Il diario segreto di Maria Antonietta
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Il diario segreto di Maria Antonietta

  1. 348 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Parigi, ottobre 1793: Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI e regina di Francia, è stata condannata a morte dal Tribunale rivoluzionario e attende nella prigione della Conciergerie di essere giustiziata. Prima di essere condotta al patibolo, lascia nella sua cella il quaderno in cui ha raccolto, anno dopo anno, gli episodi salienti e i piccoli fatti quotidiani della sua vita: dall'infanzia privilegiata di arciduchessa d'Austria agli anni trascorsi come affascinante signora di Versailles, ai giorni della prigionia e dell'umiliazione dopo la caduta della monarchia. Attraverso la forma coinvolgente e immediata del diario, Carolly Erickson ricostruisce l'avventura umana e sentimentale di Maria Antonietta, penetrando nella sua psicologia e cogliendone gli aspetti più intriganti e meno noti; nel contempo descrive con ricchezza di dettagli eventi e personaggi che giocarono un ruolo significativo non solo nella sua vita privata ma anche nelle vicende di quei decenni cruciali.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804574361

I

17 giugno 1769

Sono l’arciduchessa Maria Antonia, detta Antonietta, ho tredici anni e sette mesi e questo è il resoconto della mia vita.
Scrivere questo diario è il mio castigo; padre Kunibert, il mio confessore, mi ha detto di annotarvi tutti i miei peccati in modo da poterci riflettere sopra e pregare per ottenere perdono.
«Scrivete!» mi ha detto, sospingendo il quaderno verso di me e sollevando le folte sopracciglia bianche che gli conferiscono un aspetto feroce. «Scrivete quello che avete fatto! Confessate!»
«Ma non ho fatto nulla di male» ho replicato.
«Cominciate a scrivere, poi vedremo. Metteteci dentro tutto quello che avete fatto, a partire da venerdì scorso, senza omettere nulla!»
Va bene, riporterò in questo quaderno tutto ciò che ho fatto il giorno in cui sono andata a trovare Giuseppina e quello che è successo dopo. Poi mostrerò a padre Kunibert quanto ho scritto e farò la mia confessione.
Comincerò domani.

