Chanel
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Una vita da favola

  1. 238 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Chanel

Una vita da favola

Informazioni su questo libro

Quella Coco Chanel che il mondo eleggerà regina del gusto, musa della bellezza, consacrata da successi assoluti è la protagonista di un'epopea drammatica nella quale vince e lotta contro le brutalità di un mondo, di un secolo. Questo libro racconta il suo talento straordinario, nato senza privilegi, alle prese con sfide, aspirazioni, drammi familiari, tragedie epocali. Tutto inizia da un desiderio di grazia e bellezza capace di sanare un'infanzia e un'adolescenza sfigurate dalla tristezza; con orgoglio, tenacia, ambizione, lo sguardo sempre fisso verso orizzonti lontani, la "sartina di campagna" comincia a farsi strada, trova l'amore, trionfa nel mondo della moda, con le sue creazioni piene di fantasia e di charme. Arrivano i guadagni sontuosi, le frequentazioni famose, Stravinskij, Cocteau, Picasso. E ancora, la Coco visionaria, forse velleitaria, che nel clima torbido del fine guerra giunge a immaginare e proporre una pace negoziata tra Parigi e Berlino... Una vita, quella di Coco, di Gabrielle, in cui Signorini si insinua con abilità e garbo, fino a coglierne tratti umorali, sentimenti profondi, creatività travolgente.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804598572
eBook ISBN
9788852015724
Argomento
Arte

Chanel

Al fascino dell’imperfezione
La chance c’est une façon d’être.
La chance, ce n’est pas une petite personne.
La chance, c’est mon âme.
GABRIELLE CHANEL

Prologo

Il ritorno
Un tenue scarabocchio azzurro punta verso l’alto, s’avvita su se stesso e si dissolve. Spunta da una sigaretta già incenerita per metà. Su quella fibra di fumo è fermo lo sguardo di una donna sui cinquanta. Capelli raccolti, viso illuminato da un abile trucco. Sembra invasa da pensieri che vogliono diventar parole. Ma trattiene dentro, intimidita da una forza invisibile. Ha una posa precaria, seduta sul bordo d’una poltrona violacea, ogni tanto rivolge gli occhi verso la donna ancor meno giovane che ha di fronte, accomodata su un divano e con due dita della mano destra avvolte attorno alla sigaretta dimenticata. La donna meno giovane sembra non aver pensieri, ma sbotta: «Basta! Non raccontatemi il contrario di quel che avete in mente. So benissimo che ce la farò. Voi che mi girate intorno credete che ormai sia tardi. Anche tu, Manon, anche tu hai una paura che t’ammazza. Paura che tutto sia finito. Non voglio ascoltare incoraggiamenti. Non ne ho bisogno. Forse solo Pierre Wertheimer conserva almeno il sospetto d’aver fatto la cosa giusta». Manon abbandona quel filo di fumo che sta ormai morendo e riesce a fissare pietosamente la donna per un istante. «Mademoiselle» dice con un barlume di voce, «se non credessi in lei, non sarei nemmeno qui.»
È il numero 31 di Rue Cambon, primo piano. Mademoiselle Gabrielle Chanel, che il pianeta conosce come Coco, e madame Ligeour, che da anni tutti chiamano Manon, rivedono le immagini di quel giorno, il 5 febbraio 1954. Gabrielle proietta a se stessa i passi delle mannequin, il taglio degli abiti che ha disegnato e fatto sfilare, la tinta e la chiarezza delle stoffe. Ha fissi nella testa soprattutto l’incedere della bionda Yvette, modella che trova troppo languida e spavalda, e un fiocco nero di satin giunto in pedana seminascosto sotto un tailleur di jersey che si poteva acconciare meglio. Manon ha invece negli occhi la folla. Ricorda il brusio colossale, più penetrante e scomposto di tutti quelli vissuti fino al 1939. Il ritorno della immensa Coco Chanel è l’evento che intreccia le curiosità di chi abita mondi diversi. Sono lì, sulle poltrone in velluto oro di quella scintillante striscia parigina che è Rue Cambon, cittadini della moda, della cultura, dell’arte e dello spettacolo. In più, appaiono numerosi abitanti antichi e nuovi della galassia del denaro. All’esterno, in migliaia sono attratti dai bagliori di ciò che accade. Volti noti e cappellini da migliaia di franchi seducono la marea dei semplici, l’umanità ordinaria che un biglietto d’ingresso simile non l’avrà mai.
