Partitura d'addio
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Partitura d'addio

  1. 266 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Martin Van Vliet è una promessa della biocibernetica. Solo due cose riusciranno a bloccare sul nascere la sua scintillante carriera: la morte della moglie e il malessere della figlioletta Lea, che reagisce al tragico evento con una chiusura totale al mondo. Martin non esita a dedicare la propria esistenza alla figlia sofferente, che torna a riempirsi di vita solo quando sente una sonata di Bach eseguita da una musicista di strada. Martin le regala un violino e da quel momento la bambina scoprirà in sé una passione e un talento divoranti che faranno di lei una grande musicista. Dietro a una scelta che sulle prime era parsa la sola ancora di salvezza e l'intimo dettato del genio di Lea, si annidano però sentimenti tra padre e figlia di una drammatica e tragica complessità. E tra le mille domande che sono il tormento di ogni genitore, in Martin se ne fa strada una, nuova e difficile: il genio di un figlio è un dono o una maledizione?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804586722
eBook ISBN
9788852017001

1

Ci siamo incontrati in un chiaro e ventoso mattino in Provenza. Ero seduto all’aperto davanti a un Café a Saint-Rémy e osservavo i tronchi dei platani spogli nella luce scialba. Il cameriere che mi aveva portato il caffè se ne stava ritto dietro la porta. Nel suo consunto panciotto rosso sembrava aver fatto il cameriere tutta la vita. Di tanto in tanto aspirava una boccata dalla sigaretta. A un certo punto fece cenno a una ragazza seduta di traverso sul seggiolino posteriore di una Vespa crepitante, come in un vecchio film dei tempi in cui andavo a scuola. Sparita la Vespa, il sorriso indugiò per un attimo ancora sulla sua faccia. Pensai alla clinica in cui già da tre settimane andavano avanti senza di me. Poi rivolsi nuovamente la mia attenzione al cameriere. Il suo volto era impenetrabile, lo sguardo vuoto. Mi chiesi come sarebbe stato vivere al posto suo.
Martijn van Vliet fu dapprima un ciuffo di capelli grigi in una Peugeot rossa targata Berna. Cercava di infilarsi in un parcheggio e per quanto vi fosse spazio a sufficienza si mostrò alquanto maldestro. L’incertezza in quella manovra contrastava con l’imponenza dell’uomo che scese dalla macchina e con passo sicuro si aprì un varco in mezzo al traffico dirigendosi verso il Café. Mi sfiorò con uno sguardo scettico dei suoi occhi scuri ed entrò nel locale.
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Tom Courtenay, pensai, Tom Courtenay in Gioventù, amore e rabbia. Quell’uomo mi ricordava lui. Eppure non gli somigliava affatto. Erano l’andatura e lo sguardo ad accomunarli – la maniera in cui entrambi sembravano presenti al mondo e a se stessi. Il direttore del riformatorio odia Tom Courtenay, il ragazzo disadattato dal sogghigno scaltro, ma ha bisogno di lui per battere l’altro riformatorio che può contare su un astro nascente della corsa. Così gli è consentito allenarsi durante le lezioni. Corre e corre attraverso il fogliame autunnale, la cinepresa puntata sul viso sorridente e felice. Arriva il giorno della gara, Tom Courtenay stacca tutti, il rivale sembra paralizzato, dopo la curva Courtenay imbocca il rettilineo d’arrivo, primo piano del direttore con la sua faccia grassa e lustra che si apre a un sorriso radioso pregustando il trionfo, non mancano che cento metri al traguardo, poi solamente cinquanta, e Courtenay provocatoriamente rallenta, frena, si arresta, incredulità sul viso del direttore che ora capisce l’intenzione del ragazzo, adesso è lui ad averlo in pugno, quella è la vendetta per tutte le vessazioni subite, si siede a terra, scuote le gambe che avrebbero avuto voglia di correre ancora a lungo, il rivale taglia il traguardo, il volto di Courtenay si deforma in un sogghigno di trionfo. Quel sogghigno non potevo fare a meno di vederlo e rivederlo, alla programmazione diurna, pomeridiana, serale e il sabato anche all’ultimissima proiezione.
Un sogghigno simile potrebbe comparire anche sul viso di quest’uomo, pensai quando Van Vliet uscì e si sedette al tavolino accanto al mio. Si infilò la sigaretta in bocca schermando la fiamma dell’accendino con la grande mano per ripararla dal vento. Trattenne a lungo il fumo nei polmoni. Nell’espirare mi lanciò un’occhiata e io mi stupii di quanto potessero essere miti quegli occhi.
