Le uova del drago
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Le uova del drago

  1. 380 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le uova del drago

Informazioni su questo libro

Sicilia, 1943. Il migliore soldato tedesco è una donna, Eughenia Lenbach, bella e giovane, una spia selezionata direttamente da Hitler per una missione di estrema importanza: nome in codice "Uova del Drago". In caso di sconfitta del Reich dovrà organizzare focolai di riscossa. Ad aiutarla, proprio mentre gli Alleati sbarcano sull'isola, undici musulmani travestiti da frati cappuccini... Pietrangelo Buttafuoco mette in scena una storia vera, intricata e affascinante; e lo fa coniugando le cadenze del realismo siciliano con il ritmo fantastico del teatro dei pupi, per ottenere un risultato sorprendente e spiazzante, un racconto che ha conquistato tantissimi lettori.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804567059
eBook ISBN
9788852016264

Catania, anno 1943-1944

La botta al culo arrivò tutta: una pedata sazia. I panni dalle strisce rosse s’assestarono nel contraccolpo su ogni gamba. Mani saldate alle cosce: sull’attenti, neppure legate. I sette carabinieri della stazione di Bronte, fedeli nei secoli a Casa Savoia e negli ultimi tempi all’AMGOT, ma da quest’ultima giudicati rei di non aver eseguito un numero soddisfacente di rastrellamenti di “criminali fascisti”, ebbero così la loro lavata di capo. Tramite pedata al culo.
Dell’esecuzione della sentenza si occuparono direttamente due componenti del tribunale militare che l’aveva deliberata, l’americano Longchaney e l’inglese Reynolds. Le sette facce, bruciate di vergogna, si sfasciarono alcune in pianto e le altre in maschere atterrite, tant’era lo sbalordimento di vedersi costrette a così incredibile umiliazione – peraltro in pubblico, davanti a torme di concittadini convogliati appositamente nel cortile della Prefettura di Catania per assistere all’esemplare punizione.
L’Arma era il braccio di legge utilizzato dagli angloamericani per le operazioni di pubblica sicurezza, sottratte a una polizia ritenuta ancora e comunque fascista: perciò la pedata sul fondo di quei celebrati panni d’uniforme aveva anche scopo di allargata pedagogia.
La botta al culo arrivò dunque tutta, accompagnata dallo sguaiato sghignazzo dei due magistrati, bevuti già alle undici del mattino. Nessuno degli astanti ebbe la forza di dire alcunché: l’unica forma di rispetto possibile consisteva nel non guardare.
Eughenia Lenbach fu avvisata da Sicali, che la cercò appena ebbe notizia di quanto stava per accadere nel cortile della Prefettura. L’agente Ghez, con al fianco l’ormai inseparabile Angelica La Bella, di cui aveva guadagnato un’infiammata amicizia, arrivò mentre gli inglesi stavano ancora convogliando pubblico nel cortile; e rimase finché vide uscire dalla porta della foresteria dieci dei fantaccini locali appena reclutati dall’AMGOT quali elementi del futuro esercito. Toccava a loro “arrestare” i carabinieri: a quei poveretti che, cucito sulla manica dell’uniforme da fante inglese, sfoggiavano un bel profilo dell’Italia – guarda caso orba della Sicilia.
Nel chiudersi del 1943, l’amministrazione degli eserciti d’occupazione aveva portato a termine il lavoro più urgente: quello sporco. L’AMGOT aveva collaudato i suoi uomini migliori in tutta la Sicilia, e sbolognato ai siciliani un notevole quantitativo di fieno misto a gramigna. Tra i figli degli italoamericani, fieno parato in uniforme, l’amministrazione aveva sapientemente mischiato la nutrita gramigna degli indesiderabili e dei malavitosi; e il popolo siciliano, nel ruminar l’uno e l’altra, si lasciava trascinare alla deriva senza stucchevoli disquisizioni sul fatalismo. Obbediva anch’esso tacendo, il popolo: diceva signorsì alla gramigna, e all’occorrenza si nascondeva in campagna, nell’attesa della pace promessa e della prosperità così efficacemente annunciata dai bombardamenti.
