Homer & Langley (Versione italiana)
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Homer & Langley (Versione italiana)

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Homer & Langley (Versione italiana)

Informazioni su questo libro

Ispirata a un famoso fatto di cronaca della New York del primo Novecento, la storia dei fratelli Homer e Langley Collyer assume nella rivisitazione di E.L. Doctorow, maestro nell'amalgamare avvenimenti reali con episodi romanzati, i contorni del mito.
Homer, il fratello cieco, e Langley, tornato semifolle dalla Grande Guerra, sono due rampolli di una famiglia benestante che nel corso dei decenni trasformeranno il loro palazzo in un delirante ricettacolo di ciarpame, dove vivranno come reclusi fino a rimanere sepolti sotto le tonnellate di spazzatura da loro stessi accumulata.
Questi personaggi tragici ed emblematici, che hanno perfino dato il nome alla cosiddetta "sindrome di Collyer", grazie alla magistrale scrittura di Doctorow diventano la metafora di un mondo e lo specchio di un lungo periodo della storia americana. Homer e Langley, benché rinchiusi nella loro folle utopia, saranno infatti testimoni di tutti gli avvenimenti fondamentali di quegli anni, dalle guerre ai movimenti politici, dal progresso tecnologico a una serie di personaggi indimenticabili, immigrati, gangster, musicisti jazz, hippy. La sconcertante storia di due eccentriche ma esemplari figure storiche, riscritta dalla penna di uno dei migliori scrittori americani del nostro tempo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804601333
eBook ISBN
9788852014680

Homer & Langley

A Kate Medina
Sono Homer, il fratello cieco. La mia vista non se n’è andata di colpo: è stata una lenta dissolvenza, come nei film. Quando mi spiegarono cosa stava succedendo, decisi di misurarlo, perché allora ero un ragazzo e mi appassionavo a tutto. Quel particolare inverno, dunque, decisi di piazzarmi a una certa distanza dal laghetto di Central Park dove la gente pattinava sul ghiaccio, e controllare quello che riuscivo e non riuscivo a vedere giorno dopo giorno. Le case dall’altra parte, in Central Park West, se ne andarono per prime, diventarono sempre più scure come se si stessero dissolvendo nel cielo scuro finché non potei più scorgerle, e poi gli alberi cominciarono a perdere forma, e infine, questo accadeva al termine della stagione, forse negli ultimi giorni di febbraio di quell’inverno freddissimo, riuscii solo a distinguere le sagome spettrali dei pattinatori che mi fluttuavano davanti su una distesa di ghiaccio, e infine il ghiaccio bianco, l’ultima luce, diventò grigio e poi completamente nero, e a quel punto la mia vista se n’era andata, anche se sentivo chiaramente lo scut scat delle lame sul ghiaccio, un suono molto gratificante, un suono lieve anche se pieno di risolutezza, di una tonalità più profonda di quanto ci si potrebbe aspettare dalle lame dei pattini, forse perché risuonava con il basso sonoro dell’acqua sotto il ghiaccio, scut scat, scut scat. Sentivo qualcuno filare veloce, e poi la piroetta con quel lungo scrrach mentre il pattinatore roteava fino a fermarsi, e poi ridevo anch’io di gioia per la sua abilità di fermarsi tutto d’un tratto, scut scat scut scat e poi scrrach.
