Il generale nel suo labirinto
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Il generale nel suo labirinto

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il generale nel suo labirinto

Informazioni su questo libro

Non ancora vecchio ma stremato dalle malattie, dalle delusioni e dal tradimento, il generale Simón Bolívar, "el Libertador", l'uomo che ha scosso l'America Latina dal giogo spagnolo, rivive come in un sogno i giorni eroici delle sue battaglie e le appassionate notti dei suoi numerosi amori. Nel lungo viaggio che lo riporta nei luoghi che lo videro trionfatore, Bolívar, ormai morente e circondato solo da un pugno di seguaci, riflette sul fallimento dell'ideale che ha perseguitato per tutta la vita: l'unità politica delle terre che lui ha liberato e che gruppi di profittatori dominano ormai senza possibilità di riscatto. Un romanzo epico e drammatico, velato di una tristezza fatale e pervaso da un poetico senso di ineluttabilità del destino con il quale García Márquez rende onore al più illustre e sfortunato degli eroi del suo paese.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804555131

Il generale nel suo labirinto

Per Álvaro Mutis, che mi ha regalato l’idea di scrivere questo libro
«Sembra che il demonio guidi le cose della mia vita.»
Lettera a Santander, 4 agosto 1823
José Palacios, il suo domestico più antico, lo trovò che galleggiava sulle acque depurative della vasca da bagno, nudo e con gli occhi aperti, e credette che fosse annegato. Sapeva che era uno dei suoi molti sistemi per meditare, ma lo stato di estasi in cui giaceva alla deriva sembrava quello di chi non appartiene più a questo mondo. Non si azzardò ad avvicinarsi, ma lo chiamò con voce sorda secondo l’ordine di svegliarlo quando non fossero ancora le cinque per mettersi in marcia alle prime luci. Il generale emerse dalla malia, e vide nella penombra gli occhi azzurri e diafani, i capelli crespi color scoiattolo, la maestà impavida del suo maggiordomo di tutti i giorni che reggeva in mano la ciotola dell’infuso di papavero con gomma arabica. Il generale strinse senza forza le anse della vasca da bagno, ed emerse dalle acque medicinali in uno slancio da delfino che non ci si sarebbe aspettati da un corpo così infiacchito.
«Andiamocene» disse. «Di fretta, che qui non ci vuole nessuno.»
José Palacios gliel’aveva udito dire così tante volte e in circostanze così diverse, che non credette ancora che fosse vero, sebbene le bestie da soma fossero pronte nelle stalle e la comitiva ufficiale stesse riunendosi. Lo aiutò ad asciugarsi alla bell’e meglio, e gli infilò il poncho degli altipiani sul corpo nudo, perché la tazza gli oscillava per via del tremito alle mani. Qualche mese prima, mettendosi un paio di pantaloni di daino che non aveva più indossato dopo le notti babiloniche di Lima, lui aveva scoperto che a mano a mano che calava di peso diminuiva di statura. Anche la sua nudità era diversa, perché aveva il corpo pallido e la testa e le mani come abbrustolite dall’abuso delle intemperie. Aveva compiuto quarantasei anni il precedente mese di luglio, ma ormai i suoi aspri riccioli caraibici erano divenuti cinerognoli e aveva le ossa sconquassate dalla decrepitudine prematura, e lui tutto aveva un aspetto così smunto che non sembrava capace di durare fino al luglio successivo. Tuttavia, i suoi gesti risoluti sembravano di un’altra persona meno bistrattata dalla vita, e camminava senza tregua intorno a nulla. Bevve la tisana in cinque sorsate brucianti che per poco non gli ustionarono la lingua, fuggendo dalle sue stesse tracce di acqua sulle stuoie sfilacciate sopra il pavimento, e fu come se avesse bevuto il filtro della resurrezione. Ma non disse una parola finché non risuonarono le cinque al campanile della vicina cattedrale.
«Sabato 8 maggio dell’anno trenta, giorno in cui gli inglesi centrarono con una freccia Giovanna d’Arco» annunciò il maggiordomo. «Sta piovendo dalle tre di notte.»
«Dalle tre di notte del secolo diciassettesimo» disse il generale con voce ancora turbata dal fiato acre dell’insonnia. E aggiunse con serietà: «Non ho udito i galli».
«Qui non ci sono galli» disse José Palacios.
«Non c’è nulla» disse il generale. «È terra di infedeli.»