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«Froid» disse abbottonandosi la giacca. «Le vent.» Lo disse con lo stesso accento con cui l’avrei detto io.
«Sì» risposi in dialetto bernese, «non me lo sarei aspettato qui. Neppure in gennaio.»
Qualcosa si modificò nel suo sguardo. Non era una sorpresa piacevole per lui imbattersi in uno svizzero. Mi sembrò di essere stato invadente.
«Oh, tutt’altro» soggiunse, anche lui in dialetto, «è spesso così.»
Lanciò un rapido sguardo al lato opposto della strada. «Non vedo nessuna targa bernese.»
«Sono venuto qui con una macchina a noleggio» dissi. «Riparto domani per Berna con il treno.»
Il cameriere gli portò un Pernod. Restammo in silenzio per un po’. La Vespa crepitante con la ragazza sul seggiolino posteriore ci passò davanti. Il cameriere fece un cenno.
Posai sul tavolino i soldi per il caffè e feci per andarmene.
«Riparto anch’io domani» disse Van Vliet. «Potremmo fare il viaggio insieme.»
Era l’ultima cosa che mi sarei aspettato, e anche lui se ne accorse.
«Era un’idea» disse con uno strano sorriso triste, come volesse chiedere perdono; era di nuovo l’uomo che aveva parcheggiato in modo così maldestro. Prima di addormentarsi, pensai, anche Tom Courtenay avrebbe potuto sorridere a quel modo e in sogno infatti faceva proprio così. Avvicinava le labbra alla bocca di una ragazza che si ritraeva spaventata. «Just an idea, you know» diceva Courtenay, «and not much of an idea, either.»
«Sì, perché no» dissi.
Van Vliet chiamò il cameriere e ordinò due Pernod. Feci segno di no con il capo. Un chirurgo non beve di mattina; neanche dopo che ha smesso. Mi sedetti al suo tavolino.
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«Van Vliet» disse, «Martijn van Vliet.» Gli porsi la mano. «Herzog, Adrian Herzog.»
Disse che era stato lì un paio di giorni e dopo una pausa, durante la quale la sua faccia sembrò invecchiata e più cupa, soggiunse: «In ricordo di… di un tempo».
A un certo punto del viaggio mi avrebbe raccontato la storia. Una storia triste, una storia che faceva male. Ebbi la sensazione di non essere in grado di reggerla. Già fare i conti con me stesso bastava e avanzava.
Lasciai scorrere lo sguardo lungo il viale dei platani che conduceva fuori dall’abitato e contemplai i tenui colori smorti della Provenza invernale. Ero venuto fin lì per trovare mia figlia che lavorava in una clinica ad Avignone. Mia figlia che non aveva più bisogno di me, da un bel pezzo ormai. «Hai smesso prima del tempo? Tu?» aveva detto. Avevo sperato che volesse saperne di più. Ma poi era rientrato il ragazzo da scuola, Leslie si era arrabbiata per il ritardo della baby-sitter, doveva fare infatti il turno di notte, e allora eravamo rimasti lì in strada come due che si fossero incrociati per caso senza in realtà incontrarsi.
Lei si era accorta della mia delusione. «Verrò a trovarti» disse, «adesso ne hai di tempo!» Sapevamo entrambi che non l’avrebbe fatto. Da molti anni non mette piede a Berna e non sa come vivo. Sappiamo ben poco l’una dell’altro, mia figlia e io.
Alla stazione di Avignone avevo noleggiato una macchina ed ero partito senza una meta precisa, tre giorni lungo strade secondarie, pernottando in locande di campagna, una mezza giornata sul golfo di Aigues Mortes, ogni volta sandwich e caffè, di sera Somerset Maugham alla luce del crepuscolo. Di quando in quando riuscivo a dimenticare il ragazzo che all’improvviso si era parato davanti all’auto, ma non per più di mezza giornata. Mi svegliavo di notte per lo spavento perché il sudore del panico mi scorreva sugli occhi e rischiavo di soffocare dietro la mascherina.
«Fai tu, Paul» avevo detto al primario in sala operatoria porgendogli lo scalpello.
Mentre attraversavo i paesi a passo d’uomo, contento di ritrovarmi poi di nuovo in aperta campagna, mi capitava di vedere talvolta gli occhi chiari di Paul al di sopra della mascherina, lo sguardo incredulo, esterrefatto.
Non volevo ascoltare la storia di Martijn van Vliet.
