nel salone destinato alla cerimonia, stavano in armi gli uomini del reggimento della Guardia Preobraženskij, chiamati da Ivan Dolgorukov per sventare irruzioni, colpi di mano. Coadiuvato da vescovi e archimandriti, l’arcivescovo di Novgorod Feofan Prokopovič celebrò il rito religioso, benedisse gli anelli. Anche la granduchessa Elizaveta e la zarina Praskov’ja, vedova di Ivan V, nascondendo il dispetto andarono a baciare la mano dell’«augusta fidanzata»; il suo volto aveva serbato per tutto il tempo «un’espressione sprezzante e altera, sconveniente quanto impolitica».
A coronare il trionfo dei Dolgorukov (Aleksej Grigor’evič ricevette in dono quarantamila anime di servi, Ivan Alekseevič fu nominato gran ciambellano) sul finire dell’anno giunse dalla Siberia la notizia della morte del serenissimo principe Menšikov, un giorno favorito di Pietro I, poi avido e onnipotente tutore di Pietro II. Massimi responsabili della sua disgrazia, nel 1728 i Dolgorukov ne avevano ottenuto la reclusione a vita nel carcere di Berëzov.
Il 6 gennaio 1730 gli sposi promessi assistettero al «Giordano», la tradizionale benedizione delle acque. Per quattro ore Pietro II restò a cavallo, la testa scoperta, sulla Moscova ghiacciata; quella sera stessa accusò una forte emicrania, febbre, brividi: il gran gelo patito sul fiume, diagnosticarono i medici di Corte. Due giorni più tardi dovettero ricredersi: era vaiolo. Alle prime ore del 19 gennaio 1730, giorno fissato per le nozze, il ragazzo sposò la morte. Ivan Dolgorukov annunciò alla folla di dignitari convenuta a palazzo Le Fort che prima di passare a miglior vita Sua Maestà aveva designato come sua erede al trono russo l’«augusta fidanzata»; – «Viva l’imperatrice!» gridò sguainando la sciabola e levandola in alto. Nessuno gli fece eco, nessuno imitò il suo gesto. Mentre il corpo dello zar veniva lavato e vestito, il Consiglio Supremo si riunì per decidere chi avrebbe governato la Russia: con la morte di Pietro II si interrompeva la discendenza maschile dei Romanov. Prese la parola il principe Dmitrij Michajlovic Golicyn: «Ai bastardi di Pietro I non mette neanche conto pensare... Quanto al testamento del compianto sovrano in favore di Ekaterina Dolgorukova, di cui ho appena avuto notizia, è un falso...». La scelta cadde infine su Anna, duchessa di Curlandia, figlia di Ivan V. Sconfitti, i Dolgorukov diedero in gran fretta alle fiamme il testamento di Pietro II che il 17 gennaio, al termine di un concitato consiglio di famiglia, avevano stilato in due esemplari. Il principe Ivan ne aveva sottoscritto uno contraffacendo la grafia del sovrano – semmai fosse fallito il tentativo di indurlo a firmare l’altra copia. Era fallito: – lo zar moribondo non aveva più ripreso conoscenza.
In aprile la «sposa mancata» – così a Mosca chiamavano ora Ekaterina Dolgorukova – diede prematuramente alla luce una bambina morta. Non vi erano più ostacoli per la nuova imperatrice, poteva iniziare la persecuzione dei Dolgorukov. Per aver distolto il giovanissimo monarca da «una buona e onesta condotta», per «avergli imposto in età non ancora matura per il matrimonio il fidanzamento con la figlia Ekaterina... così come un giorno Menšikov lo aveva obbligato a fidanzarsi con sua figlia... per aver arrecato danno alla salute di Sua Maestà con continui viaggi lontano da Mosca, non soltanto nei giorni estivi, ma anche in quelli più freddi dell’autunno e in inverno», il principe Aleksej Dolgorukov veniva condannato al confino perpetuo nei suoi possedimenti di Penza; i famigliari dovevano seguirlo. Si misero subito in viaggio; lungo la strada il convoglio (cento servitori, duecento cani) si fermò nella tenuta di Selišče, proprietà dei Dolgorukov: i principi volevano fare una battuta di caccia, Ekaterina, indebolita dal parto, aveva bisogno di riposo. Il 19 giugno li raggiunse una staffetta con un nuovo decreto imperiale: privati di tutti i titoli e i beni, dovevano ripartire immediatamente alla volta di Berëzov, dove li attendeva il carcere a vita. Le quattro stanze della vecchia casa di legno che aveva ospitato l’odiato Menšikov, nel cortile della prigione, accolsero il principe Aleksej e la principessa Praskov’ja, i figli Nikolaj, Aleksej, Aleksandr, Elena, Ekaterina, Anna; il principe Ivan e la moglie Natal’ja trovarono alloggio nella rimessa.
