Misha corre
eBook - ePub

Misha corre

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Lo hanno chiamato ebreo, zingaro, ladro e nanerottolo. Misha è un ragazzo che vive nelle strade di Varsavia. Un ragazzo che ruba cibo per se stesso e per gli orfani. Un ragazzo che crede nel pane, nelle madri, negli angeli. Un ragazzo che sogna di diventare uno Stivalone, con alti stivali lucidi e un'aquila scintillante sulla visiera. Finché un giorno succede qualcosa che gli fa cambiare idea. E quando davanti al cancello del ghetto si fermano i carri merci che porteranno via gli ebrei, è un ragazzo che scopre come, sopra ogni altra cosa, sia più sicuro non essere nessuno.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804525363
eBook ISBN
9788852016424

1

RICORDI
Sto correndo.
È il mio primo ricordo. Corro. Ho qualcosa stretto fra le mani, stretto al petto. Pane, naturalmente. Qualcuno m'insegue. — Fermo! Ladro! — Corro. Gente. Spalle. Scarpe. — Fermo! Ladro!
A volte è un sogno. A volte un ricordo che mi fulmina durante il giorno, mentre mescolo il tè freddo o aspetto che la minestra si riscaldi. Non vedo mai chi mi insegue, chi mi urla dietro. Non mi fermo mai abbastanza a lungo da poter mangiare il pane. E al mio risveglio, o quando mi riscuoto dal ricordo, mi sento formicolare le gambe.

2

ESTATE
Correva, trascinandomi con sé. Era molto piú grosso di me. I miei piedi quasi non toccavano terra. Le sirene strepitavano. Aveva i capelli rossi. Sfrecciammo per strade e vicoli. In lontananza si sentivano rimbombi come di tuono. I passanti che urtavamo sembravano non accorgersi di noi. Le sirene strillavano come neonati. Finalmente ci tuffammo in una cavità buia.
— Ti è andata bene — mi disse. — Fra poco saranno gli Stivaloni a darti la caccia, non le signore.
— Stivaloni? — dissi io.
— Aspetta e vedrai.
Mi chiesi chi fossero gli Stivaloni. Stivali senza piedi che correvano per le strade?
— Avanti — mi disse. — Dammelo.
— Darti cosa?
Mi infilò una mano dentro la camicia e tirò fuori la pagnotta. La spezzò a metà: me ne restituì mezza e cominciò a mangiare il resto.
— Sei fortunato che non ti strozzo — disse. — Ci avevo già messo gli occhi io, su questo pane.
— Sono fortunato — ripetei.
Ruttò. — Sei svelto. L'hai acchiappato prima che me ne fossi reso conto. Quella donna ha un sacco di soldi. Hai visto com'era vestita? Può comprarsene altre dieci, di pagnotte.
Mangiai il mio pane.
In lontananza, continuava a tuonare. — Che cos'è? — gli chiesi.
— L'artiglieria degli Stivaloni.
— Cos'è l'artiglieria?
— Cannoni. Buum buum. Bombardano la città. — Mi fissò. — Chi sei?
Non capii la domanda.
— Io mi chiamo Uri — disse lui. — E tu?
Così gli dissi il mio nome. — Ladro.