Quel giorno. Lentamente costruito sulla noia e su una feroce capacità di ottenere. La regina Coco Chanel aveva tolto la corona nel ’39, quando Parigi era una enorme saracinesca che cigolando discendeva su se stessa e affondava nel buio della guerra. La regina spense le luci dell’atelier di Rue Cambon e accettò, forse per la prima volta da quando era al mondo, che il futuro scegliesse per lei. Lei che il domani se l’era sempre cucito come un abito. Le piaceva disegnare e indossare solo quel che amava e solo quel che somigliava alla libertà. Come lei. “Quindici anni possono bastare” s’era detta qualche mese prima, “e poi mi pare che le donne abbiano nuovamente bisogno di recuperare un’eleganza più comoda. Stanno perdendola ancora una volta.” Ora si ritrova addosso settantuno anni. Ma assapora il risultato dell’esilio durato tre lustri. Anni in cui ha messo da parte patrimoni d’energia. «Volete seppellirmi?» spara gelida verso Manon. La fedele direttrice dei suoi negozi può solo rivolgerle un’occhiata mansueta. Poi una seconda fucilata al petto di Manon. «Se volete, mollo tutto. Di nuovo. Attenti, l’ho già fatto una volta. Io non ho paura del buio.»
L’imbarazzo
Non chiede aiuto alla giovanetta devota vestita di chiaro che le sta accanto. Né fa leva sul braccio già disteso di lei. Sebbene inginocchiarsi quando sulle gambe poggiano più di settant’anni sia un esercizio che richiede gran fatica e riesce molto lentamente. Di fronte alla vita, Gabrielle Chanel non s’è mai genuflessa. Ma ama inchinarsi al cospetto dei suoi abiti. Ha uno spillo tra le labbra, un altro tenuto tra le dita come un pennello al quale si affida l’ultimo definitivo ritocco sulla tela, quello che forse nessuno coglierà mai. È ai piedi d’una modella cui tocca una delle centotrenta creazioni con le quali Coco ha deciso di riapparire. Lavora su una gonna di seta shantung, sfidando linee e materiali riemersi nella Francia postbellica. «Ferma, per favore. Piuttosto, dimmi se lo trovi comodo.» La giovane Simone, una slanciata normanna dagli occhi castani, sussurra un intimorito: «Certo, Mademoiselle». «Non m’interessano le tue lusinghe, ragazza. Voglio sapere davvero le sensazioni che hai quando lo indossi.» «Mademoiselle, è come l’abito che scegli quando torni a casa. Quello con cui hai confidenza. L’abito che t’aspetti leggero e di cui sai di poterti fidare sempre.» Coco lascia sorridere gli occhi: «Questa l’hai letta su una rivista di alcuni giorni fa, vero? Non importa, se è veramente quel che provi ho raggiunto uno dei miei scopi». D’improvviso, ancora china sulle ginocchia, Coco abbraccia le gambe di Simone proprio lì dove la gonna quasi esaurisce la sua lunghezza. La abbraccia con energia, poi smette di stringere e vigila su quel che sta avvenendo. Non le basta osservare la linea, la fiammatura, la tinta. Vuol capire cosa accade al tessuto, percepire la piega che sceglie la trama doppia di questa seta cinese. Le interessa che conservi uno stile. Sempre. Anche quando è sgualcita.
