Senza vizi e senza sprechi
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Senza vizi e senza sprechi

La virtù in cucina e la passione degli avanzi

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Senza vizi e senza sprechi

La virtù in cucina e la passione degli avanzi

Informazioni su questo libro

Fabio Picchi, padre fondatore del Cibrèo, uno dei più importanti ristoranti toscani e italiani, ha fatto del recupero della tradizione una delle peculiarità della sua cucina. In questo libro, che è insieme una brillante autobiografia e un vero e proprio manifesto culinario, l'autore ci insegna come evitare gli sprechi in cucina. «Nel vivere con gli altri vi è un momento in cui nello sparecchiare insieme e nel riordino della cucina ripongo gli avanzi del mio cucinato. Qualcosa finisce in una tazza, qualcos'altro in un piatto... la cucina si trasforma in quel momento nella mia macchina del tempo.» Sano principio di economia, l'utilizzo degli avanzi offre a Picchi l'occasione per esporre la sua personalissima visione del cibo: vita vissuta, ponte emotivo con gli altri, momento di condivisione e distensione.
Ma non solo. L'economia in cucina alimenta anche la virtù, e così Picchi organizza la sua esposizione in sette capitoli, ciascuno dedicato a uno dei sette peccati capitali, mostrandoci come il cibo sia, oltre che nutrimento per il corpo, anche rimedio, cura contro i mali dell'anima. Possiamo allora vincere l'Accidia preparando la polenta nelle sue mille varianti e non farci tentare dall'Avarizia grazie alla pasta e fagioli, uno dei culti del Picchi bambino. Il panino col salame diventa la cartina di tornasole per capire se il nostro nuovo amore avrà un futuro, mentre la preparazione della fiorentina ci farà comprendere la saggezza che si cela dietro a gesti apparentemente primitivi. Gli esorcismi contro l'Invidia passano attraverso la preparazione di piatti semplici come il risotto alla fiorentina o la pasta saltata, e la medicina migliore contro l'Ira sarà uno squisito purè di patate. Ultimo, ovviamente, il peccato di Gola, che l'autore ammette di avere commesso e che riesce a espiare grazie alla sua professione («Della mia infinita e insaziabile fame chiedo perdono facendo il cuoco...»).
Senza vizi e senza sprechi, rievocando sapori e odori impressi nella memoria, riesce a svelarci altri segreti, oltre a quelli dell'arte culinaria di un grande chef. In ogni ricetta l'autore va infatti al di là del semplice riutilizzo degli avanzi e ci offre sempre uno spunto utile, un'idea per creare una nostra personale rielaborazione del cibo rimasto sulla tavola, in sintonia con le nostre emozioni.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804598381
eBook ISBN
9788852014499

V

La Superbia

Mi fu chiesto in maniera esplicita. Conoscevo quel tono e sapevo che non prevedeva repliche. Quando Eliana De Magistris, bellissima trentaquattrenne, testa di serie nel suo circolo del tennis, chiedeva con quella voce, valeva cinque ordini. Mia madre, quel pomeriggio, voleva stare tranquilla e riposare. La mia bicicletta, la mia splendida bicicletta rimase così nel sottoscala. Mio padre era andato al Poggetto, circolo ricreativo degli operai della Galileo dove, diciannove anni prima, lui ventottenne marlonbrandesco, lei diciottenne, innamorati persi, si erano conosciuti. Lui occasionale bagnino della bellissima piscina. Lei figlia di Rolando, operaio ottico specializzato. Da lì al matrimonio passò solo qualche mese e solo qualche mese passò alla nascita di mia sorella Donatella. Io, più prudentemente, arrivai cinque anni dopo. Nel mentre, loro due avevano mantenuto quel luogo come luogo del riposo, del divertimento, dello sport familiare. Mio padre ebbe la notizia sul secondo set di una delle sue divertentissime partite. Faceva pubblico con quel suo modo di giocare furbo e inusuale, mio personalissimo anticipatore dei modi dell’allora Cassius Clay, dell’ineguagliabile Muhammad Ali. Memorabile la sua partita con Valcareggi, l’allora allenatore della nazionale di calcio, che imprudentemente lo «convocò» per una rilassante partita dopo la tragica e personale sconfitta dell’Italia contro la Svizzera. Mio padre gli si presentò in campo con una Lacoste rossa dove aveva fatto cucire una grande croce bianca. Risate echeggiarono in quell’occasione, come in tante altre, per tutto il circolo.