Eughenia aveva dato ordine a Sicali di non trascurare nulla di ciò che facevano gli invasori, nemmeno le cose apparentemente normali. E nient’affatto normale era la faccenda dei sette carabinieri prelevati a Bronte per svergognarli a Catania – notizia che il fido sacrista aveva intercettato mentre volava di bocca in bocca da una parte all’altra della città, e che le consegnò in ogni dettaglio mentre la accompagnava dalla Prefettura a un caffè di via Plebiscito, dove la parte “Delphine” di Eughenia aveva appuntamento con quella “Orlando” del comandante Turri.
Mentre Sicali tornava di corsa ai suoi doveri di bizzoco, Eughenia e Angelica avvistarono il professore. Era seduto a un tavolino insieme a un tale che, sebbene in abiti civili, era inequivocabilmente inglese per via delle lentiggini e della chioma rosso fuoco.
Con il facinoroso Orlando e la nidiata di studenti cui faceva da chioccia ideologica, Angelica ed Eughenia avevano familiarizzato nelle aule dell’Istituto di chimica, e raggiunto una consuetudine tale che insieme formavano una collaudata comitiva accesa di allegria e di passione politica. Ancora chiusa per decreto dell’AMGOT la facoltà in cui aveva cattedra, il professore portava i suoi fedelissimi tra le provette e i fornelli di via Sant’Euplio, dove trovava al tempo stesso l’ambiente più attento ai suoi furori ideologici e l’oggetto più interessante per quelli sentimentali – poiché, s’è visto, egli era sfacciatamente invaghito di Angelica.
Costei, pur lusingata dalle attenzioni di quel giovane docente sempre ammantato di mistero e sporco d’inchiostro sovversivo, giocava a fraintendere. Temeva che corrisponderne i sentimenti potesse innescare reazioni assai meno controllabili di quelle delle sue amate soluzioni sature, sicché preferiva far coppia con Eughenia. Per lei, appena uscita dall’abbraccio di una realtà minuta, la vedova Cannavò era anche un modo per compiere quei viaggi ideali che lo scoppio della guerra le aveva precluso: in Delphine tutto era mai udito e mai visto, e Angelica – che in questa vita nuova aveva dimenticato la promessa di matrimonio e i doveri di figlia – adorava starla ad ascoltare e a guardare.
A ogni assalto del professore, la bella studentessa si affidava dunque all’amica forestiera, che invece agli occhi di Orlando era una mera nota di colore in quel frangente catanese: una comparsa della sua piccola avventura guerrigliera, non certo la regista di quella macchinazione che, in realtà, vedeva piuttosto lui nei panni della comparsa, del pupo, dell’esca per conquistare prede più ambite.
Ereditati i contatti accesi a suo tempo da Klinkhammer, l’agente Ghez aveva sempre evitato di svelarsi a Orlando: voleva assecondarne il doppio gioco in tutta la sua naturalezza, ed era proprio per questo che l’ultimo lingotto d’oro gliel’aveva fatto recapitare tramite un vecchio sensale di Jonia. D’altronde, l’averlo costantemente a tiro con la scusa della combriccola sovversiva e in virtù delle grazie di Angelica le dava comunque la possibilità di rinnovargli personalmente la cedola al momento più opportuno.
Scorte le due amiche, dunque, Orlando congedò in fretta il compare e cavallerescamente si alzò per invitarle al tavolo. Ma l’agente Ghez preferì lasciargli in pegno la ragazza per il breve tempo di una commissione – mezzo chilo di zucchero e due di farina da ritirare al deposito lì accanto. Sapeva che al ritorno li avrebbe trovati ormai dimentichi dei carabinieri lisciati a colpi di pedate, e intenti piuttosto a strologare di rivoluzione proletaria e sol dell’avvenire socialista, dunque calati in un’intimità dialettica ben più confacente al suo piano.