Ero anche triste, certo, ma per fortuna mi accadde quando ero molto giovane e non mi rendevo conto di essere invalido, e il mio interesse si spostò su altre facoltà, come l’udito eccezionale, che allenai fino a un grado di acutezza quasi visiva. Langley diceva che avevo orecchie da pipistrello, e verificò quell’affermazione, dato che gli piaceva sottoporre a esame ogni cosa. Naturalmente conoscevo bene la nostra casa, ciascuno dei suoi quattro piani, e potevo orientarmi in ogni stanza e salire e scendere le scale senza esitazione, sapendo a memoria dove si trovava tutto quanto. Conoscevo il soggiorno, lo studio di nostro padre, il salottino di nostra madre, la sala da pranzo con le diciotto sedie e il lungo tavolo di noce, la dispensa e le cucine, il salotto, le camere da letto, ricordavo quanti erano i gradini con la passatoia fra un piano e l’altro, non dovevo nemmeno tenermi al corrimano, una persona che non mi conosceva non avrebbe mai detto che i miei occhi erano morti. Ma Langley sosteneva che per verificare le mie facoltà uditive era necessario escludere l’intervento della memoria, così spostò un po’ di cose e poi mi portò nella stanza della musica, dove poco prima aveva cambiato di posto il pianoforte a coda e sistemato al centro della stanza il paravento giapponese con gli aironi nell’acqua, e per giunta prima di entrare mi fece ruotare su me stesso finché non perdetti completamente il senso dell’orientamento, e mi venne da ridere perché, diamine, girai subito intorno a quel paravento e andai a sedermi al piano proprio come se sapessi dove lo aveva piazzato, e infatti era proprio così, percepivo le superfici con l’udito, e dissi a Langley: «Un pipistrello cieco fischia; è così che si orienta, ma io non ho dovuto fischiare, non ti sembra?». Langley era davvero sbalordito, ha due anni più di me e io ho sempre desiderato far colpo su di lui, in qualunque modo. A quell’epoca frequentava già il primo anno di college alla Columbia. «Come fai?» mi chiese. «Questo è un esperimento di interesse scientifico.» Risposi: «Riconosco la forma degli oggetti da come respingono l’aria, oppure ne sento il calore, puoi farmi ruotare finché non mi gira la testa, ma riesco comunque a percepire se l’aria è occupata da qualcosa di solido».
E c’erano altre forme di compensazione. Venni istruito da precettori, e poi, naturalmente, entrai senza difficoltà al Conservatorio Musicale del West End, dove studiavo sin da prima di perdere la vista. La mia bravura al pianoforte rese la mia cecità accettabile nei salotti mondani. Di lì a pochi anni tutti parlavano della mia galanteria, e molte ragazze nutrivano un debole per me. Nella società newyorchese di quei giorni, un metodo usato dai genitori per assicurarsi che la figlia trovasse un marito adeguato era avvertirla, probabilmente sin dalla nascita, di stare attenta agli uomini e non fidarsi di loro. Tutto questo accadeva molto prima della Grande Guerra, quando i giorni delle flappers e delle donne che fumavano e bevevano martini facevano parte di un futuro inimmaginabile. Così, un bel giovane cieco di famiglia rispettabile risultava particolarmente attraente, in quanto non poteva, neppure in segreto, combinare alcunché di sconveniente. La sua impotenza era molto affascinante per una donna educata sin dalla nascita a essere a sua volta impotente. La faceva sentire forte, autorevole, poteva suscitare la sua compassione, poteva ottenere molte cose, la mia cecità. La donna poteva esprimere se stessa, abbandonarsi ai suoi sentimenti repressi, cosa che non avrebbe potuto fare senza pericolo con un uomo normale. Mi vestivo molto bene, sapevo radermi con il rasoio a mano libera senza mai tagliarmi, e su mia disposizione il barbiere mi lasciava i capelli un po’ più lunghi di quanto si usasse all’epoca, così che, quando durante qualche occasione speciale mi sedevo al piano e suonavo l’Appassionata, per esempio, o lo Studio Rivoluzionario, la mia chioma svolazzava qua e là. Avevo tanti capelli, allora, una folta zazzera castana divisa in mezzo che ricadeva ai lati della testa. Una chioma alla Franz Liszt, ecco cos’era. E se eravamo seduti sul divano senza nessuno intorno, una giovane amica poteva baciarmi, toccarmi il viso e baciarmi, e io, essendo cieco, potevo posarle la mano sulla coscia in modo apparentemente casuale, e lei magari trasaliva ma la lasciava lì, per paura di mettermi in imbarazzo.