Costruita dai russi alla fine del sedicesimo secolo per ricordare alle popolazioni indigene chi fossero i nuovi signori della Siberia, Berëzov sorgeva, al di là degli Urali, sulle ripide rive della Sos’va, poco prima della confluenza nell’Ob’. Dalla città più vicina, Tobol’sk, la separavano mille e più verste, le foreste della taiga; circondata da paludi, accecata dalle notti senza fine del circolo polare, sferzata da venti impietosi, si liberava dal manto di neve solo per le tre settimane della brevissima estate. Tra i prigionieri separati dal mondo (non potevano scrivere né ricevere lettere), esasperati dalla clausura (potevano lasciare il carcere solo per andare, sotto scorta, in chiesa), incattiviti dal freddo, dalla noia, dagli stenti, riaffiorarono vecchi rancori, nacquero nuove accuse, battibecchi, alterchi; il principe Aleksej alzava spesso le mani contro i figli maschi, rimproverava crudamente Ekaterina per non aver saputo mettere al mondo un erede al trono vivo.
La sposa mancata trascorreva le giornate in un angolo della stanza che divideva con le sorelle, il più possibile lontana da litigi e beghe, intenta a ricamare, leggere libri sacri; quando il tempo era più clemente usciva nel cortile per dar da mangiare alle oche dello stagno. Parlava di rado, solo per impartire ordini a famigliari e secondini; impietrita in una gelida albagia, si comportava come la futura imperatrice di tutte le Russie anche se mangiava con posate di legno e beveva da una tazza di stagno. Disprezzava e rifuggiva gli abitanti di Berëzov che con il tempo, impietositi dalla sventura dei prigionieri, avevano spezzato il cerchio della loro solitudine andando a visitarli, ricevendoli nelle loro case. I nuovi amici di Ivan Dolgorukov, divenuto capofamiglia dopo la morte della madre e del padre, erano il maggiore Petrov, responsabile della sempre più blanda sorveglianza, il caporale magazziniere Koz’min, il vecchio voivoda Bobrovskij, il sottotenente di vascello Ovcyn, alcuni sacerdoti; capitava a volte anche Tišin, un funzionario del dazio di Tobol’sk. Portavano doni: capi di selvaggina, pallidi e stentati frutti del Nord, agnellotti, panna acida, ma soprattutto vodka, panacea del corpo e dell’anima a quelle ingrate latitudini. L’alcol scioglieva la lingua del principe Ivan, che aveva ripreso la vita sregolata di un tempo; ubriaco, si lasciava andare a feroci giudizi sul conto di Anna, la «zarina svedese», e del suo amante Bühren, «nipote di un palafreniere», raccontava storie piccanti della Corte: la granduchessa Elizaveta aveva avuto per amante anche il giovanissimo nipote, il futuro Pietro II... A Tišin, invece, l’alcol scioglieva le mani, e una sera rivolse a Ekaterina Alekseevna pesanti attenzioni. La principessa ordinò al fratello che il volgare spasimante venisse punito come meritava. Bastonato da Ovcyn e due suoi compagni, Tišin si vendicò: il governatore della Siberia venne a sapere che a Berëzov si usava indulgenza verso criminali di Stato, si ascoltavano i loro discorsi sovversivi senza darne notizia all’autorità.
