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1963
Quella sera il vento si alza al calar del sole, come non capita spesso. Marie ama particolarmente il vento, soprattutto a quell’ora. Le piace sentirlo soffiare impetuoso mentre risale con Bud la ripida e tortuosa strada di terra battuta tra gli alberi curvi sotto le raffiche. Le foglie si agitano sui rami e i capelli svolazzano come piume intorno al viso. Era stata una sorpresa per lei scoprire che incinta si sentiva più sexy che mai, che tutto il suo essere era focalizzato sul corpo.
«Vorrei tanto non doverla fare questa cosa» dice Bud.
«La festa, intendi? Sarà splendida. E tu sei così affascinante.» Inclina la testa e gli rivolge uno sguardo incoraggiante. Qualche volta, con certe persone, il suo Bud si sente un po’ intimidito, e questo le fa tenerezza.
«Non la festa, ma il torneo. Non vincerò, sai. Tutti pensano di sì: Mister Fleischer ha scommesso un sacco di soldi su di me... cavoli, l’ho fatto anch’io.»
«Davvero?» Lei si fermò. «Non me l’avevi detto.»
«Volevo farti una sorpresa: la vincita mi sembrava scontata.»
«Be’, certo che lo è.» Gli stringe la mano e la fa dondolare. Quindi ha scommesso dei soldi... be’, tipico degli uomini; comunque è il migliore: lo dicono tutti.
«No, mica tanto.» Bud guarda dietro di sé tra gli alberi, in direzione del lago scuro. «In realtà, è quasi sicuro che perderò.»
«Perdere!»
«Be’, mi piazzerò al secondo posto, se non peggio. Non li ho visti tutti in allenamento, e potrebbe esserci qualcun altro.»
«Qualcun altro chi? Di cosa stai parlando?»
«L’hai visto quel tizio di Dubuque?»
«Com’è?»
«Non saprei. Alto, capelli castani. Ma quel che conta è il suo swing: non posso batterlo, Marie: sembra un professionista!»
«Santo cielo, Bud. Praticamente lo sei anche tu. Il tuo è solo un po’ di nervosismo, tutto qui.»
«Nervosismo, ma non è tutto. Senti, me ne intendo abbastanza per capire se un altro è più bravo di me.»
«Non vedo come sia possibile dopo solo qualche tiro di prova.»
Bud non risponde, e riprende la salita su per la collina con passo regolare e lo sguardo a terra.
Il Lakeview Country Club trae gran parte degli introiti da feste di laurea e compleanno, ricevimenti di nozze e pranzi dopo cerimonie funebri. Con tutte le porte aperte si ottiene un grande salone, mentre a porte chiuse si creano salette per eventi minori. Durante il liceo Marie aveva fatto la cameriera in occasione di alcune feste. Era facile: preparava vassoi di stuzzichini, serviva piatti di cordon bleu o costate con contorno di patate O’Brien e insalata, macedonia di frutta o torta. Niente mance però. Al club, aveva partecipato a qualche festicciola, e ci aveva lavorato un paio di volte in occasione di ricevimenti “a porte aperte”; quella di stasera, però, è la prima festa “a porte aperte” a cui prenderà parte da invitata. L’occasione è la Butter Cup, il primo torneo di golf ospitato dal club, l’evento che li ha fatti «accorrere qui fin da Chicago, Minneapolis, Indianapolis e Dubuque» sta dicendo Adam Fleischer mentre loro varcano la soglia.
Parla stendendo il lungo braccio magro, e apre e chiude la mano come per radunare un piccolo esercito in calzoni scozzesi; poi abbassa la mano. «Ed ecco la nostra star» annuncia raggiante, indicando Bud. «Bud, vieni; vieni qui.» Gli fa cenno con le lunghe dita nodose, ma ad andare incontro a Bud è suo figlio, Walter Fleischer, che lo accoglie stringendogli vigorosamente la mano destra tra le sue. «L’uomo del momento!» annuncia.
Bud si guarda attorno e sul viso guizza un sorriso nervoso, un’espressione che Marie non gli ha mai visto prima. Questa sua evidente insicurezza le provoca una sensazione sgradevole. È preoccupata per lui, ovvio, ma nel suo intimo avverte anche un vago senso di disgusto. Ha provato qualcosa di analogo da bambina, quando al suo gattino dovettero amputare la zampa spezzata. I suoi fratelli e le sue sorelle avevano coccolato e assistito quella bestiola deturpata, che sembravano aver tanto più a cuore per la compassione e le cure particolari che richiedeva. Marie aveva fatto il suo dovere; cambiava le bende al gattino, lo accarezzava e lo nutriva, ma aveva l’impressione che si fosse in qualche modo “corrotto” e dentro di sé desiderava sbarazzarsene. Non va certo fiera di una reazione del genere, sa che è un suo difetto, d’altra parte così stanno le cose. Da quando lo conosce, Bud è sempre stato una star, ma se la sua superiorità non varca i confini di Winnesha, lui non è l’uomo che ha creduto di sposare.