Devo dire che, pur non essendomi mai sposato, ero particolarmente sensibile alle donne, anzi, ne ero un grande ammiratore, e confesserò fin da subito che ebbi un paio di esperienze sessuali nel periodo di cui sto parlando, il periodo della mia vita cittadina di bel giovane cieco non ancora ventenne, quando i nostri genitori erano vivi e organizzavano parecchie serate mondane, intrattenendo le persone più in vista della città nella nostra casa, un monumentale omaggio al tardo stile vittoriano presto superato dalla modernità – per esempio dall’arredamento all’ultima moda della nostra amica di famiglia Elsie de Wolfe, la quale non mise più piede nel nostro palazzo dopo che mio padre le ebbe negato il permesso di rimodernarlo da cima a fondo – che mi è sempre sembrato confortevole, solido, sicuro, con i suoi grandi divani imbottiti, le sedie trapuntate stile Impero, le finestre a parete con i pesanti drappi sopra le tende, gli arazzi medievali appesi ad aste dorate, e poi le librerie a bovindo, i folti tappeti persiani, e le lampade a stelo con il paralume a frange e le coppie di anfore cinesi che potevano quasi contenere una persona…era tutto molto eclettico, trattandosi di una specie di documentazione dei viaggi dei nostri genitori, e agli estranei poteva forse apparire caotico, ma a noi sembrava normale e giusto ed era il nostro retaggio, mio e di Langley, quella sensazione di vivere insieme a oggetti assertivamente inanimati ai quali bisognava sempre girare intorno.
I nostri genitori andavano all’estero per un mese all’anno, salpando su questo o quel transatlantico, salutandoci dal parapetto mentre uno di quei colossi a tre o quattro fumaioli – il Carmania? il Mauretania? il Neuresthania? – si allontanava dal molo. Sembravano così piccoli là sopra, piccoli come mi sentivo io con la mano stretta in quella della bambinaia, la sirena della nave che mi echeggiava sotto i piedi e i gabbiani che ci svolazzavano intorno come per festeggiare, come se stesse succedendo qualcosa di molto bello. A quei tempi mi chiedevo cosa ne sarebbe stato delle pazienti di mio padre mentre lui non c’era, perché mio padre era un importante medico delle donne e io temevo che, in attesa del suo ritorno, le pazienti potessero ammalarsi e persino morire.
Mentre i miei genitori erano ancora in giro per l’Inghilterra, l’Italia, la Grecia, l’Egitto o qualche altro posto, il loro ritorno veniva preannunciato dagli oggetti contenuti nelle casse recapitate all’ingresso di servizio dalla Railway Express Company: antiche mattonelle islamiche, libri rari, una fontana di marmo, busti romani senza il naso o le orecchie, antichi armoires dall’odore fecale.
E poi, finalmente, con grandi urrà, quando mi ero quasi completamente dimenticato di loro, ecco che Mamma e Papà in persona scendevano dal taxi davanti a casa, con le braccia cariche dei tesori che non li avevano preceduti. Non erano del tutto egoisti, come genitori, e infatti portavano sempre qualche regalo per me e Langley, cose davvero emozionanti per un bambino, come un antico trenino troppo delicato per poterci giocare, oppure una spazzola placcata in oro.
Da ragazzi viaggiavamo un po’ anche noi, mio fratello e io, dato che frequentavamo regolarmente il campo estivo. Il nostro campo era nel Maine, su un altopiano costiero coperto di boschi e prati, il posto ideale per apprezzare la Natura. Nell’epoca in cui le fabbriche andavano sempre più nascondendo il nostro paese sotto una coltre di fumo, in cui il carbone risaliva acciottolando dalle miniere, le imponenti locomotive solcavano rombando la notte, le grandi mietitrici meccaniche fendevano i campi e le strade si riempivano di strombazzanti automobili nere che andavano a sbattere le une contro le altre, ebbene, proprio in quest’epoca, il popolo americano venerava sempre più la Natura. Nella maggior parte dei casi, quel genere di devozione era affidata ai bambini. E così andavamo a vivere in capanne primitive nel Maine, maschi e femmine in due campi vicini.
