
- 434 pagine
- Italian
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Treno di notte per Lisbona
Informazioni su questo libro
Voleva veramente gettarsi dal ponte la donna trattenuta una mattina da Raimond Gregorius, compassato insegnante svizzero di lingue morte? Gregorius non sa nulla di lei, se non che è portoghese. Basta però quella parola a dare un nome all'inquietudine che da tempo lo agita e in cui l'episodio lo ha precipitato. Qualche tempo dopo, complice la scoperta in una libreria antiquaria delle opere di un enigmatico scrittore lusitano, Amadeu Ignacio de Almeida Prado - coraggiosa figura di medico intellettuale dissidente durante il regime di Salazar -, l'altrimenti prevedibilissimo professore prende un treno diretto a Lisbona, dove spera di ritrovare le tracce del misterioso autore che tanto ha colpito la sua fantasia.
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Informazioni
Print ISBN
9788804574392eBook ISBN
9788852016998Parte terza
IL TENTATIVO
24
Il lunedì mattina Gregorius prese l’aereo per Zurigo. Si era svegliato all’alba e aveva pensato: sono sul punto di perdermi. Non nel senso che si era prima svegliato e aveva formulato quel pensiero a partire da uno stato di vigile consapevolezza, uno stato che potesse sussistere anche senza quel pensiero. Era successo il contrario: prima era venuto il pensiero, poi lo stato di vigile consapevolezza. La particolare, sottile, vigile consapevolezza, insolita per lui e diversa anche dalla consapevolezza che lo aveva pervaso nel viaggio verso Parigi come qualcosa di nuovo, in qualche modo altro non era – così gli parve – che quel pensiero stesso. Non era sicuro di conoscerne il contenuto e i contorni, ma in tutta la sua nebulosità esso possedeva un’imperiosa determinatezza. Era stato colto dal panico e con le mani che gli tremavano aveva cominciato a fare la valigia cacciandovi libri e indumenti alla rinfusa. Quando la valigia fu pronta, si costrinse a restare calmo e si mise un poco alla finestra.
Sarebbe stata una giornata radiosa. Nel salone di Adriana il sole avrebbe fatto brillare il parquet. Nella luce del mattino la scrivania di Prado sarebbe apparsa ancora più desolata. Sulla parete sopra la scrivania erano appesi dei promemoria, parole ormai sbiadite, quasi illeggibili, di cui a distanza si riconoscevano solo pochi punti dove la penna aveva esercitato maggior pressione. Avrebbe voluto sapere che cosa quelle parole dovevano rammentare al dottore.
L’indomani, o il giorno dopo ancora, forse già quel giorno stesso Clotilde sarebbe venuta all’albergo con un nuovo invito da parte di Adriana. João Eça già contava sul fatto che la domenica lui andasse a trovarlo per la partita a scacchi. O’Kelly e Mélodie si sarebbero meravigliati di non avere più sue notizie, notizie dell’uomo che era spuntato dal nulla e aveva chiesto di Amadeu, come se la sua felicità dipendesse dal fatto di sapere chi Amadeu era stato. Padre Bartolomeu avrebbe trovato singolare che lui gli mandasse per posta la copia dell’allocuzione finale di Prado. Anche Mariana Eça non avrebbe compreso il suo dileguarsi dalla faccia della terra. E Silveira. E Coutinho.
Sperava che non fosse successo niente di brutto da costringerlo a partire così all’improvviso, disse la signora della reception quando saldò il conto. Non capì una sola parola delle frasi pronunciate dal tassista nella sua lingua. All’aeroporto, mentre tirava fuori i soldi per pagare la corsa, trovò nella tasca della giacca il biglietto su cui Júlio Simões, l’antiquario, aveva annotato l’indirizzo di una scuola di lingue. Lo osservò per un attimo e poi lo gettò nel cestino davanti alla porta che immetteva nell’area partenze. L’aereo delle dieci era mezzo vuoto, gli dissero allo sportello, e gli assegnarono un posto accanto al finestrino.
Nella sala d’attesa presso il tunnel d’imbarco sentì parlare solo portoghese. Una volta sentì anche il termine português. Adesso era una parola che gli faceva paura, anche se non avrebbe saputo dire perché. Voleva dormire nel suo letto nella Länggasse, andare in Bundesterrasse e sul ponte di Kirchenfeld, parlare dell’ablativus absolutus e dell’Iliade, starsene in Bubenbergplatz che conosceva bene. Voleva andare a casa.
