Ho cominciato a fare il corso per sommelier quasi per scherzo. Mi piaceva, ma credevo di fermarmi lì. Forse, addirittura, al primo livello.
È andata un po’ diversamente.
Ad aprile ho dato l’esame di degustatore ufficiale. Una qualifica ulteriore, un fiore all’occhiello spesso aleatorio. L’esame da degustatore ufficiale, dato a Calenzano, è stato didatticamente più facile (mille pagine da portare invece di quasi tremila) ma tempisticamente più arduo. Le dieci ore intensive della domenica pre-esame sono state una full immersion sfiancante. E rispondere a novanta (viscide) domande in sessanta minuti, che è poi l’obiettivo del test scritto, non è agevolissimo.
Il mio corso ha diplomato quarantacinque sommelier. Di questi, soltanto tre hanno dato l’esame di degustatore. Perché? Perché costa (duecentocinquanta euro), perché la percentuale di bocciati è molto alta e perché, di fatto, non serve a molto. Per servire nei ricevimenti, o aprire un winebar, o stare in sala in un ristorante, basta essere sommelier.
Si prova a diventare degustatori ufficiali per vanagloria, soddisfazione personale (cose spesso collegate) e perché solo attraverso quella qualifica puoi, un anno dopo e previo Master in Comunicazione e programmazione, diventare relatore ufficiale. Ovvero uno di quelli che nelle lezioni per aspiranti sommelier fanno i «professori», si scelgono un tema (per dire: «Viticoltura in Valle d’Aosta e Piemonte», seconda lezione del secondo livello) e lo espongono ai futuri esaminandi.
L’esame per relatore ufficiale consiste in una tua elaborazione, con tanto di grafici e schermate al computer, davanti a relatori chiamati a valutare se sei bravo – o scaltro – quanto loro.
Confesso che non ho un sogno chiamato winebar, non andrei mai a servire Chianti Colli Aretini a una comunione, né farò mai il sommelier in un ristorante. L’esame da degustatore l’ho dato per vanagloria, soddisfazione personale, esigenze editoriali (cioè questo libro). E perché, sì, forse diventare relatore non mi spiacerebbe.
Mi sono persino fatto il vestito (io che odio la cravatta come odiavo Ivan Lendl), che non solo non è obbligatorio ma neppure esiste. L’Ais ti obbliga a indossarlo solo se fai «servizio» o se partecipi a qualche stage o esame ufficiale. Non esiste una divisa, sei tu che compri una giacca – l’importante è che sia blu scuro – e sopra ci fai cucire, sul taschino di sinistra, lo stemma dell’associazione. Sempre a sinistra devi avere la spilla, che raffigura un tastevin, d’argento se sei sommelier da meno di un anno e d’oro se da almeno un anno «eserciti» la professione (a quel punto sei sommelier professionista). L’unica cosa che devi comprare è la cravatta, dal capo Delegazione (sì, al collo devi tenere il tastevin, simbolo dell’Ais).
I pantaloni non hanno obbligo di colore, e neppure la camicia: basta che siano anche solo minimamente intonati (dico «minimamente» non a caso). La mia divisa l’ho indossata solo all’esame da degustatore. Anzi, no: qualche volta la metto per scherzo, soprattutto quando sono in vena di demenza con gli amici.
Il fatto che ora sia degustatore ufficiale, e in Italia non siamo in tanti, non vuol dire che possegga il supernaso di un Peter Parker che da bambino è caduto in una damigiana e lì ha ricevuto il sacro battesimo alcolico: vuol solo dire che, come quelli che vanno in tv, ho studiato più di altri e più di altri ho avuto fortuna.
I numeri del vino sono importanti. L’interesse è massimo, didattico e modaiolo.
La produzione italiana rappresenta, di media, il 21% della produzione mondiale e il 34% di quella dell’Unione Europea. L’intero patrimonio della filiera vitivinicola (compreso quindi anche il valore degli impianti e strutture legate alla produzione di vini, liquori, distillati e aceti balsamici) sfiora i cinquanta miliardi di euro.
La piramide del vino in Italia è così composta: tre milioni d’ettolitri Docg, nove milioni d’ettolitri Doc, ventidue milioni d’ettolitri Igt, venti milioni d’ettolitri di vino da tavola; la vendemmia 2003 è stata di 44.900.000 ettolitri, ma la produzione media (ultimi cinque anni) è stata di 54 milioni di ettolitri.
Le aziende vitivinicole sono ottocentomila, ma le aziende imbottigliatrici (che hanno una media di cinque etichette) sono trentamila.
La superficie vitata italiana (Censimento Istat 2000) è di 675.000 ettari (1.227.000 ettari nel 1980): i due terzi delle aziende hanno una superficie vitata inferiore a un ettaro; settemila una superficie superiore ai dieci ettari, poche centinaia più di cinquanta ettari di vigneto. 233.000 ettari sono impiegati in Italia per la produzione di Doc e Docg. Nel mondo la superficie vitata è di 7884 milioni di ettari (il 41% nell’Unione Europea).
Le persone in qualche modo occupate nel mondo del lavoro vitivinicolo sono un milione e duecentomila, compresa la fase della distribuzione.
Il consumo medio annuo di vino per abitante in Italia è sui 59-60 litri. Sta diminuendo. È un bene, perché molti bevono meno ma meglio. È un male, perché in tanti al posto del vino bevono quintali di birra e superalcolici (spesso celati dietro cocktail discotecari).
Il mondo del vino ha un giro d’affari in Italia di ottomila milioni di euro. La cifra è cresciuta dalla seconda metà degli anni Novanta, quando ha cominciato a verificarsi il boom del vino.