«Voglio arrivare oggi stesso nella Camargue, a Saintes-Maries-de-la-Mer» disse.
Lo guardai. Se avessi indugiato ancora, il suo sguardo si sarebbe indurito come quello di Tom Courtenay davanti al direttore.
«Vengo anch’io» dissi.
Quando partimmo il vento si era placato e al di là dei finestrini cominciò a fare caldo. «La Camargue, c’est le bout du monde» disse Van Vliet quando dopo Arles prendemmo la deviazione verso sud. «Lo diceva sempre Cécile, mia moglie.»
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2

La prima volta non ci avevo fatto caso. Quando Van Vliet staccò per la seconda volta le mani dal volante tenendole discoste alcuni centimetri, trovai la cosa singolare perché lo rifece quando un camion gli venne incontro sulla corsia opposta. Ma solo alla terza volta ne fui certo: era una distanza di sicurezza. Doveva impedire che le mani commettessero uno sbaglio.
Per un buon tratto non sopraggiunsero più camion. A destra e a sinistra risaie e acqua, in cui si rispecchiavano le nuvole che solcavano veloci il cielo. Il paesaggio pianeggiante e uniforme faceva nascere un sentimento di amplitudine e libertà, mi ricordava il tempo trascorso in America dove avevo imparato a operare dai migliori chirurghi. Mi avevano instillato la fiducia in me stesso e insegnato a dominare la paura in agguato quando si tratta di praticare la prima incisione sulla pelle intatta. Al mio rientro in Svizzera – mi avvicinavo alla quarantina – avevo alle spalle operazioni rischiose e per gli altri ero la quintessenza della calma e della sicurezza professionali, un uomo dai nervi d’acciaio che non perdeva mai il controllo, inconcepibile che un bel mattino io non potessi più affidare alle mie mani il bisturi.
In lontananza vedemmo un camion venire verso di noi. Van Vliet frenò bruscamente e abbandonò la strada per scendere verso un’area di sosta con un hotel e un tiro di cavalli bianchi. PROMENADE À CHEVAL, stava scritto all’ingresso.
Rimase seduto un bel po’ con gli occhi chiusi, le palpebre percorse da un fremito, la fronte imperlata di sudore. Poi scese dalla macchina senza dire una parola e si avviò lentamente verso il recinto dei cavalli. Mi avvicinai a lui e aspettai.
«Le spiacerebbe mettersi al volante?» chiese con voce roca. «Io… non mi sento bene.»
Al bar dell’hotel tracannò due Pernod. «Adesso è tutto a posto» disse. Doveva suonare come una dichiarazione di forza, ma era una forza intrisa di debolezza.
Invece di incamminarsi verso l’auto, si diresse nuovamente verso i cavalli. Uno dei due era fermo vicino al recinto. Van Vliet lo accarezzò sulla testa. La sua mano tremava.
«Lea amava gli animali e loro lo avvertivano. Semplicemente, non aveva paura di loro. Quando lei arrivava, anche i cani più furiosi si ammansivano. “Papà, guarda, mi vuole bene!” esclamava. Come se avesse bisogno dell’affetto degli animali, lei che non conosceva altri affetti. E lo diceva a me. Proprio a me. Accarezzava gli animali, si lasciava leccare le mani. Che paura avevo, quando assistevo a quelle scene! Le mani preziose di lei, così terribilmente preziose. Più tardi, nei miei viaggi segreti verso Saint-Rémy venivo spesso qui e me la immaginavo accarezzare i cavalli. Le avrebbe fatto bene. Sono sicuro che le avrebbe fatto bene. Ma non mi era permesso portarla con me. Il maghrebino, il maledetto maghrebino lo proibiva, me lo proibiva punto e basta.»
Quella storia continuava a farmi paura, ora anche più di prima; e tuttavia non ero più sicuro di non volerla sentire. La mano di Van Vliet sulla testa del cavallo, quella mano che tremava, aveva cambiato le cose. Mi chiedevo se fosse il caso di porre domande. Ma sarebbe stato uno sbaglio. Dovevo essere uno che ascoltava, niente di più, una persona in ascolto che silenziosamente si addentrava nel mondo dei pensieri dell’altro.
Senza dire una parola lui mi porse la chiave della macchina. La sua mano continuava a tremare.
Guidavo lentamente. Quando incrociavamo un camion Van Vliet guardava fuori dal finestrino alla sua destra, lontano. Una volta arrivati mi indicò la strada per la spiaggia. Ci fermammo dietro a una duna, salimmo in cima e ci inoltrammo nella sabbia. Tirava vento, le onde luccicanti si frangevano, per un attimo pensai a Cape Cod e a Susan, la mia compagna d’allora.