Una notte del settembre 1738 da una grande chiatta scese sulle rive della Sos’va un drappello di soldati armati. All’alba l’imbarcazione ripartì alla volta di Tobol’sk con più di sessanta uomini in catene, tra cui lo stesso Ivan Dolgorukov. Dopo l’inchiesta, condotta «con zelo» (con fruste, tenaglie, ferri roventi, cavalletti), il maggiore Petrov fu condannato alla decapitazione, altri all’asportazione delle narici, alle verghe, al confino, ai lavori forzati. Il principe Ivan restò invece a lungo nei sotterranei della prigione di Tobol’sk, incatenato a un muro; gli aguzzini gli impedivano di dormire, lo liberavano solo per stirargli le membra con il tratto di corda. Sfinito dalle torture, la psiche offuscata, nel delirio Ivan Dolgorukov rivelò anche ciò che nessuno gli aveva chiesto: come era nato il falso testamento di Pietro II, come avevano complottato, insieme al padre, gli zii Vasilij Lukič, Sergej e Ivan Grigor’evič Dolgorukov. Fu aperta una nuova inchiesta, nel novembre 1739 seguì il castigo: decapitazione per i tre nuovi imputati, supplizio della ruota per Ivan Dolgorukov, amputazione della lingua e lavori forzati per il fratello Nikolaj, deportazione in Kamčatka per i fratelli Aleksandr e Aleksej (galeotto il primo, mozzo il secondo), segregazione in conventi diversi per le principesse.
Ekaterina Dolgorukova raggiunse sotto scorta il convento della Resurrezione di Gorickij, un villaggio sul Lago Bianco; lì un tempo erano state incarcerate donne illustri come la nuora di Ivan il Terribile e la figlia di Boris Godunov – questo era per lei motivo di conforto, addirittura di orgoglio. La rinchiusero nella prigione: un’izba nascosta dietro le stalle e le scuderie, divisa in bugigattoli che prendevano luce da una minuscola feritoia; nessuno poteva vedere la reclusa, salvo la monaca addetta alla sua sorveglianza e l’igumena. Questa portava al collo un pesante rosario di legno che nelle sue mani faceva spesso le veci della frusta; un giorno lo usò per colpire la boriosa prigioniera che la trattava come una sguattera. Ekaterina Dolgorukova non si scostò per sottrarsi al colpo, non manifestò sorpresa né dolore; si limitò a dire alla religiosa di cui aveva indovinato le umili origini: «Rispetta la luce anche nel buio, io sono una principessa e tu una serva della gleba». Visitata da un generale di Pietroburgo, un alto funzionario della Cancelleria Segreta, non si alzò al suo cospetto e voltò ostentatamente lo sguardo, il capo. L’uomo ordinò che la «scostumata» venisse punita: ridussero le già modeste razioni, murarono la feritoia.
In esecuzione di un rescritto di Anna, arrivato in Siberia quando l’imperatrice era già morta, nel dicembre 1740 Ekaterina Dolgorukova subì la tonsura nel convento della Natività di Tomsk: una chiesetta decrepita, sei celle, monache anziane e malate che vivevano di carità, dimenticate anche dalle autorità ecclesiastiche; il pane era scarso, il tè un raro lusso, lo zucchero un miracolo. Non rispose alle domande dello ieromonaco Mojsej: era autentica la sua vocazione, cosa la spingeva a lasciare il mondo? Le posero il velo sulla testa rasata, le fecero indossare la veste da novizia. Dormiva su una panca della cella che divideva con la vecchia carceriera e in cui talvolta, per ripararsi dal freddo, entrava anche il soldato che stava di guardia, notte e giorno, alla porta. Non restava sola neanche quando, una volta al mese, si cambiava la camiciola di tela. Di tanto in tanto la lasciavano andare – non più di cento passi – fino al campanile; saliti i gradini di legno, scrutava a lungo l'orizzonte collinoso. Una staffetta arrivata da Tomsk le intimò di consegnare l’anello di fidanzamento che continuava a portare al dito della mano screpolata, offesa da sporcizia e gelo; rispose seccamente: «È mio, dono del mio augusto fidanzato. Potrete averlo solo se consentirete a tagliarmi la mano».