Si trovavano a Santa Fe de Bogotá, a duemilaseicento metri sul livello del mare remoto, e l’enorme alcova dalle pareti aride, esposta ai venti gelidi che si insinuavano attraverso le finestre chiuse male, non era la più propizia per la salute di nessuno. José Palacios posò il bacile di schiuma sul marmo della toeletta, e l’astuccio di velluto rosso con gli strumenti per radersi, tutti di metallo dorato. Posò la bugia con la candela sopra un ripiano accanto allo specchio, affinché il generale avesse abbastanza luce, e avvicinò il braciere per riscaldarsi i piedi. Poi gli tese certi occhiali dalle lenti quadrate con una montatura d’argento fino, che teneva sempre per lui nella tasca del panciotto. Il generale se li infilò e si rase guidando il rasoio con pari destrezza nella mano sinistra come nella destra, perché era di natura ambidestro, e con un dominio stupefacente dello stesso polso che qualche minuto prima gli era servito per reggere la tazza. Finì per radersi alla cieca senza smettere di aggirarsi nella stanza, poiché faceva in modo di vedersi allo specchio il meno possibile per non ritrovarsi nei propri occhi. Poi si tirò via a strappi i peli dal naso e dalle orecchie, si nettò i denti perfetti con polvere di carbone su uno spazzolino di seta dal manico d’argento, si tagliò e si pulì le unghie delle mani e dei piedi, e infine si tolse il poncho e si versò addosso un grande flacone di acqua di Colonia, frizionandosi con entrambe le mani il corpo intero fino a rimanere esausto. In quell’alba officiava la messa quotidiana della pulizia con una crudeltà più frenetica del consueto, cercando di purificare il corpo e l’anima da vent’anni di guerre inutili e di disinganni del potere.
L’ultima visita che aveva ricevuto la sera prima era stata quella di Manuela Sáenz, l’agguerrita donna di Quito che lo amava, ma che non l’avrebbe seguito fino alla morte. Si limitava, come sempre, all’incombenza di tenere il generale ben informato su tutto quanto accadeva in sua assenza, perché da molto tempo lui si fidava solo di lei. Le lasciava in custodia certe reliquie senz’altro valore che quello di essere state sue, così come certi suoi libri più pregiati e due bauli di archivi personali. Il giorno prima, durante il breve congedo formale, le aveva detto: «Ti amo molto, ma di più ti amerò se adesso avrai più giudizio che mai». Lei l’intese come uno dei tanti omaggi che lui le aveva fatto in otto anni di amori febbrili. Fra tutti i suoi conoscenti lei era l’unica a credergli: questa volta era vero che se ne andava. Ma era pure l’unica che aveva almeno un motivo sicuro per sperare che tornasse.
Non pensavano di rivedersi prima del viaggio. Tuttavia donna Amalia, la padrona di casa, volle offrir loro il regalo di un ultimo addio furtivo, e fece entrare Manuela vestita da amazzone dal portone delle stalle beffandosi dei pregiudizi della bigotta comunità locale. Non perché fossero amanti clandestini, visto che lo erano alla luce del sole e con pubblico scandalo, ma per conservare a tutti i costi il buon nome della casa. Lui fu ancora più prudente, perché ordinò a José Palacios di non chiudere l’uscio della sala attigua, che era un punto di transito obbligato per la servitù domestica, e dove gli aiutanti di campo addetti alla guardia giocarono a carte fino a molto dopo che la visita fu terminata.
Manuela passò due ore a leggere per lui. Era stata giovane fino a poco tempo prima, quando le sue carni cominciarono a essere vinte dall’età. Fumava una pipa da marinaio, si profumava con acqua di verbena che era una lozione da militari, si vestiva da uomo e girava fra i soldati, ma la sua voce afona faceva sempre effetto nelle penombre dell’amore. Leggeva alla luce povera della candela, seduta su una poltrona che recava ancora lo stemma dell’ultimo viceré, e lui l’ascoltava disteso sul dorso sopra il letto, con gli abiti da borghese che indossava in casa e coperto dal poncho di vigogna. Solo dal ritmo del respiro si capiva che non era addormentato. Il libro si intitolava Compendio di notizie e voci che si diffusero a Lima nell’anno di grazia 1826, del peruviano Noé Calzadillas, e lei lo leggeva con enfasi teatrale che si addiceva benissimo allo stile dell’autore.
Nell’ora successiva non si udì che la sua voce nella casa addormentata. Ma dopo l’ultima ronda esplose d’improvviso una risata unanime di molti uomini, che causò lo schiamazzo dei cani dell’isolato. Lui aprì gli occhi, più incuriosito che inquieto, e lei chiuse il libro contro il seno, segnando la pagina col pollice.
«Sono i suoi amici» gli disse.
«Non ho amici» disse lui. «E se ne rimane qualcuno sarà per breve tempo.»
«Ma sono lì fuori, che vegliano affinché non l’ammazzino» disse lei.