3

Mi fece conoscere gli altri. Erano in una stalla, insieme ai cavalli. Di solito i cavalli restavano in strada, ma adesso, a causa dei bombardamenti, per loro era piú sicuro rimanere al chiuso. Ci sedemmo vicino alle gambe di un cavallo grigio dall'aria triste. Quando questo fece la cacca, due ragazzi si alzarono e andarono nel box accanto, dove ce n'era un altro. Un momento dopo sentimmo uno scroscio sulla paglia, e i due tornarono. Uno disse: — Preferisco la cacca.
— Dove l'hai trovato? — chiese un ragazzo che fumava una sigaretta.
— Dalle parti del fiume — rispose Uri. — Ha fregato una pagnotta a una riccona appena uscita dal fornaio.
— E com'è che tu non l'hai fregata a lui? — chiese un altro, che fumava un sigaro lungo quanto la sua faccia.
Uri mi fissò. — Non lo so.
— È un nanerottolo — disse qualcuno. — Ma guardatelo.
— Tirati su — disse qualcun altro.
Io lanciai un'occhiata a Uri. Lui sollevò un dito. Mi alzai.
— Vai laggiú — disse qualcuno. Un piede mi centrò il didietro, spingendomi verso il cavallo.
— Visto? — disse il fumatore di sigaro. — Neanche gli arriva al culo.
Una voce dietro di me squittì: — Se resta lì, il cavallo gli fa un cappello nuovo!
Risero tutti, anche Uri. Fuori della stalla continuava a tuonare.
I ragazzi che non fumavano, mangiavano. In un angolo c'era una montagnola alta quanto me, fatta di pagnotte d'ogni forma e salsicce d'ogni dimensione e colore, frutta e dolci. Ma solo metà della montagnola era roba da mangiare. Al suo interno vidi scintillare un po' di tutto: orologi, pettini, rossetti, occhiali. Da un angolo faceva capolino il piccolo muso appiattito di una volpe.
— Come si chiama? — chiese qualcuno.
Uri mi fece un cenno. — Di' come ti chiami.
— Ladro — dissi io.
— Ehi, sa parlare! — sghignazzò qualcun altro.
Risero, sputando fumo dalla bocca.
Però un ragazzo non rideva. Aveva una sigaretta infilata dietro ciascun orecchio. — Secondo me è un idiota.
Un altro ragazzo si alzò e mi venne vicino. Si chinò. Mi annusò. Si tappò il naso. — Puzza. — Mi soffiò il fumo in faccia.
— Guardate! — gridò qualcuno. — Puzza tanto che perfino il fumo diventa verde!
Risero di nuovo.
Lo sputafumo indietreggiò. — Allora, Ladro, sei un idiota puzzolente?
Non sapevo che dire.
— È stupido — disse il ragazzo che non rideva. — Ci caccerà nei guai.
— È svelto — disse Uri. — Ed è piccolo.
— È un nanerottolo.
— Essere un nanerottolo ha i suoi vantaggi — replicò Uri.
Il ragazzo si chinò e mi guardò in faccia. — Sei un ebreo?
— Non lo so.
Mi tirò un calcio a un piede. — Come fai a non saperlo? O sei ebreo, o non lo sei.
Scrollai le spalle.
— Ve l'ho detto che è stupido — disse il ragazzo che non rideva.
— È piccolo — disse Uri. — Poco piú di un bambino.
— Quanti anni hai? — chiese lo sputafumo.
— Non lo so.
Lo sputafumo allargò le braccia. — Ma non sai niente?
— È stupido.
— Uno stupido ebreo.
— Uno stupido ebreo puzzolente.
— Un piccolo stupido ebreo puzzolente.
Altre risate. Ogni volta che ridevano, si lanciavano pezzi di cibo l'un l'altro, e ne tiravano anche al cavallo.
Lo sputafumo mi schiacciò il naso con la punta di un dito. — Sai fare questo? — Si piegò all'indietro a guardare il soffitto, aspirando la sigaretta fino a strabuzzare gli occhi. Sorrideva. Ero sicuro che mi avrebbe sparato contro tutto quel fumo, soffocandomi. Invece no. Si voltò verso il cavallo, gli sollevò la coda, e gli soffiò nel didietro un torrente di fumo argenteo. Il cavallo nitrì.
Risero tutti.
Anche il ragazzo che non rideva. Anch'io.
I tuoni lontani somigliavano al battito del mio cuore dopo una corsa.
— Dev'essere ebreo per forza — disse qualcuno.
— Cos'è un ebreo? — chiesi.
— Rispondete al nanerottolo — disse qualcuno. — Spiegategli cos'è un ebreo.
Il ragazzo che non rideva tirò un calcio alla paglia, lanciandola verso un ragazzo che ancora non aveva aperto bocca. Aveva un braccio solo. — Quello è un ebreo. — Si puntò il dito sul petto. — Io sono un ebreo. — Indicò gli altri. — Lui è un ebreo. E lui. E lui. — Indicò il cavallo. — E anche quello. — Si mise in ginocchio e frugò fra la paglia intorno alla cacca del cavallo. Trovò qualcosa e lo sollevò. Era un piccolo insetto marrone. — Questo è un ebreo. Guarda. Guarda! — Il suo impeto mi fece trasalire. — Un ebreo è una bestia. Un insetto. Meno di un insetto. — Gettò l'insetto nella cacca. — Quella è un ebreo.
Gli altri risero e batterono le mani.
— Giusto! Proprio così!
— Sono una cacca di cavallo!
— Sono una cacca d'oca!
Un ragazzo mi puntò contro il dito. — Sicuro che è un ebreo. Guardatelo. Ebreo da capo a piedi.
— Eccome. C'è dentro fino al collo.
Guardai il ragazzo che aveva parlato. Stava mangiando una salsiccia. — In cosa sono dentro? — gli chiesi.
Fece una smorfia. — In una babka alle fragole.
— Ci siamo dentro tutti — disse qualcun altro. — Ci siamo dentro tutti quanti.
— Parlate per voi — disse il ragazzo che non rideva. Mi si fermò davanti e tese una mano a toccare la pietra gialla che portavo appesa al collo con uno spago. — Questa cos'è?
— Non lo so — risposi.
— Dove l'hai presa?
— Ce l'ho da sempre.
Lasciò andare la pietra. Fece un passo indietro, si sputò sulle dita e mi strofinò una guancia. — È uno zingaro.
Esclamazioni stupite. Gli altri allungarono il collo per guardarmi meglio, senza smettere di mangiare e fumare.
— Come lo sai?
— Guardategli gli occhi. Come sono scuri. E la pelle. E questa. — Toccò di nuovo la pietra gialla.
— Uno zingaro, eh? — disse lo sputafumo.
La parola aveva un suono familiare. L'avevo già sentita attorno a me, in una stanza, accanto a un carro.
Annuii.
— Buttiamolo fuori — disse il mangiasalsiccia. — Non li vogliamo, gli zingari. Sono sporchi.
Lo sputafumo scoppiò a ridere. — Senti chi parla.
Il ragazzo senza un braccio parlò per la prima volta. — Dopo gli ebrei, sono gli zingari quelli che odiano di piú.
— È diverso — disse un altro. — Non tutti odiano gli zingari, ma tutti odiano noi. Nessun altro è odiato quanto noi. Ci odiano perfino a Washington America.
— Perché facciamo bollire i neonati e ce li mangiamo col matzoh! — ringhiò minaccioso qualcuno.
Tutti risero e si lanciarono cibo l'un l'altro.
— Beviamo il sangue dei cristiani!
— Gli infiliamo una cannuccia nel naso per succhiargli il cervello!
— Perfino i cannibali ci odiano!
— Perfino le scimmie!
— Perfino gli scarafaggi!
Parole e risate e pane e salsicce volavano in mezzo al fumo e fra le gambe del cavallo. Mani affondarono nel mucchio nell'angolo. Volarono braccialetti d'oro, vasetti di marmellata, animaletti dipinti e penne stilografiche. I fianchi del cavallo fremevano sotto il bombardamento. Un pesce di vetro bianco e porpora mi rimbalzò sulla fronte. Volò anche la pelliccia di volpe, un ragazzo la prese, se la mise sulle spalle e andò avanti e indietro sbaciucchiandole il muso.
Finché arrivò lo stalliere urlando come un ossesso, e noi tutti scappammo, disperdendoci come scarafaggi, e io seguii Uri, mentre i tuoni erano sempre piú forti e le nuvole marrone e nere.
Percorremmo trafelati strade e vicoli, fino al retro di un palazzetto di mattoni. Uri spalancò una specie di botola di legno e ci calammo in una cantina fresca e buia. Poi tirò giú la botola, cancellando la luce del giorno, e fece scattare un interruttore. Una lampadina nuda brillò fra le ragnatele del soffitto.
— Sopra c'è un negozio di barbiere — spiegò Uri. — Il barbiere se n'è andato, lasciando tutto quanto. Lo vedrai domani.
La cantina era una vera e propria casa. C'erano tappeti sul pavimento. Un letto, una sedia, una radio e un cassettone. Perfino una ghiacciaia.
— Stanotte dormi per terra — disse Uri. — Domani ti procuro un letto.
I tuoni cessarono, o forse non riuscivo piú a sentirli. Mangiammo pane e marmellata e pezzi di carne salata.
— In cosa sono dentro? — chiesi.
Non mi guardò. — L'hai sentito. Babka di fragole. Mangia.