Così andò, infatti, ed Eughenia ebbe agio di inserirsi come figurante muta nel balletto della finzione ideologica, e poco dopo di invitare i due solisti a proseguirlo nella sua casa di vedova belga – così, per continuare a stare un po’ insieme, per fare società e magari anche politica.
Con Orlando, così come con Angelica, Eughenia manteneva dunque l’identità adottata all’Istituto di chimica; e mentre in quelle aule il marito morto – addirittura una Schutz Staffel – era pretesto per discussioni infinite coi due aspiranti rivoluzionari, nella casetta che don Angelo le aveva trovato al Borgo, Eughenia – per loro Delphine – offriva l’allegria delle chiacchiere come vicinanza tra persone. La provvisorietà di quelle giornate sotto il codice militare era infatti un’irripetibile opportunità di coniugare forme di libertà negate in condizioni normali, per sprigionare l’essenza anarchica in una voglia di vivere che qualsiasi volano di pur ristretta comitiva riusciva a riempire di divertimento e d’avventura.
Per Orlando l’avventura più feroce era la politica, dottrina con cui aveva forgiato la propria ebbrezza di sovversivo e che in quei giorni era pane per la fame sua e di Angelica: una brama fatta di paroloni, di promesse grandi quanto i continenti dove scapparsene a sfogare utopie, ossessioni e perfino soddisfare attraenti abbagli nichilisti. Ossessioni forse non troppo diverse, in parole e promesse, da quelle sottoscritte dagli aderenti al Partito socialista dei lavoratori tedeschi, come lasciava intendere Eughenia coi suoi discreti interventi: forse non proprio alla moda come utopie, ma ancora in auge in Germania, e arroventate dall’aura della catastrofe.
In quelle riunioni a casa di Eughenia non nacque la prima cellula comunista di Catania: il Partito comunista d’Italia era già attivo in città, con una sua segreteria e un suo elenco di iscritti ormai accettati dall’amministrazione militare; vi nacque però la prima assemblea bolscevica, con le due donne, depositarie della festa rivoluzionaria, come fondamentale magnete, e con Orlando e i suoi studenti come volenterosa limatura ideologica.
La casa, sostanzialmente un quartierino affacciato su un cortile interno, non era più l’abitazione di una vedova: a partire da quel primo invito diventò una comune, sempre più affollata di giovinezze. Gli studenti prediletti di Orlando, quando non venivano spediti a far proseliti, ormai ci bivaccavano – ma solo fino al coprifuoco, ottima scusa per sedare tanto le mire loro nei confronti della forestiera quanto quelle, incrollabili, che il professore nutriva per Angelica. In cambio dell’ospitalità, essi portavano il proprio fanatismo, magari addolcito da panieri di frutta, regali bohémien facili da reperire nelle campagne.
Fu un appuntamento di incendi e di amori, quella casa. Angelica lasciò l’abitazione dei genitori – dove ancora Nino Scionti andava a bussare con la speranza di riuscire a vederla, mentre i signori La Bella, imbarazzati, continuavano a offrirgli caffè – e si trasferì al Borgo, in quell’appartamento che stava diventando un vero e proprio albergo sovversivo. Era il club dove nessuna polizia metteva il naso: per gli inglesi la base era comunque garantita dalla frequentazione del loro assoldato Orlando, e i carabinieri non sapevano come interpretare quel viavai di sfardalinzola. Né lo degnavano di vigilanza i segugi della federazione del partito, che pure erano i più diretti interessati: erano troppo impegnati a stendere elenchi per l’epurazione, e i loro capi a sfinirsi in riunioni con il nascente comitato antifascista.
Nel tepore creatosi tra quelle mura, mentre l’autunno di Catania passava all’inverno, il passaparola eccitato degli studenti e le fumisterie del professore doppiogiochista finirono per garantire sufficiente leggenda sull’esistenza di una misteriosa setta bolscevica. Ma in realtà la furia acerba che si dava appuntamento nella casa di una vedova belga nel quartiere Borgo era puro e semplice romanticismo: piegato all’ambiguità di Orlando, ma fisiologico e mansueto com’è giusto sia il romanticismo dei ventenni.
