
- 176 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Foglie morte
Informazioni su questo libro
Mirabili racconti che contengono gli elementi storici e mitici del microcosmo di Macondo, la città-simbolo di Cent'anni di solitudine.
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Informazioni
1
Per la prima volta ho visto un cadavere. È mercoledì, ma mi sento come se fosse domenica perché non sono andato a scuola e mi hanno messo questo vestito di velluto verde che mi stringe qua e là. Per mano alla mamma, seguendo il nonno che scandaglia col bastone a ogni passo per non inciampare nelle cose (non ci vede bene nella penombra, e zoppica) sono passato di fronte alla specchiera del salotto e mi sono visto tutto intero, vestito di verde e con questo fiocco bianco inamidato che mi stringe da una parte del collo. Mi sono visto nella tonda specchiera macchiata e ho pensato: “Quello sono io, come se oggi fosse domenica”.
Siamo venuti nella casa dove c’è il morto.
Il calore è soffocante nella stanza chiusa. Si sente il ronzio del sole per le strade, ma nient’altro. L’aria è stagnante, concreta; si ha l’impressione di poterla torcere come una lamina d’acciaio. Nella camera dove hanno messo il cadavere, puzza di bauli; ma non ne vedo. C’è un’amaca nell’angolo, appesa all’anello di ferro per una delle estremità. C’è un odore di mondezza. E credo che le cose sconquassate e quasi sfatte che ci circondano abbiano l’aspetto delle cose che devono puzzare di mondezza anche se in realtà hanno un altro odore.
Ho sempre creduto che i morti dovessero portare il cappello. Adesso vedo che no. Vedo che hanno la testa ferrigna e un fazzoletto legato intorno alla mandibola. Vedo che hanno la bocca socchiusa e che si vedono, dietro le labbra viola, i denti macchiati e irregolari. Vedo che hanno la lingua addentata da una parte, grossa e pastosa, un po’ più scura del colore della faccia, che è come quello delle dita quando le si stringe con una filaccia. Vedo che hanno gli occhi aperti, molto più di quelli di un uomo; ansiosi e spalancati e che la pelle sembra di terra compatta e umida. Credevo che un morto sembrasse una persona tranquilla e addormentata e ora vedo che è tutto il contrario. Vedo che sembra una persona sveglia e rabbiosa dopo un litigio.
Anche la mamma si è vestita come se fosse domenica. Si è messa il vecchio cappellino di paglia che le copre le orecchie, e un vestito nero, chiuso di sopra, con maniche fino ai polsi. Siccome oggi è mercoledì, la vedo lontana, sconosciuta, e ho l’impressione che voglia dirmi qualcosa mentre il nonno si alza per ricevere gli uomini che hanno portato la bara. La mamma è seduta accanto a me, di schiena alla finestra sbarrata. Respira affannosamente e di continuo si accomoda i capelli scomposti che le escono da sotto il cappellino infilato di fretta. Il nonno ha ordinato agli uomini di mettere la bara vicino al letto. Solo allora mi sono reso conto che il morto ce la fa a starci dentro. Quando gli uomini hanno portato la cassa ho avuto l’impressione che fosse troppo piccola per un corpo che occupa tutta la lunghezza del letto.
Non so perché mi hanno portato qui. Non ero mai entrato in questa casa e credevo addirittura che fosse disabitata. È una casa grande, che fa angolo, le cui porte, credo, non sono mai state aperte. Ho sempre creduto che la casa fosse vuota. Solo adesso, dopo che la mamma mi ha detto: «Questo pomeriggio non andrai a scuola», e io non ho provato allegria perché l’aveva detto con la voce grave e riservata; e l’ho vista tornare col mio vestito di velluto e me l’ha messo senza parlare e siamo usciti sulla soglia a raggiungere il nonno; e abbiamo camminato lungo le tre case che separano questa dalla nostra, solo adesso mi sono reso conto che qualcuno abitava qui dentro. Qualcuno che è morto e che dev’essere l’uomo cui si riferiva mia madre quando ha detto: «Devi essere molto giudizioso al funerale del dottore».
