Il 6 agosto 1888, un lunedì, era festa nazionale a Londra e la città si era trasformata in una grande fiera delle meraviglie, accessibili a chiunque disponesse di pochi penny.
A Windsor, sia dalla chiesa sia dalla cappella di St George, giungevano fin dal mattino ininterrotti rintocchi di campana. Le navi alla fonda inalberavano il gran pavese e i loro cannoni rimbombavano di salve regali per salutare il quarantaquattresimo compleanno del duca di Edimburgo.
Il Crystal Palace offriva un brillante programma di attrazioni speciali, dalle sonate d’organo al concerto di una banda militare, a un “mostruoso” spettacolo di fuochi pirotecnici, al Gran ballo delle fate, alle esibizioni di un ventriloquo e ai vocalizzi di un “cantante di fama mondiale”. Al museo delle cere di Madame Tussaud s’inaugurava una speciale riproduzione della camera ardente di Federico II di Prussia e, naturalmente, c’era la sempre apprezzata Sala degli orrori. Altri piacevoli orrori erano disponibili a quanti potevano permettersi una poltrona a teatro e cercavano il dramma edificante o il semplice frisson vecchia maniera: Il dottor Jekyll e Mister Hyde faceva il tutto esaurito in ben due sale. Il famoso attore americano Richard Mansfield reggeva brillantemente la doppia parte al Lyceum di Henry Irving, ma anche l’Opéra Comique ne aveva messo in scena una propria versione, accolta con riserve dalla critica e finita nell’occhio del ciclone perché il teatro aveva adattato il romanzo di Robert Louis Stevenson senza chiedere il permesso all’autore.
In quel giorno di festa c’erano anche esposizioni bovine ed equine, tariffe ferroviarie speciali con riduzione, e il mercato all’aperto di Covent Garden traboccava di argenterie di Sheffield, oro, gioielli e divise militari usate. Se qualcuno avesse voluto travestirsi da soldato in quel giorno di turbolento riposo, lo avrebbe potuto fare con poca spesa e senza dover dare giustificazioni. Oppure si poteva vestire da agente: bastava prendere a nolo un’uniforme autentica della polizia metropolitana nel negozio di costumi teatrali da Angel, in Camden Town. Una passeggiata di un paio di chilometri o poco più dal luogo dove viveva Walter Richard Sickert.
L’allora ventottenne Sickert aveva abbandonato un’oscura carriera d’attore per seguire le ben superiori vocazioni dell’arte figurativa. Era pittore e incisore, allievo di James McNeill Whistler e ammiratore di Edgar Degas. Ma il giovane Sickert era egli stesso un’opera d’arte: di corporatura snella, spalle robuste grazie alla pratica del nuoto, naso e mascella dal profilo statuario, folta capigliatura bionda e ondulata, occhi azzurri imperscrutabili come i suoi pensieri segreti e penetranti come la sua intelligenza acuta. Lo si poteva definire un bell’uomo, a parte l’unico difetto costituito dalla bocca, tendente a stringersi in una linea dura e crudele. La sua esatta statura non ci è nota, ma un amico la definiva leggermente superiore alla media. Dalle fotografie e dagli abiti donati negli anni Ottanta all’archivio della Tate Gallery si deduce che la sua probabile altezza fosse di un metro e settantacinque, forse un paio di centimetri in meno.
Oltre all’inglese, Sickert parlava correntemente il tedesco, il francese e l’italiano. Conosceva il latino quanto bastava per insegnarlo a qualche amico, e comprendeva il danese e il greco, forse anche un po’ di spagnolo e di portoghese. A quanto si sa, leggeva i classici nell’edizione originale, ma non sempre finiva i libri dopo averli iniziati. Non era raro trovare sparsi nelle sue stanze decine di romanzi, aperti sull’ultima pagina dove s’era incagliato il suo interesse. Ma soprattutto Sickert aveva la passione per i giornali, i periodici e le riviste in genere, d’informazione o scandalistici che fossero.
Fino al giorno della sua morte, nel 1942, il suo studio presso l’abitazione e quelli che aveva in altre parti della città sembravano un centro di distribuzione di tutta la stampa periodica pubblicata in Europa. Ci si può chiedere come una persona che lavorava con la sua assiduità riuscisse a trovare il tempo per leggere ogni giorno quattro, cinque, dieci quotidiani, ma Sickert aveva un sistema. Quel che non gli interessava lo lasciava perdere, anche se si trattava di politica, economia, affari esteri, guerre e celebrità. A Sickert interessava solo quello che in qualche modo riguardava Sickert.