Eughenia stessa si fingeva partecipe di quel romanticismo costringendo la vedova Cannavò a rinunciare al credo religioso, meschina superstizione dei piccoli borghesi, in favore di quello comunista, e ad accettare con tutti i crismi della scientificità il materialismo di Carlo Marx e la scienza dello Stato rivoluzionario di Vladimiro Lenin.
Sotto la diretta guida di Orlando, gli studenti Pippo Faraci, Giovanni Cappello, Salvatore Maltese e Nino Mancuso – con le due donne in testa, e a dispetto del partito – diventarono avanguardia della lotta di classe mettendo a segno due attentati: uno a Randazzo, nel cortile del comando inglese, il ventun ottobre; e l’altro quattro giorni dopo, a Messina: in una scuola dove aveva trovato alloggio un reparto di scozzesi, con le cariche d’esplosivo fatte deflagrare durante l’adunata, quando i militari avevano ancora il cranio pesto per le sbornie della sera prima (avevano festeggiato lo spettacolo offerto loro da Tippy Allisey, ballerina d’occhio tondo e forma quadra).
Potrà sembrare illogico che i sovversivi catanesi s’incarognissero contro i liberatori, e doppiamente illogico per Orlando, dichiaratamente al servizio degli inglesi: ma non lo era alla luce della matrice ufficiale che marchiava ciascuno di quegli attentati. Nei manifesti di rivendicazione – con falce e martello e dicitura “Soviet di Sicilia” – si faceva infatti appello al compagno Stalin affinché inviasse nell’isola un contingente militare per costringere l’AMGOT a indire immediate elezioni con cui il popolo potesse liberamente costituire “la dittatura del proletariato”.
Gli storici, i cronisti e la voce della pubblica opinione non sono mai riusciti a venire a capo del groviglio intimo di Orlando, di quanto fosse labile in lui il confine tra buonafede e calcolo malvagio, né di quanto il suo operato fosse in armonia con la strategia dell’Office britannico. Per quest’ultimo aspetto, d’altronde, va detto che, contemporaneamente all’attività sovversiva di Turri, i rapporti commerciali inglesi nella parte orientale dell’isola andavano talmente intensificandosi da indurre Londra a ipotizzare l’aggiunta della Sicilia al bottino di Malta. Ambizione che gli USA sventarono per un soffio, da un lato bruciando un’intera falange di spie in Africa, dall’altro utilizzando la stampa italiana per denigrare la BP, British Petroleum, ribattezzata “Buon Pastore” al fine di far sapere a Londra di essere al corrente dei pacchi di sterline sganciati al Vaticano per assicurarsi la benevolenza del Partito popolare, che i Servizi indicavano come quello che avrebbe dettato legge nell’Italia democratica.
Di fatto, le perdite che gli attentati di Randazzo e Messina provocarono agli angloamericani furono non di vite umane bensì sul terreno ideologico, visto che “Pravda” e Radio Mosca si premurarono di farne propaganda per spronare i bolscevichi impegnati al fronte, rallegrati nel sapere che in quell’avamposto del Mediterraneo, pur conquistato al capitalismo imperialista, si accendevano fuochi d’insurrezione proletaria. Fuochi che non potevano certo essere di paglia, visto che i manifesti di rivendicazione, sempre gli stessi e sempre con falce e martello, continuarono a sbucare sulle cantonate di tutta l’isola anche a fumo degli attentati bell’e disperso.
Al di là del doppio gioco di Orlando, fu Eughenia Lenbach a far sì che quelle due insignificanti batterie di fuoco diventassero una seducente opportunità di propaganda per i sovietici.
Capitò quando lei e Angelica, in un pomeriggio di novembre, congedati amorevolmente ma con la consueta fermezza gli abituali ospiti, si chiusero in casa per passarvi la serata. Le due amiche cenarono, ascoltarono la radio, ballarono tutta la musica possibile, fantasticarono, scherzarono, scavarono nel passato i consueti aneddoti racimolati per svago, parlarono di compagne dimenticate degli anni d’infanzia. Poi, distese sul letto, cullate dalla sana frivolezza dello stare assieme, si abbandonarono al diletto dell’avventura sovversiva.