Mancano ormai pochi minuti alla sfilata del rientro, il debutto nella seconda vita di Coco Chanel. Accanto a Manon, la direzione di ciò che avviene, e di ciascuna delle cinquanta sarte assunte per l’occasione, è affidata a Lucia Boutet, figurinista di Coco negli anni d’oro, lanciatasi poi con un atelier tutto suo in Rue Royale nel 1939, quando Mademoiselle scelse l’eclissi. «Ragazze» alza la voce Lucia «siamotutte pronte? Ormai ci siamo.» Coco organizza la sua strana penombra. Siede su un gradino della scala che conduce al primo piano e che divide adesso i fremiti della platea dalle ansie del laboratorio in cui l’esibizione si prepara. Manon la nota: «Mademoiselle, viene con…?». «No, continuate a lavorare. Io resto qui.» Vuole osservare conservando la certezza che non la si osservi.
Socchiude un po’ le palpebre mentre in passerella sfilano i primi abiti. Le occorre un istante per intuire che il silenzio diffuso e grave che li accoglie proviene da disagio, non da ammirazione. Le passa sulla pelle un brivido leggero che non sa interpretare. Non è paura. Nemmeno qualcosa che somiglia all’umiliazione. Forse è soltanto un fruscìo del tempo che è passato. È la vibrazione di quei quindici anni che reclamano un po’ di riguardo, che non possono essere trascorsi come l’intervallo di una melodia, come il salto tra il suono dolce di due note. No, il suo addio lungo quindici anni è anche una frattura. Coco è oggi un universo mutato. Non deve restare in bilico tra l’amore e la libertà. Può definire se stessa senza dilemmi. Nei mesi scorsi ha contattato il suo grande amico e avversario, Pierre Wertheimer, chiedendo prima di tutto a lui di fidarsi del ritorno di Chanel. E di sostenere e spingere, anche e soprattutto col denaro, il clamore di questa riapparizione. La Coco selvaggia e geniale della gioventù giocava da sola anche negli sport di squadra. Preferiva sbagliare, piuttosto che lasciarsi soccorrere. Perdere? No, perdere non le è mai sembrato possibile. Adesso sa che Chanel è il lavoro, non solo il successo. Il pubblico pullula intanto di vecchi amici che hanno lo sguardo perso. Qualcuno vorrebbe invertire la ghiacciata atmosfera da catastrofe che pesa in sala. Altri vivono empaticamente l’imbarazzo che immaginano stia aggredendo la regina di un tempo. Oggi un pubblico gelido. E poi domani. E poi i giorni prossimi. Comincerà il massacro delle chiacchiere, dei commenti, dei giornali, delle riviste. Tutti erano lì entusiasti, due ore fa. Ora tutti sono lì a pensare che l’era di Coco doveva restare chiusa nell’involucro della sua gloria. E non riaprirsi più.
Il presagio
«E cosa ci trovi che non va?» Maggie van Zuylen tenta di riportare una calma provvisoria. Ha pure il compito tortuoso di rendere udibili le sue parole. Nella elegante stanza pavimentata con tappeti rosso-azzurri Maggie è proprio accanto alla figlia, Marie-Hélène, che ormai da qualche minuto piange singhiozzando. Alla ragazza sembra sia stato annunciato il diluvio universale e il rifiuto di Noè di farle posto sull’Arca. In realtà, il dramma che sta vivendo deve seriamente apparirle anche peggiore. Sono appena stati frantumati i suoi propositi sulla serata che aspetta da tanto. Sarà una delle debuttanti protagoniste del ballo di quella notte. Le più facoltose famiglie dell’East Coast americana sono impegnate nella dispendiosa liturgia di vestizione delle proprie fortunate rampolle, ciascuna certa di possedere il definitivo miracolo di stoffa, l’elemento magico col quale apparire senza discussioni possibili come la più osservata e apprezzata. Ma la perfida e razionale Coco alla magia non crede. Ha molta più fiducia in se stessa. È lì solo come amica, ma un’amica così celebre ed esperta che Maggie non ha saputo sottrarsi alla tentazione di utilizzarla nel ruolo di consulente. «Che ne pensi, Coco? Guardalo, non è un incanto l’abito che abbiamo comprato a Marie-Hélène?» Coco lo sbircia come chi vuol costruirsene un’idea nel giro di qualche istante. Il suo responso sarebbe già pronto. Ma preferisce indugiare e soffermarsi con uno sguardo malevolo ora sulla schiena ora sui fianchi della ragazza che, impalata come una granduchessa in un ritratto barocco, è impaziente di ascoltare che “è deliziosa, semplicemente deliziosa”.
