«Tommaso?»
«Che cosa c’è?»
«Pensavo... se tu restassi qui, se la smettessi di fare su e giù dalla città... non devi per forza lavorare per lui.»
Erano mesi che ne parlavamo, da quando gli si era infilata in testa l’idea di far parte di quell’impero il cui simbolo faceva bella mostra sulle magliette di Ariel. Tommaso non sapeva dire cosa lo spingesse a tanta ostinazione. Mi guardava a lungo senza aprire bocca, aspettando che fossi io ad analizzare e argomentare – non sarebbe stato lui a pronunciare quelle parole, non sarebbe stato lui a dire quello di cui continuavamo a non parlare lasciandoci sfuggire ogni occasione. Se il grande assicuratore lo avesse assunto, Tommaso se ne sarebbe andato.
«Non devi per forza lavorare per lui» avevo ripetuto.
«Ma che stai dicendo?»
«Non ci posso credere che tu voglia davvero finire in quel posto, che ti piaccia immaginarti mentre vai a convincere le persone che è bene si abituino all’idea di avere incidenti, di essere derubati, di restare vedove e orfani. Davvero ti piace l’idea di andare in giro a raccontare alla gente storielle assicurative?»
«Guarda che alla gente capitano un sacco di incidenti» aveva ribattuto.
«Non è questo che intendevo.»
«Nemmeno io, se per questo.»
«Potresti restare qui, e continuare a studiare. Potresti, che so, avere una borsa di studio all’Osservatorio.»
«Io non resto qui» aveva detto semplicemente. E quella frase troppo breve, che non avrebbe mai pensato di pronunciare, aveva lasciato un silenzio improvviso. Si era sentito tintinnare il ghiaccio nel bicchiere di acqua e menta che gli avevo portato in giardino, il braccio gli bruciava e gli faceva tremare la mano.
Perché quello che Tommaso non avrebbe mai potuto dire era che non gli interessavano più i cieli stellati e le galassie luminose. Io non avevo capito il fascino che esercitava su di lui l’imponente entrata della società di assicurazioni, il suo portone da duomo con i leoni ai lati della scalinata e il vento che faceva sventolare sul tetto la bandiera da Repubblica conquistatrice. Non sapevo che per giorni era rimasto seduto sul bordo della fontana guardando l’edificio che dominava la piazza grande, e intanto meditava un modo per avervi accesso. Non avevo capito che Tommaso non voleva semplicemente un lavoro dal grande assicuratore, voleva un posto di prestigio in una società di prestigio, voleva conquistare il West e non dubitava di riuscirci.
Per lui ormai non c’era nessuna attrattiva nel restare dove stavamo, ci aveva passato già troppi anni. Stava solo perdendo tempo in una zona neutra come quella, valutabile solo per la sua distanza dalla città, per il collegio rinomato, per la sua utilità in quanto luogo salubre adatto a curare quelli che, come lui, soffrivano di bronchiti. Un posto buono per organizzarsi prima di far ritorno al mondo reale.
E Tommaso sapeva che il tempo per organizzarsi era finito. Era arrivato il momento di lasciare le due stanze nel vecchio garage risistemato che un amico di mio padre gli aveva affittato per poche lire. Doveva prendere una decisione, e scegliere tra i suoi desideri quello che era il più profondo, il più puro. La scommessa di una vita che sembrava felice – l’università, la galassia di Andromeda, la voce di un padre sconosciuto che dalle stelle gli parlava, la mia mano innamorata che gli accarezzava i capelli e gli regalava il sonno – oppure l’azzardo dell’ambizione al successo.
Quella sera Tommaso capì che se avesse scelto il desiderio che urlava più forte, gli altri gli sarebbero crollati attorno, non sarebbe riuscito a tenerli insieme per sempre, era infantile pensarlo.
«Io non resto qui» aveva detto d’un fiato, e io di colpo avevo desiderato non aver mai tirato fuori la questione, perché se non le nomini le cose non esistono. Però, dietro il lampo di quelle parole, dietro il ghiaccio che tintinnava nel bicchiere, avevo visto dibattersi anche la disperazione di cui non parlava mai. Perché la perdita di un amico, anche quando lo si è tradito per dimostrare un amore più grande, anche quando il tradimento doveva solo attirare la sua attenzione e non, come poi era stato, far precipitare tutto, quella perdita non saliva mai alla bocca. Restava solo un fatto della vita, l’effetto del tempo che passava, ma il dolore rimaneva e lui voleva allontanarsene il più possibile.