La maschera di Delphine dietro cui l’agente Ghez operava mise a frutto la sua salda conoscenza della lingua russa per redigere un perfetto esemplare di comunicazione sovietica. Dopo aver preparato la bozza con un pennino freneticamente intinto nell’inchiostro, Eughenia tradusse in caratteri cirillici quei due comunicati di rivendicazione che, ogni volta sbalordendo la popolazione e sgomentando le autorità militari, da quasi un mese raggiungevano con inesausta puntualità anche le più remote cantonate della Sicilia.
Mentre l’inchiostro di quella lingua astrusa e sospirata andava asciugandosi, Angelica guardò Delphine senza più il suo sguardo da matta pratica di chimica e scienze misteriche: era totalmente rapita dal sentimento d’amicizia che provava per la vedova belga. Il padre la dava quasi per dispersa, sapendola sempre fuori casa e morbosamente appiccicata a “quella forestiera”; il fidanzato si disperava per la promessa così spietatamente disattesa: ma nessuno dei due poteva immaginare la sua vita così stravolta, spinta così lontano rispetto alle rispettive e in fondo comuni attese.
La vedova, orgogliosa della trovata, completò l’opera issando falce e martello tra i blocchi di testo delle due lingue affratellate. Dopodiché le due amazzoni decisero di coricarsi: s’era fatto tardi, e Angelica non poteva certo avventurarsi verso casa in pieno coprifuoco. L’indomani, peraltro, avevano appuntamento lì stesso con Orlando, che sarebbe venuto di buon mattino a discutere come andasse fatto qualcosa di molto vicino a ciò che in realtà, grazie a quella strana serata di candore trasgressivo e fervore sovversivo, adesso era già bell’e pronto. Sicché Delphine e Angelica si strinsero nel letto della stanza che ancora odorava di inchiostro e si addormentarono.
Al mattino, puntuale al suo appuntamento nella casa del Borgo, Orlando si ritrovò, basito, a contemplare quel gioiello di propaganda. Avrebbe tanto voluto apporvi la sua firma di battaglia: Turri, ma non lo fece, per non compromettere un’operazione che giudicava perfettamente in linea con la strategia rivoluzionaria.
Giusto per non rinunciare del tutto a un proprio apporto, tuttavia, il professore si concesse il lusso di aggiungere in calce alla bozza una stella a cinque punte (marchio di sua esclusiva paternità, che tanto successo avrebbe avuto negli anni successivi). Poi, giusto per non concedere alle compagne un troppo vistoso vantaggio sul piano organizzativo, obiettò – ma con l’aria di fare un complimento – che quel lavoro era troppo bello ed efficace per limitarne la portata ai pochi esemplari che se ne potevano realizzare a mano: tutt’altro senso avrebbe avuto farne matrice di decine, centinaia, migliaia di esemplari stampati in tipografia. Peccato però, come si premurò di eccepire lui stesso per mostrarsi tanto attento alla gretta prassi quant’era pronto all’alata chimera, che in nessuna stamperia siciliana sarebbero riusciti a trovare un corredo di caratteri cirillici.
Era un’ipotesi che Eughenia aveva già preso in considerazione la sera prima, mentre davanti agli occhi ammirati di Angelica tracciava col pennino sulla carta i simboli di quella lingua odiata. In uno dei bauli nascosti nella cripta di Fleri c’era l’ingegnosa cassetta progettata dai Servizi tedeschi per fronteggiare qualsiasi necessità di controinformazione spiccia: una dotazione tipografica che, pur ridotta all’osso, comprendeva sicuramente un set di caratteri cirillici – ma di corpo probabilmente inadatto al formato dei manifesti. Inoltre sarebbe stato difficile per Eughenia spiegare a Orlando la provenienza di quel materiale senza al contempo rivelare troppo di sé: un rischio esagerato per un semplice scatenamento di zizzania e caos ideologico. Al momento doveva solo gettare allarme nel campo di Agramante, niente di più. Sicché decise di offrire un’espressione di rassegnato rammarico all’obiezione di Orlando, che già stava comunque elencando a dito a dito gli studenti più adatti a svolgere il lavoro di copiatura.