18 giugno 1769

È molto difficile e penoso scrivere quello che è successo, perché sono profondamente addolorata per le sofferenze di mia sorella. Ho cercato di spiegarlo a padre Kunibert, ma lui si è limitato ad aprire il quaderno e a porgermi una scatola di penne d’oca ben appuntite. È un uomo duro, come dice mia sorella Maria Carolina, che tutti noi chiamiamo Carlotta. Non sente ragioni.
Ecco, dunque, ciò che ho fatto venerdì mattina.
Ho preso in prestito dalla mia cameriera Sophie un vecchio mantello nero con il cappuccio e mi sono messa al collo un crocifisso d’argento come quelli che portano le Sorelle della Misericordia. Ho preparato un cestino con panini freschi, formaggio stagionato e fragole colte nei giardini del palazzo e, senza dire a Sophie né ad altri dove andavo, di notte mi sono recata nelle vecchie scuderie abbandonate dove ero certa che venisse tenuta mia sorella Giuseppina.
Era scomparsa da una settimana, da quando le era venuta una gran febbre e aveva cominciato a tossire. Nessuno voleva dirmi dove si trovasse, per cui ho dovuto scoprirlo chiedendo ai domestici, i quali sanno sempre tutto quel che succede nel palazzo, perfino ciò che avviene fra il padrone e la padrona nell’intimità della loro camera da letto. Sono venuta a sapere da Eric, lo stalliere che si occupa del mio cavallo Lysander, che c’era una ragazza malata nello scantinato delle vecchie scuderie. Aveva visto le Sorelle della Misericordia recarvisi di notte e una volta aveva scorto il nostro medico di corte, il dottor Van Swieten, entrarvi e uscirne rapidamente, con un fazzoletto premuto sulla bocca e il volto assai pallido.
Ero sicura che mia sorella Giuseppina fosse lì, probabilmente sdraiata al buio, malata e sola, ad aspettare la morte. Dovevo andare da lei. Dovevo dirle che non era stata né dimenticata né abbandonata.
E così mi sono avvolta nel mantello nero e sono uscita. La candela che tenevo in mano sgocciolava al vento mentre attraversavo la corte e percorrevo il porticato, diretta al cortile delle scuderie. Non c’erano luci, nessuno ci andava mai e non c’erano cavalli legati negli stalli.
Per quanto cercassi di concentrare il pensiero su mia sorella, entrando nel vecchio edificio con il suo alto soffitto a volta sono stata presa da una paura crescente. Sagome scure si stagliavano nell’oscurità. Quando vi ho puntato contro la luce della candela, mi sono resa conto che si trattava di ripostigli per i finimenti dei cavalli e di contenitori per il fieno adesso vuoti.
C’era un silenzio totale, rotto solo dallo scricchiolio delle vecchie travi del tetto e dal richiamo lontano delle sentinelle che facevano la ronda intorno al palazzo. Ho trovato dei gradini che si inabissavano in un’oscurità ancora più profonda. Ho cominciato a scendere, sperando che la candela non si spegnesse e cercando di non pensare alle storie che Sophie amava raccontare sul fantasma del castello, la Dama Grigia che di notte si aggirava per i corridoi piangendo e talvolta entrava volando dalle finestre.
«Non siate sciocca, Antonia» diceva mia madre quando le chiedevo della Dama Grigia «i fantasmi non esistono. Quando moriamo, moriamo. Non continuiamo a vivere come spiriti al di fuori del corpo. Solo i contadini credono in queste stupidaggini.»
Pur rispettando la saggezza di mia madre, non ero convinta di ciò che diceva sui fantasmi. Sophie mi aveva raccontato di aver visto la Dama Grigia parecchie volte e, come lei, anche molti altri l’avevano vista.
Per non pensare ai fantasmi, mentre scendevo le scale ho chiamato Giuseppina a voce alta.
Mi è sembrato di udire un flebile lamento.
Ho chiamato di nuovo e questa volta ho avuto la certezza di udire una risposta.
Ma la voce che avevo sentito non era quella di mia sorella. Giuseppina aveva una voce forte e allegra, mentre quella che avevo udito era affannosa, debole e carica d’inquietudine.
«Non avvicinatevi, chiunque siate» diceva. «Ho il vaiolo. Se vi avvicinate a me, morirete.»
«Vi sento, sono quasi arrivata» ho gridato, ignorando l’avvertimento.
Ho trovato mia sorella in una stanzetta simile a una cella, illuminata solo da una lanterna appesa a un chiodo nel muro. Non ho potuto trattenere un conato di vomito, tale era il fetore là dentro. Un puzzo nauseabondo, insopportabile, non un odore di sporcizia, ma un atroce tanfo di putrefazione.
Dall’angusto giaciglio su cui era coricata, Giuseppina ha sollevato un esile braccio come per allontanarmi.
«Vi prego, Antonia cara, tornate indietro. Andate via.»
Io piangevo. Ciò che la flebile luce della lanterna mi rivelava era mostruoso. La pelle di mia sorella era violacea e piena di pustole. Il suo volto era rosso e tumefatto, le guance erano grottescamente gonfie e il sangue le colava dal naso. Gli occhi erano iniettati di sangue.
«Vi voglio bene» le ho detto tra le lacrime. «Prego per voi.» Ho messo giù il cestino, domandandomi se i topi sarebbero venuti a mangiare il cibo che vi era contenuto. Ma poi ho pensato che l’odore in quella stanza era così terribile che neppure i topi si sarebbero avvicinati.