Appena entrato non ho visto il morto. Ho visto il nonno sulla soglia, che parlava con gli uomini, e l’ho visto dopo mentre ci dava l’ordine di andare avanti. Ho creduto allora che ci fosse qualcuno nella stanza, ma entrando l’ho sentita buia e vuota. Il caldo mi ha colpito in faccia fin dal primo momento e ho sentito quest’odore di mondezza che era solido e persistente all’inizio e che ora, come il caldo, arriva a ondate regolari e scompare. La mamma mi ha guidato per mano attraverso la stanza buia e mi ha fatto sedere accanto a lei, in un angolo. Solo dopo un momento ho cominciato a distinguere le cose. Ho visto il nonno che cercava di aprire una finestra che sembra incastrata nei suoi bordi, saldata al legno dell’intelaiatura, e l’ho visto che dava bastonate contro i saliscendi, con la giacca piena di polvere che si sprigionava a ogni scossa. Ho girato la faccia lì dove si è diretto il nonno quando si è dichiarato incapace di aprire la finestra e solo allora ho visto che c’era qualcuno sul letto. C’era un uomo scuro, teso, immobile. Allora ho fatto girare la testa dalla parte della mamma, che rimaneva distante e seria, guardando da un’altra parte della stanza. Siccome i piedi non mi arrivano fino al suolo ma restano sospesi per aria, a un quarto dal pavimento, ho infilato le mani sotto le cosce, con i palmi appoggiati contro il sedile, e mi sono messo a dondolare le gambe, senza pensare a niente, fin quando non mi sono ricordato che la mamma mi aveva detto: «Devi essere molto giudizioso al funerale del dottore». Allora ho sentito un po’ di freddo alla schiena, mi sono girato a guardare e ho visto solo la parete di legno secco e rugoso. Ma è stato come se qualcuno mi avesse detto dalla parete: “Non muovere le gambe, che l’uomo che sta sul letto è il dottore ed è morto”. E quando ho guardato verso il letto, non l’ho più visto come prima. Non l’ho più visto coricato ma morto.
Da quel momento, per quanto mi sforzi per non guardarlo, sento come se qualcuno mi spingesse la faccia da quella parte. E sebbene faccia sforzi per guardare verso altri punti della stanza, lo vedo comunque, dappertutto, con gli occhi spalancati e la faccia verde e morta nell’oscurità.
Non so perché non è venuto nessuno al funerale. Sono venuti il nonno, la mamma e i quattro indiani guajiros che lavorano per il nonno. Gli uomini hanno portato un sacco di calce e l’hanno vuotato nella bara. Se mia madre non fosse strana e distratta, le chiederei perché lo fanno. Non capisco perché debbano buttare calce nella cassa. Quando il sacco è rimasto vuoto, uno degli uomini lo ha scosso sopra la bara e sono caduti alcuni ultimi trucioli, più simili alla segatura che alla calce. Hanno sollevato il morto per le spalle e per i piedi. Porta un paio di pantaloni comuni, stretti alla vita da una cintura larga e nera, e una camicia grigia. Ha infilata solo la scarpa sinistra. È, come dice Ada, con un piede in paradiso e l’altro in purgatorio. La scarpa destra è finita a un’estremità del letto. Nel giaciglio sembrava che il morto ci stesse a stento. Nella bara sembra più comodo, più tranquillo, e la faccia, che era quella di un uomo vivo e vegeto dopo un litigio, ha acquistato un aspetto riposato e sicuro. Il profilo diventa dolce; ed è come se lì, nella cassa, si sentisse ormai nel posto che gli spetta in quanto morto.
Il nonno si è messo a girare per la stanza. Ha raccattato qualche oggetto e lo ha messo nella cassa. Ho guardato di nuovo la mamma con la speranza che mi dica perché il nonno sta buttando cose nella bara. Ma mia madre è sempre imperturbabile nel suo vestito nero, e sembra sforzarsi per non guardare verso il punto dove c’è il morto. Anch’io voglio farlo, ma non ci riesco. Lo guardo fisso, lo esamino. Il nonno butta un libro nella bara, fa un cenno agli uomini e tre di loro sistemano il coperchio sul cadavere. Solo allora mi sento libero dalle mani che mi spingevano la testa da quella parte e comincio a esaminare la stanza.
Guardo di nuovo mia madre. Lei, per la prima volta da quando siamo entrati in questa casa, mi guarda e sorride con un sorriso forzato, senza alcunché dentro; e sento in lontananza il fischio del treno che si perde dietro l’ultima curva. Sento un rumore nell’angolo dove c’è il cadavere. Vedo che uno degli uomini solleva un’estremità del coperchio, e che il nonno introduce nella bara la scarpa del morto, quella che avevano dimenticato sul letto. Fischia di nuovo il treno, sempre più lontano, e penso d’improvviso: “Sono le due e mezza”. E ricordo che a quest’ora (mentre il treno fischia all’ultima curva del villaggio) i ragazzi stanno mettendosi in fila a scuola per assistere alla prima lezione del pomeriggio.