Nei miei undici anni abbandonare la bicicletta era rinunciare all’avventura. Adoravo rintracciare strade nuove e quartieri poco conosciuti. Rapido salivo e scendevo dai colli fiorentini, ubriacandomi, in discese ardite come quella della Badia Fiesolana, dell’aria primaverile e profumata della mia città e dei suoi dintorni.
Così appiedato, con pochi passi arrivai a casa di Marco dove per la noia scendemmo immediatamente nel retro di quel palazzone, dove erano stati previsti numerosi box auto per tutti i condomini. Arrampicarmi sui muri con agile e disinvolta superbia giovanile era la mia adrenalinica alternativa risposta al divieto di correre con la bicicletta. Gioco, quello dell’arrampicarsi, che mi trovava allenato da anni e anni di pratiche di ragazzino assolutamente scavezzacollo. La certezza dei piedi che spingevano agguantando ogni pertugio, le mani capaci di sollevare la magrezza della mia età. Arrivare sul tetto del garage fu un attimo e guardare di sotto determinava un vertiginoso piacere. Noi potevamo, io potevo. Arrivavo ovunque e dovunque. Non c’era muro, cancello, palazzo, facciata che mi resistesse. Presunzione e orgoglio precedevano sempre il superbo vivere in un mondo di gioco parallelo e verticale. Dove gli altri camminavano in orizzontale io salivo e scavalcavo, raggiungevo, evitavo, penzolavo. Vivevo come in perenne gara e ogni altezza raggiunta era un personale successo. L’arrivare in cima, il procedere valicando ogni ostacolo controbilanciava la mia dislessia, la mia disgrafia, le mie grandi difficoltà scolastiche di mancino costretto ad arrancare con la destra. Sui tetti davo sfogo alla mia superbia che mi aiutava a nascondere, come quasi sempre fa la superbia, tonnellate di paura.
Marco trovò un manico di scopa e lo brandì come una mazza da baseball. Io, nel tentativo di soddisfare la sua fantasia vidi, sotto le foglie dell’edera, una piccola bottiglina vuota di dopobarba. La presi e la lanciai a palombella certo che lui l’avrebbe saputa colpire e spedire lontano, oltre il tetto. Fu in quel secondo che percepii che non vedendomi mi avrebbe colpito. D’istinto scartai indietro, prima con la testa e poi con le gambe che non trovarono però appoggio alcuno ma il vuoto sottostante. Di fatto avevo organizzato un perfetto tuffo a capofitto all’indietro. E fu così che mi ritrovai a volare a testa in giù verso la rampa di cemento che portava ai garage. Secondi interminabili dove l’immagine rovesciata delle terrazze del palazzo è diventata memoria stabile come il viso di quella donna del quarto piano che vedendo il mio volo smise di spazzare sbarrando per lo spavento gli occhi. Nessun tonfo, nessun dolore, qualche secondo di ripresa coscienza mentre mi infilavano nell’ambulanza. Poi di nuovo niente. Mia madre fu chiamata al telefono e a mio padre, ateo convinto, si raggelò il sangue mentre il megafono del circolo lo convocava urgentemente in direzione. Lo videro entrare in macchina, per correre verso l’ospedale, pregando. Il coma mi trattenne per un giorno intero. Nel risvegliarmi ascoltai attentamente quel che mi fu detto: «Non ti muovere, non sappiamo quello che hai fino a che non facciamo tutte le analisi». Lo star fermo divenne un obbligo a cui ubbidii senza un fiato, certo di averla scampata ma con ancora una bella paura addosso. Credetemi. Quel volo mi ha immunizzato contro tutte le superbie. Non finii nemmeno sui giornali. Fui battuto da un bambino delle Cure che volando dal terzo piano della sua terrazza rimbalzò illeso sui fili per stendere i panni del primo piano. «Miracolo», titolò il giornale cittadino. E io, in totale anonimato, rimasi un mese in obbligato fermo dentro l’ospedale, con le amorose cure di dolcissime infermiere. Mia madre, ripresasi dall’angoscioso spavento, badava a raccontare a tutti che noi ragazzi avevamo un angelo custode. In effetti, in quel mese, fu a lui che io mi rivolsi chiedendo rapida guarigione dato che se si era prodigato così tanto nel salvarmi da quel volo non vedevo perché mi avrebbe voluto uccidere lasciandomi vittima di un mese di cibo ospedaliero. Orzo mattutino al posto dei caffellatte lattosi e zuccherati, petti di pollo bolliti al posto dei polli arrosto con le patate, vili purè di patate mantecate con l’acqua, con mio padre e mia sorella che mi torturavano ogni santo giorno con i racconti di quel che mia madre aveva cucinato per loro e soltanto per loro. Capii quanto la superbia mi aveva portato a rischio di solitudine e ancor più a rischio della vita. Vita che ho sempre amato e che sempre amerò. Chi mi conosce sa che quando non ci sarò più voglio essere ricordato come devoto alla parmigiana di melanzane e chiederò a quell’angelo se ne vuole condividere un’ultima teglia con me. Una parmigiana di melanzane, paradiso terrestre da cui certamente non voglio essere cacciato.