Di solito si limitava a informarsi degli ultimi spettacoli arrivati in città, adocchiare la critica delle mostre, scorrere rapidamente la cronaca nera e cercare il proprio nome se sospettava che, per una ragione qualsiasi, potesse quel giorno apparire sul giornale. Amava le lettere al direttore, in special modo quelle scritte da lui stesso e firmate con qualche pseudonimo. Sickert aveva una particolare passione per scoprire quello che facevano le altre persone, soprattutto nella riservatezza della loro non sempre morigerata esistenza vittoriana. “Scrivi, scrivi, scrivi!” esortava gli amici “… riferiscimi nei particolari ogni genere di cose, quelle che ti hanno divertito, e perché, e quando, e dove, e ogni genere di pettegolezzi su chiunque ti capiti.”
Sickert disprezzava i ricchi, ma dava la caccia alle celebrità. In qualche modo riusciva sempre a frequentare le personalità dei suoi tempi: Henry Irving ed Ellen Terry, Aubrey Beardsley, Henry James, Max Beerbohm, Oscar Wilde, Monet, Renoir, Pissarro, Rodin, André Gide, Edouard Dujardin, Proust e svariati membri del Parlamento. Ma questo non significa che conoscesse intimamente molti di loro, e nessuno – famoso e non – lo conobbe mai veramente. Neppure la sua prima moglie, Ellen, che di lì a meno di due settimane avrebbe compiuto quarant’anni. Forse, in quel giorno di festa, Sickert non perdeva tempo a pensare al compleanno della moglie, ma è assai improbabile che se ne fosse dimenticato.
Era sempre stato ammirato per la sua memoria stupefacente. Per tutta la vita intrattenne gli ospiti recitando lunghi brani di drammi teatrali o di commedie musicali, in costume di scena, e sempre con una recitazione impeccabile. Sickert non s’era certamente scordato che il 18 agosto cadeva il compleanno di Ellen né quanto fosse facile rovinarle la festa. Forse avrebbe finto di dimenticarsene. Forse contava di svanire in uno dei tuguri che affittava segretamente e che chiamava “studio”. Forse avrebbe accompagnato Ellen in un romantico café di Soho e l’avrebbe lasciata sola al tavolino mentre lui correva a infilarsi in qualche teatro-varietà per non tornare a casa fino all’indomani. Ellen continuò a essere innamorata di Sickert per tutta la sua vita senza gioia e lo amò nonostante il cuore di ghiaccio, il patologico mentire, l’egocentrismo e l’abitudine di scomparire per giorni e settimane senza preavviso e senza spiegazioni.
Walter Sickert era un attore per natura più che per deformazione professionale. Viveva sulla ribalta di una propria esistenza segreta, dominata dalle sue fantasie, e si trovava a suo agio nel buio di una strada deserta quanto in mezzo alla folla. Aveva una voce stentorea ed era un maestro nell’uso del cerone e del travestimento. Era talmente dotato nell’arte di travestirsi, che spesso, fin da ragazzo, quando si aggirava nel proprio quartiere, non era riconosciuto dai familiari e dai vicini che gli passavano accanto.
Per tutta la sua vita, che fu lunga e piena d’onori, fu noto per cambiare sempre il proprio aspetto mediante ogni tipo di barbe e di baffi finti, per i suoi bizzarri abbigliamenti che talvolta erano veri e propri costumi, per le sue pettinature, compreso il tagliarsi a zero i capelli. Era, come scrisse un suo amico, il pittore francese Jacques-Émile Blanche, un “Proteo”. Il suo “genio nel camuffarsi cambiando d’abito, pettinatura e modo di parlare rivaleggia con quello di Fregoli” ricordava Blanche. In un ritratto di Sickert dipinto da Wilson Steer nel 1890 lo vediamo esibire un paio di baffoni assai poco convincenti, che sembrano una coda di scoiattolo incollata tra il naso e il labbro superiore.
Aveva anche la tendenza a cambiare nome, nella sua carriera di attore e nel firmare quadri, incisioni e disegni. Nelle innumerevoli lettere a colleghi, amici e giornali compaiono molte personalità diverse: Mr Nemo (ossia, in latino, “il signor Nessuno”), un Entusiasta, un Allievo di Whistler, il Vs. Critico d’Arte, un Estraneo, Walter Sickert, Sickert, Walter R. Sickert, Richard Sickert, W.R. Sickert, W.S., R.S., S., Dick, W. St., Rd. Sickert LL.D. (dottore in legge), R. St. A.R.A. (Associazione dei canottieri dilettanti), RdSt A.R.A.