Fu così che il generale venne a sapere quanto tutta la città sapeva: non uno bensì parecchi attentati si stavano tramando contro di lui, e i suoi ultimi sostenitori vigilavano in casa per tentare di sventarli. L’atrio e le verande del giardino interno erano occupati dagli ussari e dai granatieri, tutti venezuelani, che l’avrebbero accompagnato fino al porto di Cartagena de Indias, dove sarebbe salito su un veliero per l’Europa. Due di questi avevano steso le loro stuoie per coricarsi dinanzi all’uscio principale dell’alcova, e gli aiutanti di campo avrebbero continuato a giocare nel salotto attiguo quando Manuela avesse finito di leggere, ma non erano tempi buoni per essere sicuri di nulla in mezzo a tanta gente di truppa dall’origine incerta e di diversa indole. Senza scomporsi per le brutte notizie, con un cenno della mano lui ordinò a Manuela di continuare a leggere.
Aveva sempre considerato la morte un rischio professionale inevitabile. Aveva fatto tutte le sue guerre in prima linea, senza riportare neppure un graffio, e si muoveva in mezzo al fuoco nemico con una serenità così folle che persino i suoi ufficiali si erano abituati alla spiegazione facile secondo cui si credeva invulnerabile. Era uscito illeso da tutti gli attentati che gli avevano ordito contro, e in parecchi si era salvato la vita perché non stava dormendo nel suo letto. Girava senza scorta, e mangiava e beveva senza preoccuparsi di quanto gli offrivano ovunque si trovasse. Solo Manuela sapeva che il suo disinteresse non era incoscienza né fatalismo, ma la certezza malinconica che sarebbe morto nel suo letto, povero e nudo, e senza il conforto della gratitudine pubblica.
L’unico mutamento di spicco che inserì fra i riti dell’insonnia quella notte di vigilia, fu non fare il bagno caldo prima di mettersi a letto. José Palacios gliel’aveva preparato di buonora con acqua di foglie medicinali per rinvigorire il corpo e facilitare l’espettorazione, e lo conservò a giusta temperatura in previsione di quando lui l’avrebbe richiesto. Ma non lo richiese. Inghiottì due pillole lassative per la consueta stitichezza, e si accinse a dormicchiare ninnato dai pettegolezzi galanti di Lima. D’improvviso, senza motivo apparente, lo colse un accesso di tosse che sembrò scuotere le fondamenta della casa. Gli ufficiali che giocavano nel salotto attiguo rimasero col respiro mozzo. Uno di loro, l’irlandese Belford Hinton Wilson, si affacciò alla camera da letto nel caso che avessero avuto bisogno di lui, e vide il generale prono di traverso sul letto, che cercava di vomitare le budella. Manuela gli reggeva il capo sopra il catino. José Palacios, l’unico autorizzato a entrare nella camera senza bussare, rimase accanto al letto in stato di allarme finché la crisi non fu passata. Allora il generale respirò a fondo con gli occhi pieni di lacrime, e indicò la toeletta.
«È per via di quei fiori da sepolcro» disse.
Come sempre, perché sempre trovava un colpevole imprevisto delle sue disgrazie. Manuela, che lo conosceva meglio di chiunque, fece segno a José Palacios di portare via il vaso con le tuberose appassite del mattino. Il generale si stese di nuovo sul letto a occhi chiusi, e lei ricominciò la lettura con lo stesso tono di prima. Solo quando le sembrò che avesse preso sonno ripose il libro sul comodino, gli diede un bacio sulla fronte bruciante di febbre, e sussurrò a José Palacios che a partire dalle sei di mattina si sarebbe trovata per un ultimo commiato all’incrocio di Cuatro Esquinas, dove cominciava la strada maestra per Honda. Poi si avvolse in una mantella da campagna e uscì in punta di piedi dalla camera da letto. Allora il generale aprì gli occhi e disse con voce tenue a José Palacios:
«Di’ a Wilson che l’accompagni fino a casa.»
L’ordine fu osservato contro la volontà di Manuela, che si credeva capace di accompagnarsi da sola meglio che con un picchetto di lanceri. José Palacios la precedette con un candeliere fino alle stalle, attorno a un giardino interno con una fontana di pietra, dove cominciavano a schiudersi le prime tuberose dell’alba. La pioggia fece una pausa e il vento smise di fischiare tra gli alberi, ma non c’era neppure una stella nel cielo gelido. Il colonnello Belford Wilson ripeteva la parola d’ordine di quella notte per tranquillizzare le sentinelle distese sulle stuoie della veranda. Passando davanti alla finestra della sala principale, José Palacios vide il padrone di casa servire il caffè al gruppo di amici, militari e civili, che si accingevano a vegliare fino al momento della partenza.