Caserecce con avanzo di parmigiana
Se ve ne avanzano una o due porzioni, spaccatele sgarbatamente con coltello e forchetta mentre cuocete delle caserecce al dente. Dopo di che saltatele dentro aggiungendo all’occorrenza un goccio d’olio e, se ne avete, due cucchiai di passata di pomodori. Dopo un primo assaggio decidete se aggiungere peperoncino e un eventuale cucchiaio di basilico tritato. L’immancabile parmigiano a vostra discrezione. Una volta uno dei miei in verità tanti angeli custodi mi suggerì una laica variante con grattugiata finale di provolone stagionato.
Frittata con la parmigiana
Va da sé che se vi avanza della parmigiana di melanzane e la tritate in delle uova sbattute per fare una frittata, vi farete una delle cose più buone del mondo. Se nel vostro frigorifero dovesse esserci una mezza provola affumicata dimenticata, è questo il momento di liberarla per un nobile scopo. Tritatela e aggiungetela al composto.
Se avete un buon grill potete mettere le caserecce sopra descritte in un tegamino e rivestirle in superficie della solita provola affumicata tagliata a fettine. Grigliate il tutto con decisione. In fase iniziale obbligatorio cuocere le caserecce a mezza cottura.
Semolino resuscitante
Se state curando qualcuno e vi è avanzato del buon brodo, cuocetevi dentro del semolino. Già così, con la sua bontà, stimola endorfine che innalzano formidabili difese immunitarie. Se avete messo via anche le verdure dello stesso brodo, in particolare carote e cipolle ma anche il sedano se non di costola troppo filosa, frullate il tutto dentro il vostro semolino. Personalmente in quest’ultima versione, oltre al burro, nella frullatura aggiungo anche al parmigiano un bel cucchiaio d’olio e un pizzico di pepe.
Sicilia, il buon orgoglio sta alla superbia come la coscienza all’incoscienza
Una volta montati sul ferry-boat che vi sta portando da Reggio a Messina, capirete che vi sta per succedere qualcosa.
In una notte di mezza luna, con un cinematografico cielo stellato, dopo una partenza improvvisa da Firenze e l’idea fissa di dormire in Sicilia, mi ritrovai sullo stretto e lo stordimento fu totale.
L’appassionato bacio che detti a mia moglie mi trasformò in siciliano.
Quando, a ora tarda, entrammo nel primo e casuale ristorante di Messina, la cucina stava per chiudere e i camerieri stavano sparecchiando il buffet degli antipasti freddi. Chi ci accolse ci guardò con un grado di orgogliosa diffidenza. E io nel guardare quelle meraviglie che stavano per essere riposte, chinai la testa e mi feci gentile e sorridente. Blandii il ristoratore con un sottolineante: «È la nostra prima notte siciliana». L’apriti Sesamo fu immediato, l’ultimo cliente si apprestava a uscire e il ristoratore fece buttar giù il bandone. Toccai il polso a mia moglie per tranquillizzarla supponendo una sua preoccupazione che in realtà non c’era. Ma ormai la mia trasformazione in uomo siciliano era quasi completa e stavo nella parte nel proteggere la mia donna. Nel porgerci le sedie ci fu indicato un candido tavolino affettuosamente apparecchiato per il giorno dopo. Il cuoco ristoratore, entrando in cucina, dette l’ordine di non farci scegliere gli antipasti e il suo lesto cameriere cominciò a portare dei piattini di caponata, di peperoni gratinati col pan grattato, di involtini di melanzane. Nell’assaggiare quelle meraviglie cominciavamo a capire la fortuna di vivere in questo paese dalle mille e mille frontiere, patrimonio che, se ci unisce, ci differenzia dal resto del mondo.