Sickert non scrisse mai le sue memorie, non tenne diari o agende, e in gran parte delle sue lettere e delle sue opere non mise neppure la data, perciò è difficile sapere dove si trovasse o che cosa facesse in un determinato giorno, o settimana, mese e persino anno. Non ho reperito documentazione sulle sue attività e sui suoi spostamenti del 6 agosto 1888, ma non abbiamo ragione di pensare che non fosse a Londra. Basandoci sulle frasi da lui annotate in alcuni schizzi di scene del varietà, possiamo ipotizzare che fosse a Londra due giorni prima, il 4 agosto. Whistler, infatti, si sarebbe sposato a Londra cinque giorni più tardi, l’11 del mese. Sickert non era stato invitato alla cerimonia, che era riservata a pochi intimi, ma intendeva certamente partecipare, anche se da lontano.
Il grande pittore James McNeill Whistler, s’era profondamente innamorato della “notevole bellezza” di Beatrice Godwin, che avrebbe finito per occupare un posto di primo piano nella sua vita e che era destinata a cambiarla completamente. Allo stesso modo, Whistler occupava un posto di primo piano nella vita di Sickert e l’aveva sostanzialmente modificata. “Quel bravo ragazzo di Walter” diceva Whistler all’inizio degli anni 1880, quando nutriva ancora una grande simpatia per quel giovanotto ambizioso e di grande talento. Ormai la loro amicizia si era raffreddata, ma Sickert era probabilmente impreparato a quello che doveva essergli sembrato uno sconvolgente, inatteso, completo abbandono da parte del maestro da lui idolatrato, invidiato e odiato. Whistler e la futura moglie intendevano recarsi in Francia per la luna di miele e viaggiare in quel paese per il resto dell’anno. Speravano di potersi fermare laggiù definitivamente.
La prevedibile beatitudine coniugale di quello sfavillante genio artistico, l’egocentrico James McNeill Whistler, doveva avere lasciato nello sconforto il suo antico apprendista e factotum. Una delle tante parti recitate da Sickert era quella del seduttore irresistibile, ma una volta lontano dal palcoscenico non era nulla del genere. Sickert dipendeva dalle donne e al tempo stesso le odiava. Erano intellettualmente inferiori e inutili, se non come governanti e come oggetti da usare, soprattutto per scopi artistici o per farsi dare denaro. Le donne erano il pericoloso promemoria di un segreto umiliante e tormentoso che Sickert portò con sé non soltanto nella tomba, ma anche dopo essere morto, perché i cadaveri che sono stati cremati non rivelano nulla del corpo, neppure dopo l’esumazione. Sickert era nato con un difetto del pene che aveva richiesto l’intervento del chirurgo nei suoi primi anni di vita e senza dubbio gli aveva procurato una deformità, se non addirittura una mutilazione. Probabilmente non ebbe mai erezioni, forse la parte di pene che gli era rimasta non era sufficiente per la penetrazione ed è possibile che per urinare dovesse accoccolarsi come una donna.
“La mia teoria dei delitti” si legge in una lettera del 4 ottobre 1888, conservata negli archivi della Corporation of London, l’ente municipale di Londra, nel dossier sugli omicidi di Whitechapel “è che l’autore sia affetto da gravi lesioni – che forse abbia sofferto danni alle parti più intime – e con queste atrocità cerchi adesso di vendicarsi sull’altro sesso.” La lettera è scritta con una matita colorata viola e porta l’enigmatica firma “Scotus” che potrebbe essere la parola latina per dire scozzese. “Scotch”, parola inglese con lo stesso significato, vuol dire anche una leggera incisione, un taglio poco profondo. “Scotus” potrebbe inoltre essere un erudito riferimento a Giovanni Scoto Eriugena, teologo e maestro di grammatica e dialettica del nono secolo.
Immaginare Whistler innamorato e appagato dal rapporto sessuale con una donna può essere stato il catalizzatore che trasformò Sickert in uno dei più pericolosi e sconcertanti assassini di tutti i tempi, perché da allora prese a tradurre in atto quello che aveva fantasticato per gran parte della sua vita, sia nella mente sia nei disegni che faceva da ragazzo e che ritraevano donne rapite, legate e pugnalate a morte.
Per descrivere la psicologia di un assassino violento e spietato non basta tracciare poche linee. Non ci sono spiegazioni semplici né infallibili sequenze di causa ed effetto, ma la bussola dell’umana natura può puntare in quella direzione, e i sentimenti di Sickert non potevano che infiammarsi alla notizia del matrimonio tra Whistler e la vedova dell’architetto e archeologo Edward Godwin, ex convivente dell’attrice Ellen Terry e padre dei suoi figli.
Bellissima e passionale, Ellen Terry era una delle più famose attrici dell’epoca vittoriana e Sickert aveva una fissazione per lei. Da adolescente aveva l’abitudine di seguire lei e il suo compagno di recitazione Henry Irving. Adesso Whistler era legato a entrambe le ossessioni di Sickert, e quelle tre stelle del suo universo formavano una costellazione che non lo includeva. Gli astri non badavano a lui. Sickert era davvero il signor Nessuno.