Ero all’apice dei sensi, allora. Avevo le gambe agili e le braccia forti e muscolose, e vedevo il mondo con tutta l’inconsapevole felicità di un quattordicenne. Non lontano dal campo, in cima a una scogliera a picco sull’oceano, c’era un prato cosparso di cespugli di more selvatiche, e un pomeriggio io e molti altri andammo laggiù per raccogliere le more mature e affondare i denti nella polpa calda e umida, gareggiando con sciami di bombi nel correre da un cespuglio all’altro e riempirci la bocca di more finché il succo non ci colava lungo il mento. L’aria era offuscata da comunità fluttuanti di moscerini, che salivano e scendevano, si espandevano e si contraevano come eventi astronomici. E il sole splendeva sulle nostre teste, e dietro di noi, ai piedi della scogliera, c’erano rocce nere e argentee che pazientemente ricevevano e infrangevano le onde, e più in là il mare scintillante di schegge di sole, e tutto questo era nei miei occhi acuti mentre mi giravo trionfante verso la sola ragazza con cui avevo legato, Eleanor si chiamava, e allargavo le braccia e mi inchinavo come un mago che avesse compiuto quell’incantesimo per lei. E in qualche modo, quando gli altri se ne andarono, ci attardammo con fare cospiratorio dietro i cespugli finché non calò il silenzio e noi due restammo soli e senza sorveglianza, infrangendo le regole del campo, e ci sentimmo più adulti di quanto gli altri pensassero, anche se al ritorno diventammo pensierosi e ci tenemmo per mano senza neanche accorgercene.
L’amore non sarà mai più così puro come quando non sappiamo ancora cosa sia. Aveva la mano calda e umida, questa Eleanor, e gli occhi e i capelli scuri. Il fatto che fosse parecchio più alta di me non ci imbarazzava affatto. Ricordo la sua pronuncia blesa, la punta della lingua che s’infilava tra i denti quando articolava la esse. Non era una di quelle ragazze estroverse che abbondavano nel settore femminile del campo. Era vestita come tutte le altre, con la stessa camicia verde e le stesse braghette grigie, ma era un tipo piuttosto solitario, e ai miei occhi appariva ricercata, seducente, profonda, e pervasa da uno struggimento analogo al mio, anche se nessuno dei due avrebbe saputo dire per cosa ci struggessimo. Quello fu il mio primo affetto dichiarato, così serio che perfino Langley, che abitava in un’altra capanna con ragazzi della sua età, evitò di prendermi in giro. Le regalai un cordoncino intrecciato e un modellino di canoa in corteccia di betulla che avevo tagliato e cucito con le mie mani.
Oh, ma è una storia triste, quella che mi accingo a narrare. Il campo maschile e quello femminile erano separati da un boschetto, lungo il quale correva un alto reticolato come quelli per tenere lontani gli animali, e così per i ragazzi più grandi era un’avventura esaltante arrampicarsi o scavare sotto il reticolato, di notte, e sfidare l’autorità correndo per il campo femminile, gridando e schivando gli assistenti che li inseguivano, e bussando alle porte delle capanne per suscitare le urla divertite delle ragazze. Io e Eleanor, invece, aprivamo un varco nel reticolato per incontrarci quando tutti dormivano, vagare sotto le stelle e discutere filosoficamente della vita. E così accadde che in una calda sera d’agosto proseguimmo lungo la strada per più di un chilometro, fino a un albergo dedicato, come il nostro campo, al ritorno alla natura. Ma era per adulti, per genitori. Attratti da una luce tremolante dentro la magione per il resto buia, salimmo in punta di piedi sulla veranda e dalla finestra vedemmo una cosa sconvolgente, quello che in tempi più recenti sarebbe stato definito un film a luci rosse. La proiezione licenziosa aveva luogo su uno schermo portatile che ricordava una grande tenda avvolgibile. Nella luce riflessa scorgemmo i contorni di un pubblico di adulti attenti, chini in avanti su poltrone e divani. Ricordo il suono del proiettore non molto distante dalla finestra aperta, il ronzio che emetteva, come un campo di cicale. La donna sullo schermo, nuda eccetto le scarpe col tacco, giaceva reclinata sopra un tavolo, mentre l’uomo davanti a lei, anch’egli nudo, le afferrava le gambe sotto le ginocchia per prepararla a ricevere il suo organo, non prima di averlo esibito al pubblico in tutta la sua enormità. Era un individuo brutto, calvo e rachitico, che si distingueva solo per quell’unico tratto sproporzionato. Mentre l’uomo si spingeva ripetutamente dentro di lei, la donna si tirava i capelli e scalciava convulsamente verso l’alto, sferrando rapidi colpi nell’aria con la punta delle scarpe come se fosse investita da scariche elettriche. Io ero totalmente assorto, inorridito ma anche infervorato a un livello talmente innaturale da rasentare la nausea. Oggi non mi sorprende il fatto che, con l’invenzione del cinematografo, vennero subito scoperte le sue potenzialità pornografiche.