Camminavamo mantenendo una certa distanza fra di noi. Ignoravo che cosa cercasse in quel luogo. O meglio: aveva parlato di Lea al passato, e ora che lei non c’era più lui voleva passeggiare ancora una volta lungo la spiaggia che era stato costretto a percorrere da solo quando il maghrebino gli aveva impedito di vedere sua figlia. Si diresse verso l’acqua e per un istante immaginai che ci sarebbe semplicemente entrato, con passo saldo, senza tentennare, senza che niente e nessuno potesse arrestarlo, sempre più avanti, fino a quando le onde non si fossero richiuse sopra la sua testa.
Si fermò sulla battigia ed estrasse dalla giacca una fiaschetta di metallo. Svitò il tappo e mi lanciò un’occhiata. Indugiò, poi gettò la testa all’indietro e si versò la grappa in bocca. Tirai fuori la macchina fotografica e feci alcuni scatti. Lui vi appare come una silhouette in controluce. Ho davanti agli occhi una di quelle foto, appoggiata alla lampada. Mi piace. Un uomo beve con aria di sfida sotto lo sguardo di un altro che ha appena rifiutato un Pernod. Je m’en fous, dice la postura di quell’uomo imponente e massiccio con i capelli arruffati. Come Tom Courtenay che dopo essersi rifiutato di chiedere scusa vie-ne arrestato e portato via.
Van Vliet camminò ancora per un po’ nella sabbia umida. Di tanto in tanto si fermava, gettava all’indietro la testa come aveva fatto prima per bere lasciandosi inondare la faccia dal sole. Un uomo abbronzato, sulla sessantina, sotto gli occhi i segni dell’alcol, l’aspetto altrimenti sano, robusto, sportivo, si sarebbe detto, ma dietro a tutto questo una tristezza e una disperazione che da un momento all’altro poteva ribaltarsi in furia e odio, odio anche contro se stesso, un uomo che non poteva fidarsi più delle proprie mani quando si vedeva davanti l’alto frontale di un camion che si avvicinava rombando.
Si diresse lentamente verso di me e si fermò a poca distanza. La violenza con cui sbottò ed esplose, lì, vicino all’acqua, dimostrava quanto il ricordo avesse fatto montare in lui la furia.
«Meridjen si chiama, il maghrebino, dottor Meridjen. Adesso ciò che conta più di tutto è Sua figlia; Lei deve farci l’abitudine. Pensi: ha osato dirmi proprio così. A me! C’est de votre fille qu’il s’agit. Come se per ventisette anni quel pensiero non fosse stato il filo conduttore della mia vita! Quelle parole mi hanno seguito come un’eco che non cessa mai. Le disse alla fine del nostro primo colloquio, poi si alzò in piedi dietro la scrivania e mi accompagnò alla porta dell’ambulatorio. Era stato più che altro ad ascoltare, di tanto in tanto la mano scura tracciava velocemente con la matita d’argento segni sopra i fogli. Sul soffitto ruotavano pigramente le pale gigantesche di un ventilatore, e nelle pause udivo il lieve ronzio del motore. Dopo il mio lungo resoconto ero come svuotato e quando da sopra gli occhiali lui mi lanciò una delle sue occhiate scure, da arabo, io mi sentii come un colpevole davanti al giudice.
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«Lei non si trasferirà a Saint-Rémy, disse sulla porta. Una frase annientante. Quelle poche parole facevano apparire la mia dedizione a ciò che consideravo la felicità di Lea nient’altro che un’orgia di ambizione paterna e il disperato tentativo di legarla a me. Come se si dovesse proteggere mia figlia soprattutto da me. Quando io per Lea nutrivo invece questo unico desiderio, un unico desiderio capace di rimuovere ogni cosa: che il lutto e la disperazione per la morte di Cécile potessero essere archiviati per sempre. Il desiderio riguardava naturalmente anche me. Naturalmente era così. Ma chi me lo può rimproverare? Chi?»
Gli erano spuntate le lacrime agli occhi. Avrei voluto passare la mia mano su quei capelli arruffati dal vento. Come si era arrivati a quel punto, chiesi dopo che ci fummo seduti su una duna.