Le enoteche e winebar in Italia sono mille, con un fatturato da trecento milioni di euro. Il principale luogo di acquisto di vino è la grande distribuzione organizzata (Gdo), con il 40%: nel 2001, le vendite di vino hanno raggiunto i 480 milioni di litri. Seguono il piccolo dettaglio (10%), l’enoteca (15%), l’approvvigionamento diretto (32%), le vendite per corrispondenza (3%).
Nella hit parade delle enoteche d’Italia c’è il Brunello di Montalcino. A fargli compagnia sulla vetta sono Chianti e Chianti Classico; quarto viene il Barolo seguito dalla Barbera d’Asti, dal Dolcetto e dal Barbaresco; la carica dei piemontesi è interrotta all’ottavo posto dal Greco di Tufo e riprende poi al nono gradino con la Barbera d’Alba; decimo è il Sangiovese di Romagna.
A livello di vendita, i vini in bottiglia hanno superato quelli sfusi. Nel 2002 la vendita di prodotto sfuso è ulteriormente calata del 7,9% e l’imbottigliato è cresciuto del 2,03%. Prevalgono i vini rossi, che coprono una quota del 53% e del 57% (rispettivamente volume e valore).
I vini Doc e Docg rappresentano, in quantità, circa il 21% della produzione italiana. Le Docg sono trentacinque, le Doc 315, ma con oltre 1800 tipologie diverse tra menzioni aggiuntive e sotto specificazioni.
L’Italia non è più il primo paese esportatore al mondo. Lo era nel 2001, adesso è dietro la Francia e si deve guardare da Australia, Cile, Spagna e Germania. I viticoltori biologici italiani sono cinquemila e la superficie vitata è di venticinquemila ettari. Il vino biologico italiano è apprezzato soprattutto dal mercato internazionale, che assorbe dal 70% all’80%.
Gli adepti del vino di qualità in Italia sono oltre sei milioni (hanno perlopiù tra i ventisei e i quarantacinque anni) che cercano e consumano in misura sempre crescente etichette di qualità, comprano guide e riviste specializzate, frequentano enoteche e winebar, partono per weekend alla scoperta di territori ricchi d’arte, storia, ambiente, ma anche di cantine.
L’attenzione verso il mondo del vino ha una platea ben più grande: sono ventiquattro milioni i consumatori italiani stabili, sedici dei quali hanno a casa uno stock di vini. Gli iscritti all’Ais sono più di trentamila. Il turismo enologico è particolarmente florido. La nuova tendenza è all’insegna della riscoperta dei prodotti e dei sapori di casa nostra, da assaggiare nei weekend o nelle micro-vacanze. Gli italiani che subiscono il fascino dei territori del vino sono un esercito: ben tre milioni e mezzo di turisti di casa nostra hanno scelto mete enogastronomiche e il fatturato del settore (pari a due miliardi e mezzo di euro nel 2002) è in costante crescita.
Questo scenario, come ha sottolineato il Movimento Turismo del Vino, «conferma che l’enoturismo è il volano più efficiente per muovere flussi, grazie al mix dei suoi principali elementi: cultura, paesaggio, vino, cucina, arte, prodotti agroalimentari, artigianato di qualità».
La top ten sulle intenzioni di visita nei distretti del vino (un potenziale di dieci milioni d’italiani) è così sgranata: Chianti, Conegliano, Oltrepò Pavese, Montalcino, Monferrato, Langhe, Trentino, Montefalco, Collio, Castelli Romani.
È stato il winemaker (e scrittore) Roberto Cipresso a inventarsi una riuscita classificazione dei bevitori di vino: Analfabeta, Alfabetizzato, Diplomato, Acculturato.
L’Analfabeta è quello che beve per il gusto dell’alcol, perché sa di proibito, perché in discoteca è gradita la disinibizione. È spesso giovane, più vicino all’alcolismo che al piacere del vino. Quantità, non qualità. Prova lo stesso gusto a bere Tavernello o Brunello.
L’Alfabetizzato lo conoscete tutti. È quello fermamente convinto che il vino del contadino sia il nirvana perché costa meno ma è più buono delle bottiglie in commercio. Fa cinquecento chilometri per farsi riempire la sua damigiana di un rosso quasi sempre dozzinale, che poi imbottiglierà da solo in bottiglie usate fino al giorno prima per l’acqua gassata. Beve tutta la vita lo stesso vino, diffida dei sommelier, si autodefinisce esperto e quando lo inviti a cena si presenta nove volte su dieci con una bottiglia polverosa e mal tappata, con l’etichetta dell’Acqua Verna ancora attaccata e un contenuto rossastro che all’olfatto saprà di spunto (e al gusto avrà sentori preagonici).
Il Diplomato è quello che fa il corso Ais (o similari). Che poi passi o no l’esame, avrà comunque quell’atteggiamento odioso da «ora io so», quanto di peggio si possa fare per avvicinare un novizio al vino.
L’Acculturato è quello che, dopo il diploma (o anche a prescindere dal diploma), è andato oltre. Non si è fermato ai libri, alle regole scritte, al galateo. Ha cercato, per il gusto di cercare.
A titolo personale fluttuo nel meraviglioso limbo tra Diplomati e Acculturati. Un girone poco infernale dove non c’è Roberto Benigni che legge Dante, al massimo Gianni Mura che ti invita a cena per una gara sfiancante di mnemonica.
E il vino è soprattutto questo, per me: tramite per la convivialità, stupore nel r...