Nel gennaio 1742 l’imperatrice Elisabetta I restituì la libertà alla novizia Dolgorukova. Partendo, Ekaterina Alekseevna salutò con grande amabilità la carceriera, le monache: sembrava prendere congedo da ospiti del suo rango nella cui dimora si fosse gradevolmente intrattenuta per qualche tempo. A Pietroburgo scoprì compiaciuta che molti la chiamavano ancora «augusta fidanzata». Si allarmò invece l’imperatrice, e cercò in ogni modo di accasarla: in Russia non mancavano teste calde pronte ad avventure disperate. Ma la superbia di Ekaterina Dolgorukova, i suoi modi autoritari, il carattere «violento», scoraggiavano i possibili partiti – eppure era ancora bellissima, e gareggiava in eleganza con Elisabetta: unica tra le damigelle d’onore, ignorava il divieto di sfoggiare a Corte toilette simili a quelle della sovrana.
Nella tarda estate del 1745, appena perduta la prima moglie, la chiese infine in sposa il conte Aleksandr Borisovič Bruce, ansioso di mettere le mani sulle immense fortune di cui i superstiti della famiglia Dolgorukov erano tornati in possesso. Ekaterina Alekseevna si piegò alla volontà dell’imperatrice, ma si rifiutò al marito – il matrimonio non venne consumato. Poche settimane dopo le nozze la contessa Bruce volle andare a Novgorod per rendere omaggio alle tombe dei parenti giustiziati. Tornò a Pietroburgo febbricitante. Dai medici pretese la verità, e alla notizia che una grave affezione polmonare le lasciava pochi giorni di vita ordinò che venissero bruciati davanti a lei, nella camera in cui si stava spegnendo, tutti i suoi abiti, la sua biancheria: «Nessuna dopo me indosserà ciò che vestiva il corpo dell’augusta fidanzata».

2

Ogni mattina l’imperatrice Anna indossava un’ampia veste da camera di seta verde pisello o azzurro cielo, annodava intorno alla grossa testa uno scialletto color lampone, quindi passava in rassegna i gioielli, gli abiti, le stoffe preziose di cui erano colmi i guardaroba; soltanto allora cominciava a firmare, per lo più senza leggerle, le carte che sottoponeva alla sua attenzione il segretario di Gabinetto.
A Mitava era stata povera come un topo di chiesa. Forte dell’insperata corona, seppelliva nello sfarzo la memoria di un passato ricco solo di amarezze e umiliazioni. Sapeva quanto malfermo e vacillante fosse il trono su cui sedeva: la odiavano gli alti dignitari che glielo avevano offerto nella presunzione di manovrarla a proprio piacimento e subito avevano dovuto chinare la testa di fronte a una donna per nulla docile, anzi dispotica e crudele; la disprezzava l’antica nobiltà; non la amava il popolo vessato da sbirri e mastri torturatori, controllato a ogni passo, ogni parola, da spie e sicofanti. La diffidenza, con il suo tetro corteo di sospetti e fantasmi, non la abbandonava mai. Fugava i pensieri cupi dandosi bel tempo: ricevimenti, balli in maschera, commedie (prediligeva quelle in cui gli attori si bastonavano di santa ragione, e allora sghignazzava a lungo, a piena gola), opera italiana, gioco d’azzardo, partite a scacchi, a biliardo, battute di caccia, cavalcate – per compiacere Bühren, l’uomo che «parlava coi cavalli come con esseri umani e con gli uomini come coi cavalli», era diventata un’abilissima amazzone. Con arco e fucile, poi, era insuperabile. Le «Notizie di San Pietroburgo» tenevano costantemente informati i sudditi sulle imprese venatorie di Sua Maestà; dal 10 giugno al 26 agosto 1740, durante l’ultima sua estate, la sovrana uccise «nove cervi, sedici capre selvatiche, quattro cinghiali, un lupo, trecentosettantaquattro lepri, sessantotto oche selvatiche e sedici grossi uccelli marini». Una vera Diana, se non fosse stato per il corpo troppo lungo e massiccio, il naso imponente, la pelle butterata, la sgraziata voce mascolina. Quando non poteva allontanarsi dalla capitale tirava alle bestie del suo maneggio privato, oppure sparava a rondini, passeri e colombi dalle finestre del Palazzo d’Inverno – quello che Rastrelli aveva costruito per lei ampliando la più modesta dimora abitata dallo zio Pietro I.