Dalla cucina arrivò un silenziosissimo profumo. Dopo di che ci furono messi davanti due enormi piatti di spaghetti conditi con una salsa di pomodoro e una pioggia, in superficie, di piccoli pezzetti di peperoni gialli precedentemente fritti insieme a pochissimi e piccolissimi capperi. Altro non vi so dire di quella meraviglia. Partirono dei complimenti a cui, si sa, i siciliani sono sensibili. Una parola tira l’altra e, avendo io confessato il mio mestiere, alla fine, arrivò un superbo e conclusivo Marsala. Andammo via nel cuore della notte, senza essere riusciti a pagare il conto. A niente valsero le mie insistenze. L’ormai amico ristoratore mi guardò orgoglioso di quello che mi stava per dire: quando la saracinesca è giù, si è ospiti in casa mia. Fu l’inizio di una splendida vacanza, fu l’inizio di innumerevoli viaggi in quella terra benedetta da Dio.
Acitrezza
C’eravamo nuovamente attardati quando entrammo, nella nostra seconda notte siciliana, in un ristorante sul porticciolo. L’orgoglio siciliano ci accolse nuovamente con uno sguardo silenzioso. Da professionista buttai rapido gli occhi sui tavoli altrui e vidi del cavolfiore fritto. Sentii l’odore del pesce, mi avvicinai all’orecchio del ristoratore per bisbigliare che un amico siciliano, medico in Firenze, aveva insistito perché io arrivassi, anche nottetempo, in quello che lui considerava uno dei migliori ristoranti del mondo. Mi guardò perplesso ma bonariamente aggiunse che avremmo dovuto comunque accontentarci di quel che lui ci avrebbe fatto assaggiare senza scegliere da alcun menu. La grazia di quell’uomo scese su di noi. Depose la sua maschera da tragedia greca e si trasformò nel più accogliente dei locandieri. L’amico di un amico scelse per noi acciughe fritte e barchette di melanzane ripiene di ragù di maiale al finocchietto. Poi furono pesci. Pesci alla griglia di assoluta qualità. Pagammo pochi soldi per andar via, storditi da quell’uomo orgoglioso perché certo della propria bravura. Fu così a Erice con i cannoli delle suore, a Enna, dove la peperonata di mia madre che avevo sempre considerato la prima in assoluto al mondo cedette volentieri il primato a quella peperonata siciliana appoggiata su di un letto di cipolle con i peperoni sbruciacchiati e ben stufati. Ma anche lì i capperini fritti facevano la differenza insieme al nonniente di pomodoro e di basilico messo a crudo.
Barcellona
Vi passammo in un’estiva domenica pomeriggio e mi diede la definitiva essenza di quella terra: entrammo in quel bar per un caffè e invece affogammo in una granita di gelso. Fu solo tornando verso la macchina che percepimmo uno sgradevole odore di benzina in tutta la piazza. Il profumo del gelso sparì d’un tratto e gli occhi corsero sul sottile rivolo di carburante che scivolava via da sotto il nostro bagagliaio. Rientrammo disperati dentro il bar per chiedere aiuto e il barista, in quel linguaggio asciutto e per noi del tutto incomprensibile, si rivolse a qualcuno che stava seduto comodamente sotto un ombreggiato pergolino. Quel qualcuno si alzò senza degnarci di uno sguardo e si avviò verso il parcheggio. Chiese le chiavi per aprire il portellone posteriore e spostando le nostre cose cominciò ad armeggiare per sparire e tornare un attimo dopo con una cassetta di attrezzi. Ci guardò e ci ordinò con un piglio indiscutibile di rientrare dentro il bar e di mangiarci un’altra granita di gelso bianco. Fu chiaro che non c’era alternativa.
Rientrammo e con non poca soddisfazione ricominciammo a mangiare quella delizia. Poi fu il tempo di un caffè straordinariamente zuccherato. Quell’uomo era un meccanico. Riapparve e ci disse: «Tutto a posto, il vostro serbatoio era forato, adesso non più». Ci accompagnò alla macchina e vedemmo subito con che cura aveva riposto anche le nostre valigie. Ci rese le chiavi e al mio chiedergli, aprendo il portafogli, il dovuto, sussultò facendo un passo indietro e mi guardò assolutamente esterrefatto. Con una mezza risata mi disse: «Oggi è domenica, io non lavoro, le ho fatto una cortesia». Il resto ve lo potete immaginare. L’unica possibilità fu di fargli accettare una granita di gelso bianco; per noi fu la felice terza. Rientrammo e con estrema lentezza ricominciammo a mangiare quell’assoluta magia.