Poco prima dell’arrivo a Kloten si svegliò alla domanda in portoghese di una hostess. Era una domanda piuttosto lunga, la capì a fatica e rispose in portoghese. Guardò in basso il lago di Zurigo. Grandi tratti del paesaggio erano coperti di neve ormai sporca. Sulle ali si sentiva battere la pioggia.
Non era a Zurigo che voleva andare, ma a Berna, pensò. Era contento di avere con sé il libro di Prado. Quando l’aereo atterrò e tutti gli altri incominciarono a mettere via i loro libri e giornali, lui lo tirò fuori e cominciò a leggere.
JUVENTUDE IMORTAL. GIOVENTÙ IMMORTALE. Quando siamo giovani viviamo come fossimo immortali. Il sapere che siamo mortali ci sfiora appena, sorta di viluppo di carta crespa che non tocca quasi la nostra pelle. Quand’è che le cose cambiano? Quando quel viluppo comincia a stringerci più forte fino a soffocarci? In che punto si riconosce la sua lieve, ma inflessibile pressione che ci fa capire che non verrà mai meno? Dove lo si riconosce negli altri? E dove in se stessi?
Gregorius desiderò che l’aereo fosse un autobus al cui capolinea si può starsene seduti continuando a leggere, per poi tornare al punto di partenza. Fu l’ultimo a scendere.
Allo sportello dei biglietti esitò, l’addetta si mise ad armeggiare impaziente con il proprio braccialetto.
«Seconda classe» disse alla fine.
Quando il treno lasciò la stazione centrale di Zurigo e acquistò velocità, gli venne in mente che quel giorno Natalie Rubin avrebbe cercato nelle biblioteche un testo sulla resistenza portoghese, mentre gli altri libri erano in viaggio per Lisbona. A metà della settimana, quando ormai lui si fosse reinsediato nella Länggasse, a pochi isolati di distanza lei sarebbe entrata nella libreria Haupt e sarebbe andata poi alla posta per spedirgli la grammatica persiana. Cosa avrebbe potuto dirle se l’avesse incontrata? Cosa poteva dire agli altri? A Kägi e agli altri colleghi? Ai suoi allievi? Con Doxiades le cose sarebbero state più semplici e tuttavia: quali sarebbero state le parole giuste, le parole capaci di cogliere nel segno? Quando scorse la cattedrale di Berna provò la sensazione di essere sul punto di fare il suo ingresso in una città proibita.
Nell’appartamento si gelava. In cucina Gregorius alzò le tapparelle che aveva abbassato due settimane prima per nascondersi. Il disco del corso di portoghese era ancora sul giradischi, la custodia sul tavolo. Il ricevitore era appoggiato sulla forcella all’incontrario e gli ricordò il colloquio notturno con Doxiades. Perché le tracce del passato mi rattristano, anche quando sono tracce di qualcosa di sereno? si era chiesto Prado in un’annotazione laconica.
Gregorius disfece la valigia e posò i libri sul tavolo. O GRANDE TERRAMOTO. A MORTE NEGRA. Accese il riscaldamento in tutti i locali, fece andare la lavatrice e incominciò a leggere dell’epidemia di peste in Portogallo nel XIV e XV secolo. Non era un portoghese difficile e procedette senza difficoltà. Dopo un po’ estrasse dal pacchetto che aveva acquistato nel caffè vicino alla casa di Mélodie l’ultima sigaretta. Nei quindici anni in cui era vissuto lì era la prima volta che si levava in aria il fumo di una sigaretta. Di tanto in tanto, a fine capitolo, pensava alla sua prima visita a João Eça e allora era come se sentisse in gola il tè bollente, trangugiato perché la tazza risultasse più leggera nelle mani tremanti di Eça.
Quando si avvicinò all’armadio per cercare un pullover più pesante, gli venne in mente il pullover in cui aveva avvolto la Bibbia ebraica nel Liceu abbandonato. Era stata una buona cosa sedersi nella stanza del Senhor Cortês e leggere il Libro di Giobbe, mentre il cono di luce si spostava nella stanza insieme al sole. Gregorius pensò a Elifaz il Temanita, a Bildad il Suchita e a Zofar il Naamatita. Vide davanti a sé l’insegna della stazione di Salamanca e riprovò la sensazione di quando, per prepararsi a Isfahan, aveva tracciato i primi caratteri persiani sulla lavagna nella sua cameretta, a poche centinaia di metri da lì. Prese un foglio di carta e ricercò la memoria inscritta nella propria mano. Comparvero un paio di tratti orizzontali e curvi, e alcuni puntini al posto delle vocali. Poi strappò il foglio.