Aveva settanta stanze, il nuovo palazzo, e l’imperatrice non le voleva mai vuote: monache, bizzoche, pellegrini, nani, negretti, piccoli tatari, calmucche, georgiane, persiane, tunguse, damigelle d’onore che dovevano rallegrarla cantando senza posa, dame di compagnia – Mamma la zoppa, Dar’ja la lunga, Akulina la testona, Ekaterina la gallina – che dovevano distrarla raccontando aneddoti, storielle amene, pettegolezzi, fatti curiosi avvenuti a Pietroburgo, a Mosca, nelle lontane province. Quando era libera da impegni ufficiali passava intere giornate con le sue parlone, pretendendo sempre nuovi racconti, interrogandole lei stessa: «A Mosca le donne sparano col fucile?». «Io, madre mia, ho visto il principe Čerkasskij che da una finestra insegnava a sparare alla principessa, e il bersaglio era sullo steccato.» «E fa centro?» «Certe volte sì, certe no.» «E agli uccelli spara?» «Una volta, madre mia, ho visto che mettevano un colombo vicino al bersaglio e lei lo ha colpito all'ala, e il colombo camminava tutto storto, e poi ha sparato di nuovo e l’ha ucciso»... «Raccontami dei briganti, come sono?» «Io, Vostra Maestà, non li ho mai visti, ma mi hanno detto che...» Faceva cercare per tutto il paese queste serve ciarliere da «son cousin» Semën Andreevič Saltykov, governatore generale di Mosca: «Vedi se a Perejaslav, tra le nobili povere o nelle famiglie di mercanti, c’è qualcuna che assomigli a Tat’jana Novokščënova; lei ho paura che morirà presto, e mi raccomando che siano in grado di sostituirla degnamente; conosci le nostre abitudini, le vogliamo sui quarant’anni e che sappiano parlare come la Novokščënova»... «Dalla vedova Avdot’ja Ivanovna Zagrjažskaja vive una principessa Vjazemskaja, zittella; trovala e mandamela qui... dicono che chiacchiera molto.»
Aveva sei buffoni; la sollazzavano con facezie e scempiaggini, smorfie, salti, capriole, azzuffandosi per finta o del tutto seriamente, a sangue. Per loro aveva creato il burlesco Ordine di San Benedetto, le cui insegne riproducevano in miniatura la croce dell’Aleksandr Nevskij: beffa e oltraggio per i russi che si erano guadagnati l’alta onorificenza sul campo di battaglia, servendo lo Stato. La domenica, tornando dalle funzioni religiose con il suo variopinto seguito (il nero era bandito a Corte, e perfino il vecchio vicecancelliere Ostermann doveva presentarsi a palazzo in frac rosa), voleva vedere i suoi pagliacci accovacciati su un paniere, intenti a gridare: «Coccodé!». Insieme a Ivan Balakirev e Juan d’Acosta, un giorno buffoni di Pietro il Grande, a Pedrillo, un ex violinista e cantante napoletano, per Anna chiocciavano un conte Apraksin, un principe Volkonskij, un principe Golicyn: lezione e monito per i nobili d’alto lignaggio che guardavano con sufficienza la cricca di parvenus stranieri di cui l’imperatrice s’era circondata – soprattutto il suo amante, Ernst-Johann von Bühren, l’uomo che teneva la Russia nel terrore.