“Abraham” penso.
Non avrei dovuto portare il bambino. Non gli si confà questo spettacolo. Persino a me, che sto per compiere trent’anni, nuoce quest’ambiente rarefatto dalla presenza del cadavere. Potremmo andarcene ora. Potremmo dire a papà che non ci sentiamo bene in una stanza dove si sono accumulati, per diciassette anni, i detriti di un uomo svincolato da tutto quello che può essere considerato affetto o riconoscenza. Forse è stato mio padre l’unica persona che ha provato per lui una certa simpatia. Un’inspiegabile simpatia che adesso gli serve per non marcire fra queste quattro pareti.
Mi preoccupa il ridicolo che c’è in tutto questo. Mi inquieta l’idea che usciremo in strada, fra un momento, dietro una bara che a nessuno ispirerà un sentimento diverso dalla compiacenza. Immagino l’espressione delle donne alle finestre, vedendo passare mio padre, vedendomi passare col bambino dietro una cassa mortuaria nel cui interno sta marcendo l’unica persona che il villaggio ha desiderato vedere così, condotta al cimitero in mezzo a un implacabile abbandono, seguita dalle tre persone che hanno deciso di compiere l’opera di misericordia che sarà l’inizio della loro vergogna. È possibile che questa decisione di papà sia la causa per cui un domani non si troverà anima viva disposta a seguire il nostro funerale.
Forse per questo ho portato il bambino. Quando papà mi ha detto, un momento fa: “Deve accompagnarmi”, la prima cosa che ho pensato è stata di portare anche il bambino per sentirmi protetta. Ora siamo qui, in questo soffocante pomeriggio di settembre, e ci accorgiamo che le cose che ci circondano sono gli agenti spietati dei nostri nemici. Papà non ha motivo di preoccuparsi. In realtà ha passato la vita a far cose come questa; a buttare sterco in faccia al villaggio, a mantenere le sue più insignificanti promesse a discapito di ogni convenienza. Venticinque anni fa, quando quest’uomo arrivò nella nostra casa, papà avrebbe dovuto immaginare (notando i modi assurdi dell’ospite) che oggi non ci sarebbe stata nel villaggio una sola persona disposta anche solo a buttare il cadavere in pasto agli avvoltoi. Forse papà aveva previsto ogni ostacolo, misurato e calcolato i possibili inconvenienti. E adesso, venticinque anni dopo, deve accorgersi che questo è solo il compimento di un’opera lungamente premeditata, che avrebbe portato a termine comunque, avesse anche dovuto trascinare lui stesso il cadavere per le vie di Macondo.
Eppure, arrivato il momento, non ha avuto il coraggio di farlo da solo e mi ha costretta a partecipare a quest’intollerabile patto che ha dovuto stipulare molto prima che io avessi l’uso della ragione. Quando mi ha detto: “Deve accompagnarmi” non mi ha dato il tempo di pensare alla portata delle sue parole; non ho potuto calcolare tutto il ridicolo e la vergogna che c’è in questo voler seppellire un uomo che tutta la gente ha atteso di veder trasformato in polvere nella sua tana. Perché la gente non aveva atteso solo questo, ma si era preparata affinché le cose succedessero in questo modo e l’aveva sperato di tutto cuore, senza rimorsi e persino con la soddisfazione anticipata di sentire un giorno il grato odore della sua decomposizione, fluttuante sul villaggio, senza che chicchessia si sentisse commosso, allarmato o scandalizzato, ma soddisfatto di veder giunto il momento agognato, augurandosi che la situazione si prolungasse fin quando il contorto odore del cadavere non avesse saziato persino i più reconditi risentimenti.
Adesso noi priveremo Macondo di un piacere a lungo bramato. È come se, in un certo qual modo, questa nostra decisione facesse nascere nel cuore della gente, non il malinconico sentimento di una frustrazione, ma quello di un rinvio.