Terminate le presentazioni, la gente fa capannelli e comincia a parlare del tempo e di attrezzature da golf. Marie vede Walt districarsi nella calca per dirigersi verso il corridoio che conduce al bar.
Quando lei lavorava ai ricevimenti del club, Walt, in congedo estivo dall’accademia militare, si dava da fare, lavava e pelava verdure ed eseguiva qualsiasi altro ordine del padre. Marie era facile da corteggiare: lui flirtava, la affascinava scherzando con il giovane aitante chef, apriva il frigo per allungarle una Coca. Cominciò ad aspettare la fine del turno per accompagnarla a casa. Le offriva doni speciali e bizzarri: un soldatino in miniatura dipinto con le sue mani in oro e turchese, i colori che lei preferiva, un nido di scricciolo pieno di sassi levigati. Come un innamorato da manuale, scriveva poesie per lei e, strimpellando sotto la sua finestra una chitarra presa in prestito, cantava con la voce rotta dalla commozione suscitata dai suoi stessi versi. Proclamava di trovarla bellissima.
Lei sapeva di non esserlo. Suo padre le diceva sempre: “Non sarai la più carina, ma di sicuro sei la più intelligente”. Marie gli sorrideva, come lui si aspettava, ma ogni volta si sentiva ferita. Gli apprezzamenti di Walt sul suo aspetto fisico erano come acqua nel deserto: anzi, visto che lui la riteneva carina, il non esserlo non rappresentava un problema.
E così quando le chiedeva di sbottonare la camicetta per mostrargli il rigido reggiseno bianco, lei si sentiva compiaciuta. Era contenta di lasciargli premere il corpo contro il suo finché rovesciava gli occhi all’indietro: la inorgogliva che bastasse quel contatto fisico a provocare quell’effetto in lui. Tuttavia, la sera che Walt si aprì i pantaloni fu un’altra cosa. Prima di tutto, una volta tiratolo fuori dalla patta, era diverso rispetto a quando era trattenuto al sicuro dai jeans. Così, mentre spuntava verso di lei, sembrava avere una sua vita autonoma. Marie sentiva che avrebbe dovuto distogliere lo sguardo, invece continuò a fissarlo finché, esitante, allungò un dito.
“Bacialo” sussurrò lui. “Ti prego.” Si era buttato contro lo schienale dell’auto con le gambe e le braccia spalancate, la testa abbandonata all’indietro, gli occhi serrati e la bocca socchiusa.
Lei non voleva, ma lo fece. Trattenne il fiato, si tuffò veloce: si sentiva goffa a doversi chinare tanto in basso, e gli diede un bacetto frettoloso. Fu sorpresa di sentirlo così vellutato, e magari, quel che è peggio, l’avrebbe baciato di nuovo per riprovare quella sensazione, se lui non si fosse buttato improvvisamente in avanti per sbatterla sul sedile e bloccarle le spalle sotto di sé, con il membro piantato contro l’addome, come un gigantesco dito senza unghia. Con la testa voltata di lato, lei vide spuntare da sotto il sedile anteriore qualcosa di rosa, stropicciato e dall’aria accusatoria: quella che poco prima era la sua camicetta.
“Walt! Piantala!” sbottò, furiosa. Cercò di sgusciare via, ma lui le stava addosso a peso morto impedendole quasi di respirare. Teneva la testa affondata nel suo collo e non pareva udirla. Le ficcò le dita nelle mutandine graffiandola con le unghie. Marie gli assestò una ginocchiata all’inguine e gli affondò i denti nella spalla, con un morso non profondo ma abbastanza violento perché lui si staccasse di colpo con gli occhi sgranati. Mentre si stringeva la spalla e tirava su la lampo, si disse dispiaciuto. Cercò una spiegazione per blandirla: non sapeva cosa gli fosse preso; non era riuscito a trattenersi. Benché non se lo fosse mai sentito dire, Marie aveva letto abbastanza per sapere che quella era una scusa ripetuta migliaia di volte da migliaia di uomini.