Ma alla fine dell’estate del 1888 diede a se stesso un nuovo nome d’arte che nel corso della sua vita non sarebbe mai stato collegato a lui, un nome che presto sarebbe divenuto assai più famoso di quelli di Whistler, Irving o Terry.
Il passaggio dalle violente fantasie di un ragazzo ai delitti dello Squartatore ebbe luogo durante la spensierata festività del 6 agosto 1888, quando Jack uscì dalle quinte per divenire il più famoso “mistero criminale” della storia. È molto diffusa l’erronea convinzione che la sua violenta carriera sia terminata bruscamente com’è iniziata, che prima sia comparso dal nulla e poi sia svanito dalla scena.
Passarono i decenni, passò un cinquantennio, poi un secolo e, da cruenti che erano, i suoi assassini a sfondo sessuale sono ormai divenuti pallidi e anemici. Sono enigmi, escursioni di fine settimana in compagnia del mistero, giochi di ruolo e “Visite ai luoghi dello Squartatore” con la rituale conclusione davanti a una pinta di birra al Ten Bells pub, il ritrovo delle “Dieci campane”. “Saucy” Jack – Jack l’Impertinente, come a volte lo Squartatore chiamava se stesso – è divenuto l’eroe di cupe pellicole dove recitano attori famosi, tra gli effetti speciali e in mezzo a un mare di quello che lo Squartatore diceva di bramare: sangue, sangue e ancora sangue. Le sue opere di bassa macelleria non suscitano più paura né collera e neppure pietà per le sue povere vittime, che silenziosamente sono ritornate alla terra, molte di loro in una tomba senza nome.
Qualche giorno prima del Natale 2001 tornavo a piedi al mio appartamento nell’Upper East Side di New York e sapevo di avere un’aria triste e agitata, nonostante il mio sforzo di apparire tranquilla e serena.
Non ricordo granché di quella sera, neppure il ristorante dove s’era riunito il nostro gruppo. Ricordo vagamente che Lesley Stahl ci aveva raccontato una storia raccapricciante sulle sue ultime ricerche per la trasmissione 60 minuti, che tutti i convitati avevano esposto le loro riflessioni fatalistiche sull’attacco terroristico dell’11 settembre, che io avevo offerto a Lesley tutta la mia comprensione da scrittore a scrittore, ripetendo le mie solite osservazioni sulla libera professione e il nostro diritto di fare quello che ci piace, per evitare di parlare di me o del lavoro che mi rovinava l’esistenza. Sentivo una stretta al cuore, come se il dolore potesse farmelo scoppiare da un momento all’altro.
Io e la mia agente letteraria, Esther Newberg, eravamo poi tornate a piedi nella nostra zona della città. Non avevo voglia di chiacchierare, mentre camminavamo sul marciapiede buio e passavamo accanto ai soliti sospetti che fingevano di portare a spasso il cane e all’infinita serie dei maniaci del cellulare che parlavano ad alta voce. A malapena scorgevo i taxi e sentivo i clacson, ma cominciavo a vedere dappertutto scippatori che ci volevano portare via le borse. Mi facevo forza pensando che li avrei rincorsi e placcati con un tuffo da giocatore di rugby, afferrandoli per le caviglie e gettandoli a terra. Sono alta circa un metro e sessantacinque e peso cinquantacinque chili, ma il mio scatto è in grado di battere qualsiasi scippatore: gliel’avrei fatta vedere io, se solo si fossero azzardati! Fantasticavo su come avrei reagito se qualche psicopatico fosse comparso dietro di noi, e all’improvviso…
«Come va il libro?» mi chiese Esther.
«A dire il vero…» cominciai, poi esitai, dato che raramente dico a Esther la verità.
Non ho mai avuto il vizio di lamentarmi col mio agente o col mio editore, Phyllis Grann, del fatto che il mio lavoro mi intimorisce o mi toglie la serenità. Quelle due donne sono le stelle polari della mia vita professionale e hanno fiducia in me. Quando avevo detto loro di avere fatto ricerche su Jack lo Squartatore e di conoscere la sua identità, non avevano dubitato di me neppure per un momento.
«Mi sento a terra» confessai, e con sbigottimento mi accorsi di avere voglia di piangere.
«Davvero?» Il passo di Esther, solitamente deciso e inarrestabile, ebbe un attimo di esitazione su Lexington Avenue. «Ti senti a terra? Davvero? Perché?»
«Odio questo libro, Esther. Non so come diavolo ho fatto… mi sono limitata a dare un’occhiata ai suoi q...