4

Quando mi svegliai la mattina dopo Uri non c'era. Tornò con un materasso. Era piccolo, quasi la metà del suo, ma piú che sufficiente per me.
Mi ci stesi sopra, ma lui mi tirò su di peso dicendo: — Non ancora — e mi trascinò fuori.
Andammo nel quartiere commerciale, dove c'erano i negozi eleganti, solo che ora alcuni non erano piú così eleganti: i bombardamenti li avevano ridotti a cumuli di macerie. Guardando la strada, al posto dei negozi vedevi spazi vuoti simili a denti spezzati.
Sgusciammo dietro, nei vicoli pieni di camion, bidoni della spazzatura e gatti dagli occhi grandi. — Aspetta qui — disse Uri. Sparì in un dedalo di pozzi d'aerazione, uscite di sicurezza e porte sul retro, e ne riemerse con le braccia cariche di vestiti. — Per te — disse.
Tesi la mano.
— Aspetta. Seguimi.
Mi guidò in un edificio bombardato dov'era rimasto in piedi soltanto il muro posteriore. Ci arrampicammo su ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Epigrafe
  6. 1
  7. 2
  8. 3
  9. 4
  10. 5
  11. 6
  12. 7
  13. 8
  14. 9
  15. 10
  16. 11
  17. 12
  18. 13
  19. 14
  20. 15
  21. 16
  22. 17
  23. 18
  24. 19
  25. 20
  26. 21
  27. 22
  28. 23
  29. 24
  30. 25
  31. 26
  32. 27
  33. 28
  34. 29
  35. 30
  36. 31
  37. 32
  38. 33
  39. 34
  40. 35
  41. 36
  42. 37
  43. 38
  44. 39
  45. 40
  46. 41
  47. 42
  48. 43
  49. 44
  50. 45