Coco Chanel ama gli States. S’è invaghita di quel luogo chiassoso e colorato fin dal primo viaggio. E non è bastato il piccolo naufragio dell’avventura vissuta con Hollywood e col suo più spregiudicato magnate vent’anni prima. Sam Goldwyn s’era convinto di poter rilanciare il mito del cinema d’America, e ancor più la vendita dei biglietti d’ingresso, grazie anche agli abiti che la grande Chanel avrebbe disegnato per le star della collina di Los Angeles. Lei tentennò e accettò. Occorsero pochi mesi, e ancor meno pellicole, per capire che il suo raffinato stile europeo faticava tremendamente a convivere col gigantismo sfavillante di Hollywood. Comprese che alla stessa conclusione era giunto anche mister Goldwyn, col quale il divorzio fu consensuale e piuttosto indolore. Ma l’America le era rimasta addosso. E in quelle due settimane del 1953 si ritrova ospite di Maggie, sua cara amica di New York. Casualmente impegnata a recitare da sprezzante carnefice alla vigilia del ballo più importante della figlia.
La bocca di Coco non pronuncerà nulla che somigli al miele e alle lusinghe più volte udite da Marie-Hélène in quei giorni sul conto del suo abitino nuovo. La francese si limita a sguardi minuziosi e a uno stringato: «È orribile. Davvero orribile». È il detonatore della disperazione. Il prologo d’uno spettacolo atroce: la debuttante che non sa consolarsi. Ma quella è una serata che nasconde due favole. Della prima sarà protagonista la Cenerentola americana. Coco non s’irrigidisce sul suo brutale commento. Dà un’occhiata intorno e scorge in fretta il tendaggio rosso in seta alle sue spalle. «Tranquille» dice mentre misteriosa esplora il tessuto coi polpastrelli «questo risolverà i nostri problemi.» Chiede che sia smontato dalla parete e portato giù. Si arma di attrezzi amici: forbici, ago, qualche spillo. E con quelli confeziona la fiaba. Ciò che per Marie-Hélène è già pronto è molto più che un abito. Indossa un capolavoro di gusto e d’eleganza irraggiungibili. Per giunta arricchito dalla firma della grande Chanel. Il suo ballo somiglierà davvero a quello delle fiabe. Per l’intera serata le resta attorno uno sciame entusiasta di amiche. Vogliono il nome di chi ha confezionato la meraviglia che indossa. La favola di Marie-Hélène continuerà con le successive nozze. Le toccherà per marito Guy de Rothschild, qualcosa più di un principe azzurro. Coco ha assaporato successi assoluti, ha visto spesso il mondo ai suoi piedi. Però gusta quel piccolo episodio con un sospetto slancio d’orgoglio. Sul suolo americano stanno nascendo desiderio e progetto di essere nuovamente regina. Il nomignolo che porta a spasso, Coco, non le è mai piaciuto troppo. “Ma ora nei panni di Gabrielle comincio ad annoiarmi.”
La rivincita
Dalla maison di Rue Cambon si defluisce in modo frettoloso e piuttosto taciturno. Alla sfilata del rientro di Coco Chanel s’è visto troppo e troppo poco. “Voglio solo che riappaiano i miei abiti” diceva Gabrielle nei giorni che precedevano il grande evento. “Non cerco reazioni alle poche novità che vedo in giro. Voglio presentare gli abiti che da sempre ho nella testa e nel cuore. E poi queste novità di cui si parla tanto io le avevo già viste. Andavano in giro per Parigi più di trent’anni fa.” I visi smarriti di chi sta lasciando le poltrone dell’atelier sono quelli di chi sta organizzando la propria interpretazione dei fatti. Lucia Boutet torna nel caos delle modelle che cautamente affidano gli indumenti indossati a centinaia di stampelle nude. «Va bene, ragazze» dice con volto serio, «se per caso avremo ancora bisogno di voi, sarete contattate.» Gira il capo e incrocia gli occhi di Coco, immobile accanto all’ingresso, con uno sguardo ampio, in grado di cogliere ciò che sta avvenendo nel mondo intero. «Oh, Mademoiselle» prosegue Lucia con un tremore che quasi le spacca la voce «dicevo a tutte che saranno contattate presto.» Coco tace, con l’aria di chi continua a tener d’occhio il mondo. Potrebbe avventarsi sulla gaffe di Lucia, sul suo scetticismo fin troppo trasparente. Ma ora le interessa altro. Le modelle saranno richiamate. E lei, soltanto lei, sembra sapere quando e perché.