Quella sera Tommaso desiderò lasciarsi tutto alle spalle, ma non era sicuro di farcela. I suoi occhi sembravano quelli di un ragazzo che è costretto ad abbandonare le possibilità dell’infanzia, che sta per partire volontario in guerra e non sa se farà ritorno, e forse un po’ si pente di un arruolamento frettoloso.
Un ragazzo costretto a capire i propri desideri più profondi, questo sembrava e si vedeva che non sapeva decidersi, che la scelta gli avrebbe in ogni caso portato sofferenza.
Ma Tommaso ambiva a qualcosa di grande e sapeva che cose del genere non si ottengono senza sforzo, senza sentirsi male nel girare le spalle e andarsene via. Con una consapevolezza che tragicamente lo avvicinava all’amico perduto, sapeva che per primeggiare bisogna soffrire.
Ed era consapevole di quello che lo aspettava. Aveva già calcolato tutto in quegli anni di lavori provvisori, in quel tempo in cui era stato sfruttato e deriso e aveva marciato a grandi passi per le vie strette della città vecchia adattandosi a ogni tipo di fatica, spiando un modo per fare fortuna e pregando Dio di non incrociare sua nonna, che Vittoria gli avrebbe sorriso divertita chiamandolo con quell’odioso appellativo.
Tommaso, negli anni che erano seguiti alla cacciata dal collegio, aveva capito una cosa molto importante: il talento non basta. Il ragazzino con la fissazione per le scienze, che sollevando gli occhi al cielo riusciva a vedere galassie che molti altri faticavano a distinguere, aveva capito che il talento è solo una maledizione, perché chi ce l’ha tende a sprecarlo invece chi non ce l’ha si fa furbo e calcola e la vita gli rende merito. Così aveva smesso di stare disteso la notte tra i sassi del giardino, aveva smesso di raccontarmi storie sui pianeti più luminosi, aveva allontanato la mia mano che gli accarezzava i capelli perché tutto questo non gli bastava più ed era solo un impiccio.
Quell’ultima sera, con l’aria estiva che saliva dal mare e le dita ancora intrecciate alle mie, gli era sfuggita spontanea quella frase che subito era suonata definitiva e forse non voleva essere né dura né crudele.
«Io non resto qui.»
«Ma che dici? Non essere stupido.»
«Credevo che avresti capito.»
«Tommaso...» avevo provato a obiettare, ma lui aveva solo abbassato gli occhi, una mezza richiesta a non continuare. «Mesi fa non l’avresti detto in questo modo.» Avresti allungato la mano a prendere la mia e mi avresti detto se io vado tu che fai? vieni con me? Ma Tommaso non poteva più aspettare.
«Cosa vuoi sentirti dire? Si cambia tutti, o sarò cambiato io.»
«Ho sbagliato a venire qui stasera» avevo detto, credendo ancora di poter arrestare l’impazienza di Tommaso, il suo bisogno di dire tutto fino in fondo e fare presto ogni passo. Voleva spicciarsi a chiudere le cose.
«No, non è stasera... Ascolta, capita che le cose finiscano. Tutti gli amori finiscono, anche i grandi amori, figuriamoci. O forse credevi che sarebbe stato diverso? Credevi davvero che sarei rimasto qui per sempre?»
«Tommaso, lascia stare... scusami, non so nemmeno io perché...» e non ero riuscita a finire la frase, la sua mano che già da un po’ si era staccata dalla mia non si era mossa per trattenermi.
«Aspetta...» aveva provato a dire, ma troppo piano perché fosse davvero una richiesta.
Non lo vidi più. Non lo vidi la mattina successiva quando chiuse la porta di casa lasciando la chiave sotto il vaso e i soldi dell’affitto sul tavolo della cucina. Non lo vidi attraversare veloce il prato inondato di luce dorata e prendere la strada che portava al capolinea del tram. Il passo rapido che avrebbe potuto sembrare allegro. Non lo vidi salire sul tram e pagare il biglietto, sedersi tra due vecchie che andavano a vendere fiori ai cimiteri. Dio mio, cosa sto facendo? Non lo vidi chiudere gli occhi per un attimo appoggiando la fronte al finestrino. Io non c’ero quel giorno accanto a lui, e non so dire se, mentre la carrozza cigolava frenando per le curve in discesa, le due vecchie con i fiori riuscirono a vedere, negli occhi di Tommaso riflessi sul vetro del finestrino, quel sorriso che lasciava da parte ogni ombra e si preparava a conquistare il mondo, come faceva da bambino corrompendo i cuori.