«Ho tanta sete» ha detto la voce dal giaciglio.
Ho preso dal cestino la bottiglia di vino che avevo portato e l’ho posata accanto a Giuseppina. Lei si è sollevata con difficoltà, ha allungato la mano per prenderla e ha bevuto. Vedevo che faticava a deglutire.
«Oh, Antonia» ha detto dopo aver messo giù la bottiglia «faccio sogni così orribili! Il fuoco che si abbatte su di noi e ci brucia tutti. La mamma in fiamme che grida. Il papà che ride mentre ci guarda bruciare.»
«È soltanto la malattia che vi fa sognare cose simili. Siamo tutti al sicuro, non c’è alcun fuoco.» Ma poi ho pensato che, invece, c’era: il fuoco del vaiolo, che faceva bruciare di febbre mia sorella e la faceva delirare. «Dovete prendere delle medicine, dovete guarire.»
«Le Sorelle mi danno cognac e valeriana, ma non servono. So che mi considerano spacciata.»
«Io no, però. Tornerò, ve lo prometto.»
«No, state lontana. Tutti devono stare lontani.»
La sua voce si era affievolita. Giuseppina si stava addormentando. «Antonia cara…»
Piangevo a dirotto, ma sapevo di non poter rimanere lì. Non potevo correre il rischio che la mia assenza venisse notata. Nessuno sapeva dov’ero andata, non l’avevo detto neppure a Carlotta, che dorme in camera con me.
Ho lasciato Giuseppina e, risalite le scale buie, ho attraversato le vecchie scuderie e, ripercorrendo il porticato illuminato dalle torce, sono tornata al palazzo.
Il giorno dopo ero presente quando il dottor Van Swieten è venuto da mia madre, l’imperatrice. C’era anche mio fratello Giuseppe, che ha ventisei anni e ha appena sepolto la sua seconda moglie. Da quando nostro padre è mancato, nostra madre ha sempre cercato l’aiuto di mio fratello nell’amministrazione delle sue molte terre. Un giorno, alla sua morte, spetterà a lui occuparsene ed è quindi necessario che impari a farlo. Ha già la fermezza che, secondo mia madre, tutti i governanti devono possedere. Ma le ho anche sentito dire al conte Khevenhüller che Giuseppe non ha ancora la comprensione e la sollecitudine per gli altri che gli saranno necessarie per governare bene.
«Che notizie mi portate di Giuseppina?» ha chiesto mia madre al medico, mentre questi s’inchinava e mormorava: «Vostra Altezza Imperiale».
«È vaiolo nero.»
Ho visto mia madre impallidire e Giuseppe voltare la testa. Questa forma di vaiolo è la più pericolosa. Nessuno è mai sopravvissuto. Quando si diffondeva a Vienna, noi bambini venivamo mandati subito in campagna, per evitare il contagio. I domestici ammalati venivano allontanati dal palazzo e spediti il più lontano possibile. Nessuno di loro è mai ritornato. E adesso mia sorella Giuseppina stava morendo di quella malattia.
«È spaventoso» diceva il medico. «L’ho visto spesso in passato. È inutile cercare di tenere in vita i malati quando il morbo ha preso piede. L’arciduchessa non può essere salvata. Può solo contagiare altre persone.»
«Mi assicurate che sta ricevendo tutte le cure possibili?» ha chiesto mia madre.
«Certo. Le Sorelle della Misericordia vanno a farle visita e anche le donne della fattoria.» A quanto pareva, loro non venivano contagiate dal vaiolo. Per qualche ragione, erano in grado di curare le persone malate, senza paura di ammalarsi a propria volta.
«Nessuno deve conoscere la sua identità» ha tuonato Giuseppe. «A nessun membro della corte deve essere dato il permesso di avvicinarla. Dobbiamo evitare un’altra esplosione di terrore per il vaiolo, come l’estate scorsa.»
Alla comparsa del morbo, la gente veniva presa dal panico. Tutta la città cadeva preda di una grandissima paura. Si facevano sforzi frenetici per sfuggire al flagello e, nel trambusto della fuga, molti morivano calpestati o travolti.
Bisognava evitare che il terrore si propagasse nel palazzo, dove centinaia di domestici e funzionari vivevano e servivano l’imperatrice e la nostra famiglia.
«È ovvio» ha detto il dottor Van Swieten. «L’arciduchessa è in un posto dove nessuno la troverà.»
In quel momento sono stata sul punto di intervenire, ma mi sono trattenuta. In piedi accanto a mia madre, ho avvertito il fruscio delle sue gonne di seta nera e mi sono accorta che stava tremando.
«Non posso perdere altri figli» ha detto. «Prima il mio caro Carlo, poi Giovanna, che aveva soltanto undici anni quando è morta, povera bambina, e adesso la mia bella Giuseppina, così giovane e prossima alle nozze…»
«Vi rimaniamo ancora noi dieci, maman» ha fatto notare Giuseppe con tono tagliente. Sapeva che, sebbene lui fosse il figlio maggiore e l’erede di nostra madre, lei gli aveva preferito Carlo e l’aveva amato di più. «Dieci figli possono senz’altro bastare.»
Io voglio bene a mio fratello, ma lui non capisce che cosa significhi amare qualcuno. Quando è morto nostro padre, quattro anni fa, non ha pianto e ha fatto un gesto sprezzante. «Era un pigro fannullon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il diario segreto di Maria Antonietta
  4. Prologo
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. XV
  20. XVI
  21. XVII
  22. XVIII
  23. Nota di Rosalie Lamorlière,...
  24. Nota per il lettore
  25. Copyright