Anche per questo avrei dovuto lasciare il bambino a casa; per non comprometterlo in questo complotto che ora si accanirà contro di noi come lo ha fatto contro il dottore per dieci anni. Il bambino avrebbe dovuto restare al margine di questa promessa. Non sa neppure perché è qui, perché l’abbiamo portato in questa stanza piena di macerie. È lì silenzioso, perplesso, come se aspettasse che qualcuno gli spieghi il significato di tutto questo; come se attendesse, seduto, dondolando le gambe e con le mani appoggiate sulla seggiola, che qualcuno gli decifri questo spaventoso enigma. Desidero solo essere sicura che nessuno lo faccia; che nessuno apra quella porta invisibile che gli impedisce di penetrare oltre la portata dei suoi sensi.
Più volte mi ha guardata e io so che mi ha vista strana, sconosciuta, con questo vestito accollato e questo vecchio cappellino che mi sono messa, per non essere identificata neanche dai miei stessi presentimenti.
Se Meme fosse viva, qui in casa, forse sarebbe diverso. Si potrebbe credere che sono venuta per lei. Si potrebbe credere che sono venuta per partecipare a un dolore che lei non avrebbe provato, ma che avrebbe potuto fingere e che il villaggio avrebbe potuto spiegarsi. Meme è scomparsa circa undici anni fa. La morte del dottore mette fine alla possibilità di conoscere il suo domicilio, o, almeno, il domicilio delle sue ossa. Meme non è qui, ma è probabile che se ci fosse – se non fosse successo quello che è successo e che non si è mai potuto chiarire – si sarebbe schierata dalla parte del villaggio e contro l’uomo che per sei anni scaldò il suo letto con l’amore e l’umanità con cui avrebbe potuto farlo un mulo.
Sento fischiare il treno all’ultima curva. “Sono le due e mezza” penso; e non riesco ad allontanare l’idea che a quest’ora tutta Macondo segue quello che facciamo in questa casa. Penso alla signora Rebeca, magra e incartapecorita, con un che di un fantasma domestico nello sguardo e nel vestire, seduta vicino al ventilatore elettrico e col volto ombreggiato dalle grate delle sue finestre. Mentre sente il treno che si perde dietro l’ultima curva, la signora Rebeca china la testa verso il ventilatore, tormentata dalla temperatura e dal risentimento, con gli aspi del suo cuore che girano come le pale del ventilatore (ma in senso contrario) e mormora: “Qui il diavolo ci ha messo lo zampino” e rabbrividisce, legata alla vita dalle minuscole radici del quotidiano.
E Águeda, la paralitica, vedendo Solita che torna dalla stazione dopo aver salutato il suo fidanzato; vedendola aprire il parasole mentre sparisce dietro la cantonata deserta; sentendola avvicinarsi col giubilo sessuale che lei stessa ha provato un giorno e che le si è tramutato in quella paziente infermità religiosa che le fa dire: “Sguazzerai nel letto come un maiale nel suo mondezzaio”.
Non riesco ad abbandonare quest’idea. Non pensare che sono le due e mezza; che passa la mula della posta avvolta in un polverone rovente, seguita dagli uomini che hanno interrotto la siesta del mercoledì per ricevere il pacchetto dei giornali. Padre Ángel, seduto, dorme nella sacrestia, con un breviario aperto sul ventre adiposo, sentendo passare la mula della posta, scacciando le mosche che gli tormentano il sonno, ruttando, dicendo: “Mi avveleni con le tue polpette”.
Papà ha una buona dose di sangue freddo per tutto questo. Persino per ordinare che scoperchino la bara e ci infilino la scarpa dimenticata sul letto. Solo lui poteva interessarsi alla volgarità di quest’uomo. Non mi stupirebbe se quando usciremo col cadavere la folla ci starà aspettando sulla soglia con gli escrementi accumulati durante la notte e ci sommergerà di immondizie per aver interferito nella volontà del villaggio. Forse trattandosi di papà non lo faranno. Forse lo faranno trattandosi di una cosa così indegna come il voler sottrarre al villaggio un piacere a lungo agognato, immaginato durante molti pomeriggi soffocanti, ogni volta che uomini e donne passavano davanti questa casa e si dicevano: “Prima o poi pranzeremo con quest’odore”. Perché questo dicevano tutti, dalla prima casa fino all’ultima.