Il nuovo e l’antico mai erano stati così ambigui come nelle opere dei grandi amici di Coco: Stravinskij il musicista, Cocteau il drammaturgo, Picasso il pittore. Coco non ha come loro il potere di far teoria. Dispone però di quantità mostruose di intuito pratico. E anche lei comprende che ogni grande novità, ogni colpo di genio è sempre strettamente intrecciato a un’idea già appartenuta ai nonni. Anni prima, è lei che ha spazzato via Paul Poiret e il suo stile entravé dal primato che Parigi gli attribuiva.Ed è lei che ha liberato le donne da corpetti e tessuti pesanti, disegnandole come mai s’era visto prima. Coco inventava ciò che da bambina vedeva indossare alle contadine di Courpière, nei campi dell’Alvernia. E rielaborava le bluse dei pescatori normanni notate su una spiaggia tanti anni prima. La rivoluzione estetica di Coco Chanel nasce così, da intuizioni che il passato, gli antenati inconsapevolmente le suggerivano.
I quotidiani dei giorni successivi sparano commenti impietosi. La collezione di Coco viene dipinta come un penoso tentativo di sottrarsi all’oblio. Un giornale titola: “Chanel sorpassata dalla Modernità”. La Modernità è l’astro sorgente, l’ultimo profeta dell’eleganza. Il suo nome è Christian Dior. All’indomani del conflitto mondiale aveva aperto un suo atelier a Parigi, col quale riportava il gusto alla Belle Époque. Il suo presente ricaccia indietro il futuro che Coco Chanel aveva indicato. Ne fa merce di ieri, poltiglia scaduta. Adesso, poco meno che cinquantenne, ha l’aria di chi possiede i segreti dell’alta moda. “È più vecchio del vecchio. Più dei miei settantuno anni”, pensa Coco mentre sorseggia del tè bollente nel suo appartamento dell’Hôtel Ritz. «C’è monsieur Cocteau che chiede di lei, Mademoiselle. Prima era passato anche monsieur Déon» le sussurra Manon, la sola che la grande Chanel accetti accanto. «No, dite a tutti che sto riposando. Vengono qui per far le condoglianze alla mia carriera. Sono carini, ma in anticipo di molti anni.»
A New York, in quelle ore, nella redazione di “Vogue” si lavora duro. «Questo è il servizio d’apertura?», chiede una redattrice al suo direttore, Bettina Ballard. «Certo, voglio un articolo entusiasta. Almeno tre pagine corredate da queste foto.» Le immagini del magazine sono di una fascinosa modella con un cappellino di paglia. È Marie-Hélène Arnaud, mani svogliatamente affondate nella tasca, camicetta di lino bianca, fiocco nero sulla gonna, tailleur di jersey blu. È il tocco Chanel, non si sbaglia. La Ballard sta solo assecondando la nuova febbre che da giorni contagia l’America. Il ritorno di Coco sta accendendo una passione caldissima. Non solo “Vogue”, anche “Harper’s Bazaar” e altre riviste che dettano il gusto celebrano quel che è già evidente nelle vetrine delle boutique degli Stati Uniti e nelle valanghe di ordini delle clienti più informate e facoltose. L’altra parte del mondo ha deciso che c’è una regina. Ed è ancora lei. Coco può nuovamente indossare la corona. La sua corona.