Ma ora che era tutto finito, non si sentiva spaventata. “Bene” disse “non lo faremo mai più.”
Walt non si fece vivo il giorno successivo, e lei pensò che stesse morendo di vergogna. Però non chiamò neanche il giorno dopo, né quello dopo ancora.
Fu soltanto il venerdì sera, durante il ricevimento degli Hoffman, che lei, ormai in preda all’agitazione, decise di parlargli.
“Che fine hai fatto? Perché non mi hai più chiamata?” chiese con tono lamentoso non appena lo vide, e lo tirò nella dispensa abbandonando a metà le pesche sciroppate e le insalate con i fiocchi di formaggio che stava preparando. Senza volerlo scoppiò a piangere, ma si asciugò subito gli occhi con un gesto spazientito.
“Avevo da fare, evidentemente.”
Marie capì che non era più lui; non il ragazzo che conosceva e che aveva baciato, ma un’altra persona, più distaccata.
“Be’” disse tirando su con il naso. Allungò la mano e gli accarezzò il braccio nel tentativo di scioglierlo un po’. “Dove si va questa sera?”
“Stasera sono già impegnato con Irma Dalquist.”
Lei scoppiò a ridere, sbalordita. “Irma Dalquist? Perché?”
“Irma e io ci siamo messi insieme lo scorso weekend. Mi piace.”
“E io?” Gli afferrò le mani e le strinse forte. “E io?” implorò.
Con gelida calma, Walt liberò le dita dalle sue. “La trovo carina, direi.”
“Più di me?” Avrebbe voluto rimangiarsi le parole nel momento in cui le pronunciava, perché lui la guardava con un sorriso di commiserazione. Cosa si era aspettata? La promessa che non avrebbe mai trovato una ragazza più carina?
“In realtà non sei questa gran bellezza. E mi stupisce che tu non lo sappia, visto che sei così intelligente.” Dopodiché sgusciò fuori dalla dispensa.
Bud la trovò in lacrime, il viso premuto contro una pila di tovaglie: la classica scena da far innamorare un tipo come lui, scena che per anni colorò al meglio l’opinione che Bud aveva di lei; Marie ne era consapevole, e per questo doveva solo ringraziare Walter. Quell’estate approfittò della vicinanza di Walt per alimentare il proprio disprezzo nei suoi confronti: tutte le qualità che l’avevano conquistata, come il suo fascino disinvolto, i facili entusiasmi, la generosità e la schiettezza, furono da lei liquidati come infantili e superficiali. Ora notava che quel suo atteggiamento spavaldo altro non era che una maschera per nascondere la propria fragilità. Vedeva anche che lui era talmente abituato ad averla vinta da ritenere tutto dovuto. Poiché era nella sua natura, Marie rimuginava sulla vergogna e sull’odio che un tempo le avevano quasi impedito di respirare, quando pensava a come si era dimostrata disponibile e a come era stata ripagata. Oh, sì, Walter Fleischer lo conosceva proprio bene.
Lo segue al bar e si sistema sullo sgabello accanto a lui. Sono anni che si comportano da amici: ormai la loro storia, debitamente minimizzata, rientra nel processo di prova ed errore dell’adolescenza. «Sei pronto per domani?»
Walt sorride. «È facile essere pronti a perdere.» Solleva il bicchiere alle labbra tumide.
«Com’è il tizio di Dubuque? Bud lo considera un osso duro, ma io gli ho detto che era tutto matto...»
«Se la cava, ha un bel drive, sì, però non conosce il campo come Bud. Mi fai compagnia?» Picchietta sul bicchiere.
Marie nota che, superata la ventina, comincia a diventare flaccido: muscoli del viso allentati, vita che si allarga. Forse ha fatto bene ad acchiappare tante ragazze il più in fretta possibile. Il suo fascino, ancorché modesto, non è destinato a durare a lungo. «Sai, farei volentieri due passi.» Gli dà un colpetto con il dito sul dorso della mano, quel tanto che basta a ricordargli che è una donna. «Avresti voglia di rivedere ancora una volta un tratto del percorso prima della gara? Bud è tutto preso a farsi adorare» aggiunge con un filo di ironia.
Walt scola ciò che resta nel bicchiere e scivola giù dallo sgabello. «Cosa diavolo gli viene in mente di lasciare la sua bella moglie a cavarsela da sola?»
Lei si irrigidisce: come si permette di esprimersi così? E di dimenticare fino a che punto l’ha fatta soffrire? Ma nello stesso tempo è contenta che l’abbia detto, contenta di sentire riaccendere l’odio dentro di sé.