Impeccabilmente educato nel remoto borgo di Pinega dove la sua famiglia viveva al confino, il principe Michail Alekseevič Golicyn aveva anche studiato alla Sorbonne prima di convincersi che né le lettere né le scienze erano la sua vocazione; intrapresa la carriera militare, a poco più di quarant’anni era andato in congedo con il modesto grado di maggiore dell’esercito di linea. Di ingegno non luminoso, privo di ambizioni, amava solo le donne e i quieti piaceri della vita coniugale. Rimasto vedovo, nel 1729 aveva visitato l’Italia e si era invaghito della figlia di un trattore fiorentino; per poterla sposare aveva abbracciato il cattolicesimo. Al suo ritorno in patria era vissuto a Mosca, nel Quartiere Tedesco, badando a tenere ben nascosta la popolana straniera che aveva presa in moglie, e ancor più l’abiura della fede ortodossa. Ma presto il suo segreto era stato scoperto, anche l’imperatrice ne era venuta a conoscenza; temendo nuovi castighi, i Golicyn si erano affrettati a giustificare Michail Alekseevič non aveva mai brillato per intelligenza, dissero, e negli ultimi anni s’era del tutto scimunito. Invalidato il matrimonio italiano, Anna Ivanovna aveva subito assunto l’apostata come buffone di Corte, felice di umiliare la sua altezzosa famiglia. Ne era rimasta molto soddisfatta; il 20 febbraio 1733 aveva scritto a Saltykov: «Semën Andreevič! Ti ringrazio per avermi mandato Golicyn; qui ha superato in stupidità tutti gli altri idioti; se per caso ne trovi un altro così, fammelo sapere». Il principe Golicyn aveva tra l’altro il compito di servire il kvas alla tavola imperiale; i convitati si divertivano a sbruffargli addosso l’appiccicosa bevanda, l’imperatrice si sbellicava dalle risa. Insieme alla residua dignità, Golicyn aveva perso anche il nome: era ormai per tutti «Kvasnik».
(«Durante un ricevimento un’avvenente fanciulla disse a Kvasnik: “Se non sbaglio, vi ho già visto da qualche parte”. “È più che probabile, mademoiselle” rispose Kvasnik, ”io da qualche parte ci vado spesso.”
«“Siete sempre così amabile” disse Kvasnik a una giovane di nobile casato. “Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa di voi” fece quella. “Non costa niente, prendete esempio da me: mentite!”
«Quando qualcuno osservò con rammarico, a proposito di un pittore, che i suoi ritratti erano belli mentre i figli che aveva messo al mondo erano brutti, Kvasnik disse: “Cosa c’è di strano? I ritratti li fa di giorno, i figli di notte...”.
«Una volta Bühren chiese a Kvasnik: “Cosa pensano di me i russi?”. “Certi, Vostra Altezza, vi considerano Dio, altri Satana, nessuno un uomo.”
«Un’anziana signora sosteneva di non avere più di quarant’anni. Kvasnik commentò: “Le si può credere, sono dieci anni che lo dice”.
«Kvasnik visitava spesso una vedova da cui andava anche un suo amico; persa una gamba a Očakov, questi ne aveva una di legno. Quando la vedova restò incinta, Kvasnik disse all’amico: “Fratello mio, stai attento, se il bambino nasce con una gamba di legno, io ti rompo anche quella sana”.»)
Autunno; la fitta nebbiolina giallastra che assediava Pietroburgo e la pioggia che cadeva ostinata da giorni disponevano a malinconici pensieri anche Avdot’ja Ivanovna detta «Buženinova» (da buženina, maiale lessato con verdure e spezie, il piatto preferito dell’imperatrice), una parlona calmucca particolarmente cara ad Anna Ivanovna per l’innata allegria, lo spirito mordace. La donna si lamentò con la sovrana della propria condizione di zittella ignara di amore e carezze. Chi, del resto, avrebbe potuto desiderarla? Non era più giovane, tutti la giudicavano mostruosa – in verità era impossibile distinguere i tratti del volto sotto la sporcizia che li ricopriva da tempo immemorabile. L’indomani l’imperatrice annunciò a Kvasnik che gli aveva trovato una compagna finalmente all’altezza del suo rango e si preparasse dunque alle nozze: sarebbero state solenni e fastose, come meritava un Golicyn, e la Corona ne avrebbe sostenuto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. La casa di ghiaccio
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. Fonti
  26. Notizie utili