I giorni di Courpière

No, questo non è il suono cattivo del vento. Lì fuori c’è come ogni notte il fruscio che passa sul velluto verde intenso del campo di toute-bonne. Ma è dal corridoio che si avverte una porta che cigola. O forse è solo il verso di un animale che sta giungendo dalla stalla. Il buio confonde i suoni. Gabrielle è a letto, spalanca gli occhi per combattere il nero profondo della notte di Courpière. È la mamma. Sì, è lei. Non ce la fa a respirare. Gabrielle vuole alzarsi, andare ad abbracciarla. Sa già che la vedrà seduta sul letto, devastata dall’asma, con la fatica di vivere disegnata nello sguardo. Per questo lei ha fretta e anche tanta paura di diventar grande. Ha deciso: sfiderà prima il buio del corridoio e il freddo del pavimento che morderà i suoi piedini nudi; poi affronterà l’immagine penosa della mamma. Deve starle vicino. Deve. Anche se il suo arrivo le porterà qualche lacrima sulle guance. «Gabrielle» sente dire prima di accorgersi che è giunta dove la mamma può già vederne la sagoma. Quella voce prima la spaventa, poi la rassicura. La mamma sta per dire altro, ma cede a un nuovo rantolo che sembra venirle su dall’anima. Asma, il nemico si chiama così. Gabrielle ha sentito dire che è una strana malattia, diversa dalle febbri che toccano ogni tanto anche a lei. La zia e la mamma evitano quasi sempre di chiamare il medico: «Andrà via tutto tra un paio di giorni» le dicono col tono sicuro. Lei fatica a crederci quando quel bollore feroce si insinua nel corpicino acerbo dei suoi quasi cinque anni. Pensa che quella nausea penetrante e sgradevole non la lascerà più. Invece, un paio di giorni e il mondo torna davvero frizzante come prima. E a lei viene di nuovo la voglia e la forza per correre nei prati con Julia, la sorellina di poco più grande. Il problema dev’essere nelle malattie dei grandi. Forse sono quelle che non vanno mai via.
«Come ti senti adesso?» Lo sussurra cercando una pausa in quella tosse orrenda. Tra i sussulti inesorabili che sbattono il petto alla mamma e che a lei danno i brividi. «Sta’ tranquilla, tra un po’ ti passa.» Lo dice senza crederci. Quella tosse ha il suono di un presagio che i suoi cinque anni non sanno interpretare. Eppure le sembra già una sequenza amara di rintocchi, sembra già che tra le pareti che il buio rende invisibili stia diffondendosi il ritmo quieto e terrificante di una sfilata funebre. Vorrebbe prima toccarla piano, poi abbracciarla. È frenata dagli spasmi della donna e da uno sguardo di ghiaccio.
Non è solo l’asma il dolore che s’è conficcato nel corpo esile della mamma. Lei ha nel cuore soprattutto l’angoscia della solitudine. Da alcuni mesi vivono tutti a Courpière, dove papà Albert li ha condotti prima di sparire nuovamente. La famiglia Chanel è ospite della casa di zio Augustin Chardon e di sua moglie Françoise. Una casetta tutto sommato decorosa nella campagna dell’Alvernia. Mamma e le due sorelline, cui poi s’aggiungeranno ancora tre cuccioli: Alphonse, Antoinette e Lucien. Tutti lasciati lì da Albert, venditore ambulante squattrinato sempre con l’aria di chi stavolta parte per concludere l’affare che sistemerà tutto. Un uomo che nel novembre del 1884 ha accettato il matrimonio con Jeanne Devolle solo perché obbligato dalla seconda gravidanza della giovane e dalle pressioni feroci della famiglia. E si trattava proprio della gravidanza da cui il 19 agosto 1883 era nata Gabrielle, quando Albert e Jeanne erano ancora fermi a Saumur, nel cuore della Loira. Nello stesso paesaggio in cui Honoré de Balzac aveva collocato Eugénie Grandet, la giovane protagonista di un suo capolavoro. Prima di questa nascita, in anticipo soltanto di circa un anno, la sciagurata erede della famiglia Devolle aveva già messo al mondo la sorella maggiore di Gabrielle, la sfortunata e dolce Julia. Le nozze degli Chanel, dunque, avvengono quando la famiglia è già composta da quattro membri effettivi.