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12
Ethan osservò l’Explorer nero sfilargli lentamente davanti e lasciare libero il campo. Non gli era neppure passato per l’anticamera del cervello che Winifred potesse trovarsi là dentro, accanto al guidatore.
Di certo, all’agenzia le stavano facendo pressione perché dedicasse al lavoro anche i weekend. Ethan la conosceva quella pressione: per diventare associato aveva a sua volta dedicato al lavoro molto del suo tempo libero, così, quando avesse avuto una moglie, avrebbe potuto dire: “No, Winifred e io siamo impegnati questo weekend. Lei reclama la mia presenza; sapete com’è”. Il sabato, loro si sarebbero dedicati alla casa e al giardino.
Quasi lo compiangeva il tizio, che sapeva avere moglie, casa e giardino: ovviamente non aveva programmato bene le cose.
Certo, Winifred era giovane e doveva ancora dimostrare di che stoffa era fatta: nel frattempo lui avrebbe sfruttato le sue ore libere per sostenerla, portarle premurosamente in ufficio uno spuntino e invitarla a prendersi una pausa per andare a correre insieme nel pomeriggio. Se la cavava bene con le faccende domestiche e avrebbe organizzato splendide cenette per il suo rientro la sera, sbrigando prima tutti i preparativi noiosi e lasciando da completare solo i particolari più divertenti: le pietanze da saltare in padella all’ultimo minuto, i condimenti, le guarnizioni. Mentre lui dava gli ultimi tocchi, Winifred si sarebbe seduta al bancone a chiacchierare con un bicchiere di Lillet ghiacciato in mano. Lo riempiva di entusiasmo il pensiero di prendersi cura di lei, di renderla felice.
Se Winifred giocava bene le sue carte sul lavoro (e lui sapeva come consigliarla), nel giro di uno o due anni avrebbe potuto rilassarsi un po’ e cominciare a delegare. I superiori lo accettavano, ma non sempre le donne lo capivano: un’altra cosa in cui poteva aiutarla.
Non c’era motivo di andare in auto davanti al suo ufficio e bighellonare in attesa che finisse il lavoro. Era successo un paio di volte, e in particolare in un’occasione le portò un mazzo di tulipani di un delicato color pesca come l’interno delle conchiglie, con i fiori ancora chiusi e ritti sui freschi gambi verdi. Lei si mostrò sorpresa nel vederlo ed ebbe una reazione a scoppio ritardato, come nei film. Era in compagnia di altre persone: una bionda tarchiata, un uomo alto e imponente da squadra universitaria di football, e un terzo, che allora Ethan non sapeva ancora essere “il tizio”. In attesa di venire presentato, passò la mano sul davanti della camicia, una vecchia abitudine che risaliva ai tempi della scuola media, ma lei si accomiatò dagli altri con un breve cenno della mano e lo raggiunse da sola. Tutto sommato gli fece piacere: era giusto tenere il lavoro separato dalla vita privata.
“Grazie!” fece lei nel vedersi porgere i fiori. “Sono proprio splendidi. Però io non ho preso niente per te.”
“Fa lo stesso” ribatté Ethan, prima di capire che quella era solo una battuta; poi cercò qualcosa di spiritoso da dire a sua volta, ma senza riuscirci; così rimasero entrambi a osservare i tulipani come se non avessero mai visto un fiore in vita loro.
“Sarebbe meglio metterli nell’acqua” suggerì infine, ma non era quello che aveva sperato di dire.
“Hai proprio ragione. Li porto subito a casa.”
Ma non lo fece. Lui notò la sua auto posteggiata. Non l’aveva seguita ma, mentre girovagava senza meta per godersi l’aria primaverile che entrava dai finestrini e ripensare a quell’incontro piacevole, aveva visto la Mustang. Un’auto totalmente inaffidabile: una volta sposati, le avrebbe comprato qualcosa di più sicuro e adeguato. Magari una Toyota Camry.
Posteggiò a mezzo isolato di distanza, tornò indietro a piedi e rimase accanto all’auto. Davvero, non per una ragione particolare, ma solo perché era una piacevole coincidenza aver trovato Winifred in quel posto. Perché non salutarla? Si guardò attorno, convinto che fosse scesa solo per una rapida commissione, ma non la vide. Si chinò a guardare attraverso il finestrino, con la mano sugli occhi per ripararsi dal bagliore del sole al tramonto. I tulipani avvolti nel cellophane stavano appassendo sul sedile.
Le portiere erano chiuse a chiave, ma chiunque con ...