Fra un momento saranno le tre. La Signorina lo sa già. La signora Rebeca l’ha vista passare e l’ha chiamata, invisibile dietro la grata, ed è uscita per un istante dall’orbita del ventilatore e le ha detto: “Signorina è il diavolo. Lei m’intende”. E domani non sarà più mio figlio quello che andrà a scuola, ma un altro bambino completamente diverso; un bambino che crescerà, si riprodurrà, e alla fine morirà, senza che nessuno abbia per lui un debito di gratitudine che gli assicuri di essere sepolto da cristiano.
Ora io me ne starei in casa, tranquilla, se venticinque anni fa non fosse venuto quest’uomo da mio padre con una lettera di raccomandazione che nessuno ha mai saputo da dove venisse, e non si fosse fermato fra di noi, cibandosi d’erba e guardando le donne con quegli avidi occhi da cane che gli sono schizzati dalle orbite. Ma il mio castigo era scritto fin da prima della mia nascita ed era rimasto occulto, represso, fino a quel letale anno bisestile in cui ne avrei compiuti trenta dalla mia nascita e mio padre mi avrebbe detto: “Deve accompagnarmi”. E poi, prima che io avessi il tempo di chiedere, battendo sul pavimento col bastone: “Dobbiamo sbrigarcela comunque, figliola. Il dottore si è impiccato all’alba”.
Gli uomini sono usciti e sono tornati nella stanza con un martello e una cassetta di chiodi. Ma non hanno inchiodato la bara. Hanno posato le cose sul tavolo e si sono seduti sul letto dove c’era il morto. Il nonno sembra calmo, ma la sua calma è imperfetta e disperata. Non è la calma del cadavere nella bara, ma quella di un uomo impaziente che si sforza per non sembrarlo. È una calma insolita e ansiosa quella del nonno mentre si aggira per la stanza, zoppicando, rimuovendo gli oggetti ammucchiati.
Quando scopro che ci sono mosche nella stanza comincia a torturarmi l’idea che la bara sia rimasta piena di mosche. Non l’hanno ancora inchiodata, ma mi sembra che quel ronzio che all’inizio ho confuso col rumore di un ventilatore elettrico nelle vicinanze, sia lo sciame di mosche che cozzano, cieche, contro le pareti della bara e la faccia del morto. Scuoto il capo; chiudo gli occhi; vedo il nonno che apre un baule e tira fuori cose che non riesco a distinguere; vedo sul letto le quattro braci senza alcuna sigaretta accesa. Infastidito dal calore soffocante, dal minuto che non trascorre, dal ronzio delle mosche, mi sembra che qualcuno mi dica: “Finirai così. Finirai in una bara piena di mosche. Vai appena per gli undici anni, ma un giorno finirai così, abbandonato alle mosche in una cassa chiusa”. E allungo le gambe unite, e vedo i miei stivaletti neri e lustri. “Ho un laccio slegato” penso, e guardo di nuovo la mamma. Anche lei mi guarda e si china per annodarmi il laccio dello stivaletto.
Il vapore che si leva dalla testa della mamma, caldo e odoroso di tanfo di armadio; odoroso di legno addormentato, mi ricorda di nuovo l’interno della bara. Il respiro mi si fa di nuovo stento, desidero uscire di qui; desidero respirare l’aria bruciante della strada, e ricorro alla mia estrema risorsa. Mentre la mamma si raddrizza le dico a voce bassa: «Mamma!». Lei sorride, dice: «Aha». E io, chinandomi verso di lei, verso il suo viso crudo e lucido, tremando: «Ho voglia di andare in quel posto».
La mamma chiama il nonno, gli dice qualcosa. Io vedo i suoi occhi stretti e immobili dietro le lenti, quando lui si avvicina e mi dice: «Sappia che ora è impossibile». Io mi sgranchisco e poi me ne resto quieto, indifferente al mio insuccesso. Ma di nuovo le cose si susseguono con troppa lentezza. C’è stato un movimento rapido, un altro e un altro ancora. E poi di nuovo la mamma china sulla mia spalla, dicendo: «Ti è passata?». E lo dice con voce seria e concreta, come se più che una domanda fosse una recriminazione. Ho il ventre secco e duro, ma la domanda della mamma lo rammollisce, lo lascia pieno e blando, e allora tutto, persino la serietà di...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Foglie morte
- Capitolo 1
- Capitolo 2
- Capitolo 3
- Capitolo 4
- Capitolo 5
- Capitolo 6
- Capitolo 7
- Capitolo 8
- Capitolo 9
- Capitolo 10
- Capitolo 11
- Copyright