Da tempo,lo stato di salute di Jeanne era seriamente compromesso.Un pretesto che Albert aveva abilmente usato per depositare tutti nella campagna di Courpière e dedicarsi ai suoi miserevoli viaggi e alle sue piccole avventure.Jeanne faceva sempre più fatica a seguirlo durante i mercatini itineranti nei villaggi della regione. Eppure era chiaro che a ogni inasprirsi del male i pensieri tornassero ostinatamente a lui, al suo Albert. Gabrielle vedeva il padre solo molto raramente. Di quella figura sfuggente, spesso accompagnata da un riso fragoroso, coi baffi chiari e i capelli piuttosto lunghi sulla nuca, conservava però un episodio sfumato avvenuto solo pochi anni prima, durante gli ultimi tempi in cui la famiglia ancora abitava a Issoire. La sorellina, Julia, un pomeriggio avvertì fuori il rumore del carretto che stava rientrando. Urlò felice. «Mamma, mamma, c’è papà.» Gabrielle era davvero troppo piccola per percepire e fissare tutto quel che avveniva. Stavolta la mamma era rimasta con loro, e bastava guardarla per capire che in quei giorni la sua attesa fosse più ansiosa che in altre occasioni. Gabrielle ebbe un bacio simpatico e rumoroso dal papà. Poi fu messa da parte. C’era un protagonista in casa, andava omaggiato. La piccola si addormentò di lì a poco sul pavimento, poggiando il busto su un cuscino e con le braccia che facevano da giaciglio alla testa. Julia riuscì a prendere parte all’entusiasmo di Jeanne fino all’imbrunire, dopodiché fu mandata a letto. Gabrielle restò invece abbracciata a quel cuscino e riposò ignorata fino all’apparire di un suono insistente, che delicatamente la svegliò e che lei non riconobbe. Era come un soffio, ma più intenso. Con gli occhi ancora imprigionati nel suo sonno interrotto, la bimba vide accostati alla parete della stanza mamma e papà. Vicinissimi. La mamma sembrava far qualcosa per distanziare un po’ l’uomo, che invece aveva l’aria di volerla asfissiare, servendosi del proprio corpo e del muro per tenerla ferma. Con la mano sinistra pareva reggerle entrambe le braccia verso l’alto. L’altra mano era nascosta chissà dove. Il soffio era diventato incalzante, quasi un lamento. E Gabrielle continuava a non capire da chi o da cosa provenisse. Forse proprio dalla mamma, che ogni tanto chiudeva gli occhi e sussurrava dei profondi “no”. La prospettiva e il diradarsi del sonno concedevano adesso alla bimba una scena via via più nitida. Ora si vedeva pure che la mano destra di papà teneva sollevato il lembo anteriore del vestito scuro di mamma e intanto tentava di insinuarsi tra le sue gambe. E negli attimi in cui sembrava poterci riuscire, la mamma evitava di guardarlo e soffiava, gemeva. D’un tratto, i tentativi della donna diventarono più energici. «Non voglio, Albert. Non sto bene. E poi so che sei andato con altre femmine. Sei uno schifoso. Uno sporco schifoso.» La frase seppe distrarre l’uomo al punto da fargli sfuggire la presa. Lui non sorrise. Anzi, trasformò il viso in una maschera terribilmente cattiva, mostrando un’espressione che Gabrielle non aveva visto mai. E da alcuni minuti sudava fino a gocciolare. Una sottile pioggia che dalla fronte cascava sugli occhi e che non si fermava. Tentò un ultimo abbraccio, disperato, ma sembrava sapere in anticipo che tutto era inutile, e che di lì a poco sarebbe stato nuovamente respinto. Così fece ricadere le braccia e rivolse il viso verso terra. Stette così, in un silenzio misterioso, solo per qualche secondo. Jeanne accettò quell’immobilità nuova che lui imponeva alla scena, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Chanel
  6. Epilogo
  7. Ringraziamenti