Palermo era lì a pochi chilometri
Passando accanto a una casa bianca un’anziana signora esponeva dei pomodori. Fermai la macchina, tornai indietro e ne comprai cinque. Risalii al posto di guida spaccandone uno e offrendolo a mia moglie. Al primo morso fummo sorpresi dal severo sguardo della nera signora che poco prima me li aveva venduti. Aprì lo sportello e ci ordinò di seguirla. Capimmo, perché lei con autorevolezza si fece capire, che non era possibile mangiare i suoi pomodori in quella maniera barbara. Ci fece entrare in casa sua, ci fece sedere, ci dette due piatti, due coltelli, un po’ di sale e due fette di pane indimenticabile. Solo alla fine arrivarono anche due piccolissimi bicchieri di vino bianco. Ci aveva, nel mentre, raccontato del figlio carabiniere, del marito contadino, di tutta la sua bellissima e amata vita. Un ritrattino ovale di papa Giovanni troneggiava in cucina. Un po’ più in là una medaglietta con Palmiro Togliatti. Questa Italia, paese dove in ogni luogo vi è l’augurabile sanità mentale di un Peppone e di un Don Camillo.
Marina di Selinunte
Aprii la porta e non vi era nessuno, assolutamente nessuno. Nessun cliente, nessun cameriere e la cucina di quel grande ristorante, pur avendo pentole che sobbollivano, mi apparve deserta. Feci comunque un passo per guardarvi meglio dentro. Fu allora che lo vidi sul banco delle uscite, deciso come sempre a riprendere la via del mare. I polpi, i miei amati polpi. La piovra aveva tentato di approfittare della sparizione di tutti per riacquistare la libertà. Solo a quel punto vidi i proprietari con i loro collaboratori mangiare all’ombra di un mandorlo, su un tavolo incredibilmente ben apparecchiato e circondato da fichi d’India. Non per coraggio ma per gola non fui omertoso e li avvertii del fuggitivo. Mi ringraziarono e ci fecero accomodare al tavolo più bello, più riparato, più vicino al mare e anche in questo caso non vi fu verso di ordinare. Vivaddio fecero tutto loro. Arrivò della pasta corta tirata su con delle lunghe e strette salsiccine di maiale al finocchietto e a seguire una frittura di pesce magistrale dove troneggiavano in bella vista non le granfie del polpo che ci aveva accolto ma dei piccolissimi e croccantissimi polpettini di scoglio. Finì nuovamente bevendo Marsala. Ma più che altro, in quel pomeriggio meraviglioso, chiedemmo di una pensione per un lungo riposo pomeridiano. Altro, quel giorno, non poteva contenere.
Da Siracusa a Modica
Arrivammo assolutamente tardi. Qualcuno ci stava aspettando con il suo passato di pesce e il suo couscous. Il giorno dopo, passato lo stordimento stendhaliano per aver incontrato per la prima volta l’Ortigia, lasciammo la città e, attraversando panorami punteggiati di carrubi, arrivammo sul tramonto a Modica, per scoprire dove si erano ispirati tutti i costruttori di presepi di questo mondo. Il ghetto, la casa di Quasimodo, i lampioni di vetro rosa, il suo Settecento, il suo teatro, la sua eleganza e l’amico dolciere erano lì ad aspettarci. Prima fu un cannolo, poi un pezzetto di cioccolata e poi l’amico Franco ci portò a mangiare in un posto apparentemente semplicissimo ma in realtà di grande civiltà, da due anziani signori di aspetto orgogliosamente nobile. Tovaglie di plastica, luce bassa, forchette di lega leggera, piatti bianchi di ceramica pesante. Qualche torta salata, un arancino di riso ripieno di ragù e poi anche lì arrivarono le salsicce, non lunghe e strette, ma larghe e corte come quelle toscane a bassa salatura, con carne di maiale dolce e saporitissima. Che io ne mangiassi sette era pre...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Senza vizi e senza sprechi
  3. Prologo
  4. I L’Accidia
  5. II L’Avarizia
  6. III L’Invidia
  7. IV L’Ira
  8. V La Superbia
  9. VI La Lussuria
  10. VII La Gola
  11. Appendice
  12. Note