Ma lì intervenne risolutivamente Angelica: a Belmonte Mezzagno il suo zio pope aveva una scatola piena di “piombi” con l’alfabeto cirillico, dotazione della chiesa albanese per la trascrizione dei certificati dei fedeli da inviare ai patriarcati di Sofia e Costantinopoli in occasione di matrimoni e funerali. Non poteva giurare che fossero adatti alla bisogna: ma, il rischio essendo minimo, un tentativo si poteva sempre fare.
L’indomani lei e Eughenia si recarono a Belmonte. Nella casa del pope non trovarono nessuno: lo zio era sfollato con la famiglia nelle campagne di Campobello. Le due ragazze si intrufolarono nel magazzino dove Angelica aveva visto la cassetta, la trovarono, verificarono che i piombi ci fossero ancora, infilarono il tutto in una sporta colma di minestra sabbaggia raccolta lungo il sentiero e fecero ritorno a Catania. (Di lì a qualche mese, il pope scoprì che la cassetta era scomparsa e corse a denunciarne il furto; ma non trovò né carabiniere né graduato americano disposto a raccogliere per esteso la descrizione del materiale rubato, che perciò venne empiamente registrato come “oggetti liturgici”.)
I manifesti furono stampati in assoluta segretezza nella tipografia Faraci in via Monte Sant’Agata, la stessa che s’era occupata dei precedenti. Il titolare, don Rosario Faraci, era del tutto all’oscuro del pericoloso supplemento di lavoro esercitato nottetempo in quei locali; ma suo figlio Pippo, ventunenne studente di Orlando, si prestava volentieri, a condizione che i caratteri di stampa fossero sempre di provenienza diversa, per evitare che eventuali indagini portassero alla dotazione della tipografia paterna.
Anche quella volta Orlando e le due ragazze attesero l’ora di chiusura rintanati in un magazzino collegato con la tipografia per il solo tramite di un pozzo luce, per potervi accedere senza che nessuno li vedesse. Per l’occasione, il professore aveva fatto provvista di piombi presso la stamperia salesiana e nella sede dei GUF.
Alle quattro del mattino, dieci studenti convocati da Orlando all’angolo di via Monte Sant’Agata si accollarono la preziosa tiratura e andarono a smistarla sulle cantonate della città. Un’intera fila, affissa lungo le mura delle case affacciate sul piazzale della fiera vecchia, calamitò una folla terrorizzata all’idea che fossero arrivati i cosacchi russi. La locale federazione del PCD’I, pur lodando la correttezza della versione italiana (neppure per un istante sospettarono che il testo russo derivasse da un originale italiano, in blasfema violazione della primogenitura della lingua sacra), ne disconobbe la sostanza. I dirigenti intimar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Premessa
  5. ’U cuntu
  6. Nuova York, anno 1943 (e un antefatto in Baviera)
  7. Madonie, anno 1943
  8. Ponte Primosole (Piana di Catania), anno 1943
  9. Catania, anno 1943
  10. La falce della Mezzaluna, anno 1943 (con una digressione su Opelika, Alabama)
  11. Catania – Fleri, anno 1943
  12. Catania – Roma, anno 1943
  13. Catania, anno 1943
  14. Zafferana Etnea, anno 1943
  15. Zafferana Etnea – Priolo, anno 1943
  16. Monti Iblei, anno 1943
  17. Caltagirone e zolfara di Zimbalìo, anno 1943
  18. Catania, anno 1943-1944
  19. Palermo, anno 1944
  20. Palermo, anno 1944
  21. In viaggio verso Palermo, anno 1944
  22. Palermo (e agguati sparsi), anno 1944
  23. Terrasini, anno 1944
  24. Trapani – Levanzo, anno 1945
  25. I destini
  26. Notizia
  27. Backstage
  28. Bibliografia
  29. Indice