Quando fu tornato nell’alcova trovò il generale in preda al delirio. Lo udì pronunciare frasi sconnesse che si riassumevano in una sola: «Nessuno ha capito nulla». Il corpo ardeva nel rogo della febbre, e mollava certe ventosità pietrose e fetide. Lo stesso generale non avrebbe saputo dire il giorno dopo se stava parlando da addormentato o se delirava da sveglio, né avrebbe potuto ricordarlo. Era quanto lui chiamava «le mie crisi di demenza». Che ormai non allarmavano nessuno, perché da oltre quattro anni ne soffriva, senza che un solo medico si fosse azzardato ad avanzare una qualche spiegazione scientifica, e il giorno dopo lo si vedeva risorgere dalle sue ceneri con la ragione intatta. José Palacios lo avvolse in una coperta, lasciò il lume acceso sul marmo della toeletta, e uscì dalla stanza senza chiudere l’uscio per continuare a vegliare nella sala attigua. Sapeva che lui si sarebbe ripreso a un’ora qualsiasi dell’alba, e che si sarebbe cacciato nelle acque rigide della vasca da bagno tentando di recuperare le forze smarrite nell’orrore degli incubi.
Era la fine di una giornata fragorosa. Una guarnigione di settecentottantanove ussari e granatieri si era ribellata, col pretesto di reclamare il pagamento di tre mesi di stipendi arretrati. Il motivo autentico fu un altro: la maggior parte di loro era del Venezuela, e molti avevano fatto le guerre di liberazione di quattro nazioni, ma durante le ultime settimane erano stati vittime di così tanti vituperi e di così tante provocazioni per le vie, che avevano motivo di temere per la loro sorte dopo che il generale se ne fosse andato dal paese. Il conflitto si acquietò grazie al pagamento delle provvigioni e di mille pesos d’oro, invece dei settantamila che gli insorti chiedevano, e questi si erano avviati all’imbrunire verso la loro terra di origine, seguiti da una ressa di donne addette ai bagagli, con i bambini e gli animali domestici. Lo strepito delle grancasse e degli ottoni marziali non riuscì a zittire le folle che aizzavano cani contro di loro e tiravano sfilze di salterelli per far perdere ritmo al loro passo, come non avevano mai fatto con una truppa nemica. Undici anni prima, al termine di tre secoli lunghi di dominazione spagnola, il feroce viceré don Juan Sámano era fuggito lungo quelle stesse vie mascherato da pellegrino, ma con i suoi bauli colmi di idoli d’oro e di smeraldi ancora da sgrezzare, di tucani sacri, di teche raggianti di farfalle di Muzo, e non mancò chi lo piangeva dai balconi e gli lanciava un fiore e gli augurava di tutto cuore un mare tranquillo e un felice viaggio.
Il generale aveva partecipato in segreto ai negoziati del conflitto, senza muoversi dalla casa che gli avevano prestato e che apparteneva al ministro della Guerra e della Marina, e infine aveva mandato con la truppa ribelle il generale José Laurencio Silva, suo nipote di acquisto e aiutante di massima fiducia, come pegno che non ci sarebbero stati nuovi intralci sino alla frontiera col Venezuela. Non vide la sfilata sotto il suo balcone, ma aveva udito le chiarine e i tamburi, e l’assembramento della gente accalcata nella via, le cui grida non riuscì a capire. Vi attribuì così poca importanza, che nel frattempo controllò con i suoi amanuensi la corrispondenza in ritardo, e dettò una lettera per il Gran Maresciallo don Andrés de Santa Cruz, presidente della Bolivia, nella quale gli annunciava le sue dimissioni dal potere, ma non si mostrava troppo sicuro che il suo viaggio avrebbe avuto per meta l’estero. «Non scriverò più lettere per il resto della mia vita» disse quando l’ebbe finita. In seguito, mentre sudava la febbre della siesta, si infilarono nel suo sonno i clamori di tumulti lontani, e si svegliò scosso da una scia di petardi che potevano essere sia di insorti sia di pirotecnici. Ma quando lo domandò gli risposero che era la festa. Proprio così: «È la festa, signor generale». Senza che nessuno, neppure lo stesso José Palacios, si azzardasse a spiegargli di quale festa si trattava.
Solo quando Manuela glielo raccontò durante la visita di quella sera seppe che erano i suoi nemici politici, quelli del partito demagogo, come lui diceva, che giravano per le vie spingendo contro di lui le maestranze di artig...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il generale nel suo labirinto
  4. Ringraziamenti
  5. Breve cronologia di Simón Bolívar
  6. Cartina schematica dell’ultimo viaggio di Bolívar, 1830
  7. Copyright