Trasalì quando suonarono alla porta. Era la signora Loosli, la vicina. Dalla diversa posizione dello stuoino davanti alla porta si era accorta che era tornato, e gli diede la posta e la chiave della cassetta delle lettere. Aveva fatto una buona vacanza? Ma adesso le vacanze a scuola le davano sempre così presto?
L’unica cosa che gli interessò nella posta era una lettera di Kägi. Contrariamente alle sue abitudini non prese un tagliacarte, ma strappò con impazienza la busta.
Caro Gregorius,non voglio lasciare senza risposta la lettera che lei mi ha scritto. Ne sono stato troppo toccato. E suppongo che per quanto lontano potrà portarla il suo viaggio, lei prima o poi si farà recapitare la posta.La cosa più importante che vorrei dirle è questa: il nostro liceo è stranamente vuoto senza di lei. Quanto grande sia questo vuoto glielo dimostrerà il fatto che oggi nella sala professori Virginie Ledoyen di punto in bianco ha detto: «L’ho detestato qualche volta per i suoi modi bruschi e grossolani; e certo non avrebbe guastato se qualche volta si fosse vestito un po’ meglio. Sempre quei suoi capi sformati e consunti. Però devo dire, devo proprio dirlo: in certo qual modo mi manca. Étonnant». E quello che dice l’emerita collega di francese non è niente in confronto a quello che sentiamo dire dai suoi allievi. E, se posso aggiungere, da alcune sue allieve. Quando ora mi trovo davanti alle sue classi, sento la sua mancanza come una grande ombra scura. E che ne sarà ora del torneo di scacchi?Marco Aurelio: già. Noi, mia moglie e io, se posso farle una confidenza, negli ultimi tempi abbiamo sempre più la sensazione di perdere i nostri due figli. Non è una perdita in seguito a una malattia o a un incidente, è peggio: rifiutano tutto il nostro modo di vivere e non fanno certo complimenti nella loro maniera di esprimersi. Ci sono momenti in cui mia moglie sembra sul punto di crollare. E la sua rievocazione del saggio imperatore giunge estremamente puntuale. Mi permetta di aggiungere ancora una cosa che lei spero non troverà importuna: ogni volta che vedo la busta con la sua lettera che non vuol saperne di sparire dalla mia scrivania provo una punta d’invidia. Semplicemente alzarsi e andarsene: che coraggio! «Si è semplicemente alzato e se n’è andato» continuano a raccontare i suoi allievi. «Ha preso su e via!»Il suo posto rimane libero, questo lei lo deve sapere. Una parte del suo insegnamento l’ho assunta io, per il resto, compreso l’ebraico, abbiamo trovato degli studenti universitari come supplenti. Per quanto riguarda il lato finanziario, la direzione della scuola le invierà la documentazione necessaria.Che cosa devo dirle in conclusione, caro Gregorius? Forse solo questo: le auguriamo tutti che il suo viaggio, tanto fuori quanto dentro, la porti realmente dove lei desidera.Suo Werner KägiP.S. I suoi libri sono qui al sicuro nel mio armadio. Non può succedere loro nulla. Una questione pratica: posso chiederle di farmi avere prima o poi – non c’è fretta – la sua chiave?
A mano Kägi aveva aggiunto: O invece desidera tenerla? Per tutte le evenienze?
Gregorius rimase seduto a lungo. Fuori stava facendo notte. Non avrebbe mai pensato che Kägi potesse scrivergli una lettera così. Molto tempo prima l’aveva visto un giorno in città con tutti e due i figli, avevano riso, sembrava tutto a posto. Quello che Virginie Ledoyen aveva detto del suo vestiario gli fece piacere e provò quasi un senso di disagio nel guardare i pantaloni del nuovo completo che aveva indossato durante il viaggio. Modi bruschi, d’accordo. Ma grossolani? E chi erano, oltre a Natalie Rubin e forse un po’ Ruth Gautschi, le allieve che sentivano la sua mancanza?
Era tornato perché voleva ritrovarsi in un posto che conosceva bene. Dove non era costretto a parlare portoghese, francese o inglese. Perché la lettera di Kägi faceva apparire tutt’a un tratto difficile quel proposito semplicissimo? Perché gli premeva ancora più di prima, in treno, che fosse notte mentre scendeva fino al Bubenbergplatz?