Tommaso ci mette pochissimo a farsi assumere dal grande assicuratore. Gli basta una mossa, così arrogante e insieme ingenua da non essere mai stata tentata da nessuno e il padrone spregiudicato dell’impero, quello che chiamano il Capitano, ne è colpito. Se fosse un uomo appena più sentimentale direbbe di essere stato conquistato dal ragazzo magro che, in quei giorni caldissimi d’inizio estate, riesce a scavalcare uscieri e segretarie con lusinghe e bugie, e rimane per ore seduto su una sedia scomoda davanti alla porta del suo ufficio in attesa di essere ricevuto. Al grande assicuratore viene in mente la storiella del monaco cinese che per scegliere un allievo cui tramandare i segreti di un’arte marziale non lo sottopone a nessuna prova di destrezza, ma lo lascia aspettare tutto un inverno davanti a un portone chiuso per vedere quanto tempo ci metterà la neve a sfiancare il carattere del ragazzo.
Tommaso attende per ore nel corridoio esposto a sud, la camicia a maniche lunghe sotto l’unica giacca buona. La segretaria gli offre un bicchiere d’acqua, ma lui fa un cenno sbrigativo per rifiutare. Ancora non sa che bisogna sorridere alle segretarie, ma lo imparerà in fretta.
In ufficio il vecchio assicuratore si accende un sigaro sottile, di quelli che fumava quando suo zio lo mandava in giro per la nazione “a fare l’apprendistato”, e guarda fuori dalla finestra. Il mare sembra entrare dentro la piazza ed essere fatto apposta per accogliere scambi e commerci, peccato che in città nessuno ne abbia mai approfittato, pensa. Una città di scansafatiche privi di ambizione, capaci solo di starsene ai bagni a farsi arrostire la pelle dal sole. Anche lui avrebbe potuto crescere così e prendere lo stesso sguardo dei suoi concittadini, noncurante e ironico nei confronti del mondo dove si produce lavoro e ricchezza. E invece per lui era stato diverso, lui aveva fatto fortuna e denaro e, se la sua vita non si poteva forse definire sana, di certo non era stata noiosa. I soldi, si sa, non fanno guadagnare la felicità però rendono curiosi, e se il potere svilisce è anche vero che sviluppa la furbizia. Ora, quel ragazzo in corridoio gli sembra diverso dai suoi concittadini. La sua ostinazione lo incuriosisce, gli provoca una leggera fitta di familiarità e, se non fosse così sicuro di sé, il vecchio se ne preoccuperebbe.
Smette di guardare dalla finestra e si siede alla scrivania, la poltrona di pelle è più grande del normale ma sparisce dietro le sue spalle che un tempo furono di valente rugbista, prima che un avversario saltasse sulla sua gamba destra spaccando l’osso in tre punti. Una frattura che gli ha lasciato una zoppia fantasma che a pochissimi è dato notare.
Allinea i fogli sulla scrivania con un ordine perfetto che non gli appartiene ma serve a intimorire chiunque entri, soprattutto un ragazzo. Riunisce le pratiche sotto un sasso fermacarte colorato a tempera. Un tocco naïf in quello studio così formale da sembrare disabitato. Un regalo di sua figlia quando era bambina e gli saltava sulle ginocchia al ritorno dei suoi viaggi, riempiva di bacetti il papà adorato, rideva per il solletico sulla pancia e si faceva colare il gelato sul mento. Ora stenterebbe a riconoscere quella bambina nel profilo accigliato di sua figlia, nelle mezze frasi di un umore cupo che sono l’unico dialogo che gli riserva.
Potrebbe anche aprire la porta a questo punto, ma il vecchio assicuratore aspetta ancora.