Cosa fece la mia amica? Trasalì e mi strattonò la mano per portarmi via? Anche se lo avesse fatto, non me ne sarei accorto. Ma quando mi fui sufficientemente ripreso mi voltai, e non la vidi da nessuna parte. Tornai indietro di corsa, e in quella notte di luna, una notte in bianco e nero come il film, non scorsi nessuno sulla strada davanti a me. L’estate durò ancora qualche settimana, ma la mia amica Eleanor smise di rivolgermi la parola e perfino di guardarmi; una decisione che accettai perché, in quanto maschio, mi sentivo in un certo senso complice dell’attore. Aveva ragione a sfuggirmi, perché quella notte il romanticismo era stato spodestato dalla mia mente, e al suo posto si era insediata l’idea che il sesso era ciò che si faceva a loro, a tutte loro, compresa la povera, alta, timida Eleanor. È un’illusione puerile, a stento degna della mente di un quattordicenne, eppure permane negli uomini adulti anche quando incontrano donne più lussuriose di loro.
Naturalmente una parte di me, guardando quel filmetto di cattivo gusto, si sentì tradita dal mondo degli adulti tanto quanto la mia Eleanor. Non voglio insinuare che mia madre e mio padre fossero tra il pubblico: non lo erano. A dire il vero, quando mi confidai con Langley, entrambi concordammo che i nostri genitori erano estranei alla razza degli afflitti da pulsioni carnali. Non eravamo così infantili da pensare che si fossero abbandonati al sesso solo le due volte necessarie al nostro concepimento. Ma era buona norma della loro generazione che l’amore venisse praticato al buio, e mai menzionato o dichiarato in qualunque altro momento. La vita era resa tollerabile da queste formalità. Anche ai parenti più stretti ci si rivolgeva in termini formali. Nostro padre non si mostrava mai senza un abito a tre pezzi, il colletto e la cravatta puliti: semplicemente, non lo ricordo vestito in altro modo. I suoi capelli grigi come l’acciaio erano sempre tagliati corti, e portava i baffi a spazzola e il pince- nez, del tutto ignaro di scimmiottare l’aspetto del Presidente. E nostra madre, con la sua figura abbondante stretta nel bustino, secondo lo stile dell’epoca, e la folta chioma raccolta a forma di cornucopia, era un’immagine di opulenza matronale. Le donne della sua generazione portavano gonne lunghe fino alla caviglia. Non avevano diritto di voto, cosa che non turbava affatto mia madre, anche se fra le sue amiche c’erano alcune suffragette. Langley sosteneva che il matrimonio dei nostri genitori era stato deciso in cielo. Con questo non intendeva dire che la loro fosse una grande storia d’amore, ma che in gioventù avevano ossequiosamente conformato le loro vite alle norme bibliche.
Di solito le persone della mia età ricordano i fatti più remoti ma non quelli accaduti il giorno prima. I miei ricordi dei nostri genitori, morti ormai da tempo, sono assai offuscati, come se l’essersi allontanati sempre più nel tempo li avesse rimpicciolit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Homer & Langley
  4. Copyright