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3

«Posso dire con precisione il giorno, anzi l’ora in cui tutto cominciò. Era un martedì di diciotto anni fa, l’unico giorno della settimana in cui Lea aveva lezione anche il pomeriggio. Un giorno di maggio, di un azzurro intenso, ovunque cespugli e alberi in fiore. Lea usciva di scuola insieme a Caroline, la sua amica fin dai primi giorni. Faceva male vedere Lea scendere i pochi gradini fino al cortile tutta triste e irrigidita accanto a Caroline che saltellava. Era la stessa andatura strascicata di un anno prima, quando eravamo usciti dalla clinica dove Cécile aveva perso la sua lotta contro la leucemia. Quel giorno, nel prendere congedo dal volto muto e immobile della madre, Lea non aveva pianto. Non aveva più lacrime. Nelle ultime settimane era diventata sempre più silenziosa, e ogni giorno che passava i suoi movimenti, così mi sembrava, si facevano più lenti e spigolosi. Niente era valso a sciogliere quell’intorpidimento: nessuna delle cose che avevamo fatto insieme; nessuno dei tanti regali che le avevo comprato quando mi pareva di indovinare sul suo viso un desiderio; nessuno degli scherzi che strappavo a fatica al mio stesso intorpidimento; e nemmeno l’aver incominciato la scuola con tutte le sue novità; così come era stata vana tutta la pena che Caroline si era data fin da subito per farla ridere.
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«“Ciao” disse Caroline sul portone cingendole la spalla con il braccio. Per una ragazzina di otto anni era un gesto inconsueto: quasi una sorella maggiore che le porgesse protezione e conforto. Lea, al solito, teneva lo sguardo fisso a terra e non rispose. Senza dire una parola mise la sua mano nella mia e camminò accanto a me come se avesse le gambe di piombo.
«Eravamo appena passati davanti all’hotel Schweizerhof e ci stavamo avvicinando alla scala mobile che conduce all’atrio della stazione quando Lea si arrestò in mezzo alla fiumana di gente. Io stavo pensando alla difficile riunione che di lì a poco avrei dovuto presiedere e la tirai impaziente per la mano. Lei si divincolò con un movimento improvviso, rimase qualche istante immobile a testa bassa, poi corse verso la scala mobile. Ancora oggi la vedo correre, una sorta di slalom attraverso la folla frettolosa, il grande zaino con i libri sulle spalle esili che si impigliò più di una volta in indumenti estranei. Quando la raggiunsi era in cima alla scala mobile con la testa protesa in avanti, incurante delle persone a cui intralciava il passo. “Écoute!” disse quando mi avvicinai a lei. Lo disse con lo stesso, identico tono di Cécile che per questa esortazione ricorreva sempre al francese, mentre generalmente parlavamo tra noi in tedesco. Per uno come me la cui gola non è fatta per i limpidi fonemi francesi, quella parola tagliente aveva un suono imperioso e dittatoriale che mi intimidiva, anche quando si trattava di qualcosa di assolutamente innocuo. Così raffrenai la mia impazienza e tesi ubbidiente l’orecchio verso l’atrio della stazione in basso. Ora sentivo anch’io quello che poco prima aveva fatto arrestare all’improvviso Lea: le note di un violino. Riluttante mi lasciai trascinare da lei sulla scala mobile e così, a dire il vero contro la mia volontà, scivolammo in basso verso l’atrio della stazione di Berna.
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«Quante volte mi sono chiesto che ne sarebbe stato di mia figlia se non l’avessimo fatto! Se il caso non ci avesse procurato l’incontro con quel suono. Se avessi ceduto alla mia tensione e all’impazienza per l’imminente riunione e avessi trascinato Lea via con me. Il suono del violino l’avrebbe soggiogata in altre circostanze, sotto altre forme? O cos’altro l’avrebbe salvata un giorno dalla sua tristezza paralizzante? Il suo talento sarebbe venuto alla luce ugualmente? O sarebbe diventata una normalissima ragazza con il normalissimo desiderio di trovare un impiego? E io? Dove sarei oggi se non mi fossi confrontato con l’immane sfida rappresentata dal talento di Lea, sfida alla quale ero del tutto impreparato?
«Quel pomeriggio, quando posammo il piede sulla scala mobile, io ero un biocibernetico quarantenne, il membro più giovane della facoltà e un astro nascente della nuova disciplina, come dicevano. L’agonia di Cécile e la sua morte precoce mi avevano sconvolto, molto più di quanto volessi ammettere. All’apparenza avevo retto allo sconvolgimento e con una pianificazione meticolosissima avevo fatto in modo di armonizzare la mia professione col ruolo di padre e genitore rimasto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34