Arrivato un’ora dopo sul posto, ebbe la sensazione di non poter più entrare in contatto con la piazza. Sì, per quanto strano, era proprio così: non era più in grado di entrare in contatto con il Bubenbergplatz. Aveva già fatto tre volte il giro, aveva aspettato davanti ai semafori e guardato in tutte le direzioni: verso il cinema, la posta, il monumento, la libreria spagnola dove si era imbattuto nel libro di Prado, più avanti verso la fermata dei tram, verso la Heiliggeistkirche e i grandi magazzini LOEB. In disparte, aveva chiuso gli occhi e si era concentrato sulla pressione che il suo corpo massiccio esercitava sul selciato. La pianta dei piedi si era scaldata, la strada sembrava venirgli incontro, ma tutto era rimasto come prima: gli era impossibile entrare in contatto con la piazza. Non solo la strada, l’intera piazza con la sua familiarità frutto di decenni si protendeva verso di lui; ma alle vie e agli edifici, alle luci e ai rumori non era più riuscito di raggiungerlo completamente, di superare l’ultimo iato, quella distanza sottile quanto un soffio, per arrivare davvero fino a lui e insediarsi nel ricordo come qualcosa che lui non solo conosceva, e conosceva perfettamente, ma che lui era. E che era stato sempre prima di allora, in una maniera di cui acquistava consapevolezza nel preciso momento in cui non si realizzava più.
Il pervicace, inspiegabile iato non lo proteggeva, non era come un paraurti capace di significare distanza e rilassatezza. Faceva piuttosto sorgere in Gregorius il panico, l’angoscia di perdere – insieme alle cose familiari che aveva voluto evocare per ritrovarsi – anche se stesso e di rivivere qui la stessa esperienza che aveva vissuto a Lisbona sul far dell’alba, solo più insidiosa e molto, molto più pericolosa. Perché mentre dietro Lisbona c’era Berna, dietro alla Berna perduta non c’era più un’altra Berna. Intento a scrutare il suolo, solido e tuttavia sfuggente, andò a sbattere contro un passante e fu colto dalle vertigini. Per un momento tutto cominciò a vorticare, si afferrò la testa con tutt’e due le mani come per fermarla e, una volta ritrovata la calma e un certo senso di sicurezza, vide che una donna lo seguiva con lo sguardo, ed era lo sguardo di chi si chiedeva se non avesse bisogno d’aiuto.
L’orologio della Heiliggeistkirche segnava quasi le otto, il traffico si era fatto meno intenso. La coltre di nubi si era squarciata, si potevano vedere le stelle. Faceva freddo. Gregorius attraversò la Kleine Schanze e proseguì fino alla Bundesterrasse. In preda all’eccitazione attendeva il momento in cui poter svoltare verso il ponte di Kirchenfeld, come aveva fatto per decenni alle otto meno un quarto del mattino.
Il ponte era bloccato. Nel corso della notte, fino all’alba, riparavano i binari del tram. «Un brutto incidente» disse qualcuno vedendo Gregorius fissare smarrito il cartello.
Con la sensazione che qualcosa a lui estraneo stesse diventando un’abitudine, varcò la soglia dell’hotel Bellevue e si diresse verso la sala ristorante. La musica in sottofondo, la giacca chiara del cameriere, gli argenti. Ordinò qualcosa da mangiare. Il balsamo della disillusione. «Prado si prendeva spesso gioco» aveva detto João Eça «della convinzione di noi umani che il mondo sia un palcoscenico dove i protagonisti siamo noi stessi e i nostri desideri. Considerava questa illusione l’origine di tutte le religioni. “Non esiste il minimo indizio che sia così” era solito dire, “l’universo esiste e basta e non gli importa assolutamente nulla di quel che avviene di noi.”»
Gregorius tirò fuori il libro di Prado e cercò un titolo che contenesse la parola cena. Quando lo servirono, aveva trovato quello che cercava.
CENA CARICATA. TEATRO COMICO. Il mondo come palcoscenico in attesa che noi si metta in scena il dramma serio e triste, comico e futile delle nostre rappresentazioni mentali. Com’è commovente e seducente questa idea! E com’è inevitabile!
Lentamente Gregorius s’incamminò per Monbijou e da lì, attraversando il ponte, raggiunse il liceo. Erano anni che non gli capitava di vedere l’edifici...
Indice dei contenuti
- Copertina
- di Pascal Mercier
- Treno di notte per Lisbona
- Parte prima - La partenza
- Parte seconda - L’incontro
- Parte terza - Il tentativo
- Parte quarta - Il ritorno
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