Si sistema la camicia dentro i pantaloni, la cravatta che vorrebbe fermare con la cintura se solo pesasse qualche chilo di meno, ma con quella gamba fragile non gli è permesso dedicarsi all’attività fisica. Intanto cerca di farsi un’idea del ragazzo, per quello che ha potuto intuire osservandolo mentre tentava di avvicinarsi al suo ufficio, guadagnando ogni giorno qualche metro di gerarchia in più e la simpatia delle impiegate. Sembra un tipo curato ma non uno ansioso di fare bella impressione. Il vestito è sobrio, la camicia bianca, i polsini delle maniche escono dalla giacca e questo, in giorni di caldo torrido, al vecchio sembra un buon segno. In quel ragazzo volontà e ambizione sembrano pari all’impazienza, se ne è accorto spiandolo mentre mentiva e seduceva i suoi dipendenti, mentre si inventava di tutto per arrivare a due passi dalla sua porta.
Quando la porta si apre Tommaso è già in piedi, un mezzo passo verso l’ufficio del Capitano, ma aspetta che sia il vecchio a fargli cenno di entrare e a tendergli la mano. Una mano senza la fede all’anulare ma con un grosso anello d’oro rosso e rubini. La stringe cercando di darsi un’aria decisa prima di sedersi.
Da dietro la scrivania il grande assicuratore mette alla prova Tommaso con tutta la gravità del suo autoritario silenzio, ma lui non si fa impressionare. È catturato dal profilo del vecchio, dalla sua mascella forte di carnivoro e dal naso imponente. Ha un piglio deciso e i modi da tiranno che facilmente conquistano una donna, e di donne deve averne avute parecchie, perfino una principessa egiziana, dicono. Gli fa servire un bicchiere di tè freddo e per sé prende un Campari con ghiaccio, con un gesto indulgente liquida la segretaria, come si farebbe con una scimmietta ammaestrata.
Tommaso attende, si è preparato accuratamente, si aspetta un interrogatorio da Stasi e sarebbe il minimo che si merita per aver chiesto ostinatamente un colloquio con l’uomo più potente della città. È pronto a parlare di sé, si è inventato con cura una magnifica storia personale che non potrà lasciare indifferente il vecchio assicuratore. Saprà vendersi come il miglior prodotto della terra, in fondo è un venditore che vuole diventare. Almeno in un primo momento.
Invece il grande assicuratore non domanda nulla. È lui a raccontare, stringendo tra le dita il sigaro spento. Ha la voce leggermente rauca del fumatore ma le sillabe escono ben stirate. Racconta di quando era ragazzo e girava l’Italia cercando clienti importanti, di pranzi con uomini potenti nelle loro case a Forte dei Marmi, di balli in cui bisognava conoscere il galateo con le donne di classe per non offenderle con un mancato corteggiamento, del primo viaggio con l’aereo privato di un industriale dell’editoria che credeva di fare un business più nobile del suo e si interessava poco al denaro, dell’America e dei teatri di Broadway, della nuova sede commissionata a un architetto famoso, dello sport in televisione e dei nuovi record dei campioni.
«Perché il segreto per fare questo mestiere è alzare la testa e avere un sogno più grande degli altri, non sei d’accordo?» dice appoggiandosi indietro sullo schienale come se fosse sazio e soddisfatto, rigirando al dito l’anello di rubini.
Tommaso non risponde, invece di essere investito e annientato da quell’aneddotica di grandezza dispiegata al solo scopo di impressionarlo, la sua mente è fuggita al ricordo di Ariel che si tuffa nella piscina deserta di una domenica senza gare. Il suo sguardo sul trampolino, la mano di saluto verso di lui. Dio mio, Ariel, il suo miglior amico.
«A cosa stai pensando ragazzo?» gli chiede il Capitano, e la sua mascella da predatore si apre in una smorfia che scopre i denti di sotto.
«Pensavo... ecco, pensavo che il suo lavoro è come una sfida dentro l’acqua. Dipende tutto da come ci si tuffa all’inizio.»
Il vecchio assicuratore accende il sigaro e soffia fuori il fumo dal naso, il suo profilo da condottiero, la pelle perennemente abbronzata, le dita che si massaggiano un ginocchio, ogni gesto in lui appartiene alla retorica del grande comandante. Si alza in piedi e guarda fuori dalla finestra.
«Lo sai, quand’ero giovane ero un ottimo giocatore di rugby. Avrei avuto una carriera da professionista se non mi av...