
- 182 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La nuvola di smog - La formica argentina
Informazioni su questo libro
'La nuvola di smog' è un racconto continuamente tentato di diventare qualcos'altro: saggio sociologico o diario intimo. Immagine e ideogramma del mondo cui ci troviamo a far fronte è lo smog. La nebbia fumosa è carica di detriti chimici delle città industriali. Questo volume comprende anche un racconto di qualche anno prima e molto diverso, 'La formica argentina', che l'autore ha voluto affiancare a 'La nuvola di smog' per un'affinità strutturale e morale. Qui il male di vivere viene dalla natura: le formiche che infestano la riviera.
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Informazioni
eBook ISBN
9788852016448La nuvola di smog
Era un periodo che non m’importava niente di niente, quando venni a stabilirmi in questa città . Stabilirmi non è la parola giusta. Di stabilità non avevo alcun desiderio; volevo che intorno a me tutto restasse fluido, provvisorio, e solo così mi pareva di salvare una mia stabilità interiore, che però non avrei saputo spiegare in che cosa consistesse. Perciò, quando, attraverso una catena di raccomandazioni, mi fu offerto un posto di redattore del periodico «La Purificazione», venni qui a cercare alloggio.
Per uno appena sbarcato dal treno, si sa, la città è tutta una stazione: gira gira e si ritrova in vie sempre più squallide, tra rimesse, magazzini di spedizionieri, caffè col banco di zinco, camion che gli soffiano in faccia getti puzzolenti, e cambia continuamente di mano la valigia, si sente le mani gonfie, sudice, la biancheria appiccicata addosso, il nervoso, e tutto quello che vede è nervoso, frantumato. La camera ammobiliata che faceva per me la trovai proprio in una di queste vie; agli stipiti del portone c’erano due grappoli di cartelli, pezzi di scatole da scarpe appesi a spaghi, con l’avviso delle camere da affittare scritto a rozzi caratteri e le marche da bollo in un angolo. Io che ogni tanto mi fermavo per cambiare di mano la valigia, vidi i cartelli ed entrai. In ogni scala, a ogni piano di quel casamento c’era un paio d’affittacamere; suonai al primo piano della scala C.
Era una camera qualsiasi, un po’ buia perché dava nel cortile per una porta-finestra, e ci s’entrava di lì, per un ballatoio dalla ringhiera rugginosa, così restava indipendente dal resto dell’alloggio, ma prima si doveva passare per un seguito di cancelletti chiusi a chiave; la padrona, signorina Margariti, era sorda, e temeva giustamente i ladri. Non c’era bagno; il gabinetto era sul ballatoio, in un casotto di legno; in camera c’era un lavabo con l’acqua corrente, senza impianto d’acqua calda. Ma insomma, cosa andavo cercando? L’affitto mi conveniva, anzi era l’unico possibile, perché di più non potevo spendere e non avrei trovato a meno; e poi doveva esser tutto provvisorio e volevo che questo apparisse chiaro anche a me stesso.
– Sì, sì, la prendo, – dissi alla signorina Margariti che credette avessi chiesto se ci faceva freddo e mi mostrò la stufa. Ormai avevo visto tutto e volevo lasciare lì i bagagli e uscire. Ma prima m’avvicinai al lavabo e misi le mani sotto il rubinetto; da quando ero arrivato avevo voglia di lavarmele, ma mi diedi solo una sciacquata perché mi seccava aprire la valigia per cercare il sapone.
– Oh, perché non me l’ha detto? Le porto subito la salvietta! – disse la signorina Margariti; corse di là e tornò con un asciugamani stirato che depose sulla spalliera della sedia. Io mi portai anche un po’ d’acqua al viso, per rinfrescarmi; mi sentivo fastidiosamente non pulito; poi mi strofinai con l’asciugamani. Da quel gesto la padrona finalmente capì che intendevo fissare la camera. – Ah, la prende! la prende! Bene, vorrà cambiarsi, disfare la valigia, faccia pure il suo comodo, qua c’è l’attaccapanni, dia qui a me il cappotto!
Non mi lasciai sfilare il soprabito; volevo uscire subito. Mi preoccupai soltanto di dirle che avevo bisogno d’uno scaffale: doveva arrivarmi una cassa di libri, quel po’ di biblioteca che ero riuscito a tenere insieme nella mia vita squinternata. Stentai a farmi capire dalla sorda; alla fine mi condusse di là , nelle sue stanze, davanti a un piccolo étagère dove teneva i suoi cestini da lavoro, scatole di rocchetti, roba da aggiustare e modelli di ricami; mi disse che l’avrebbe sgombrato e trasportato nella mia stanza. Uscii.
Il periodico «La Purificazione» era l’organo d’un Ente, e io dovevo presentarmi lì per stabilire quel che avevo da fare. Lavoro nuovo, città diversa, fossi stato più giovane o mi fossi aspettato di più dalla vita, m’avrebbero dato slancio e contentezza; adesso no, non sapevo vedere che il grigio, il misero che mi circondava, e cacciarmici dentro, non tanto come se vi fossi rassegnato, ma addirittura come se mi piacesse, perché ne traevo la conferma che la vita non poteva essere diversa. Perfino le vie che dovevo percorrere, le sceglievo così, le più secondarie e strette e anonime, anche se mi sarebbe stato facile passare per quelle con le vetrine eleganti e i bei caffè; ma mi dispiaceva perdere l’espressione dei visi logori dei passanti, l’aria striminzita dei ristoranti a buon mercato, lo stantio delle bottegucce, e anche certi rumori propri delle vie strette: i tram, le frenate dei furgoncini, lo sfriggere dei saldatori nelle piccole officine dei cortili: tutto perché quei logorii e stridori esterni m’impedivano di dar troppa importanza ai logorii e stridori che mi portavo dentro io.
Invece, per raggiungere quell’indirizzo, dovetti a un certo punto entrare in una zona tutta diversa, signorile, verdeggiante, antiquata, poco frequentata da veicoli nelle vie secondarie, abbastanza spaziosa nei grandi viali e controviali perché il traffico vi scorresse senza congestione né frastuono. Era autunno; qualche albero era d’oro. Il marciapiede non seguiva più muri di case ma cancelli, e di lì erano siepi, aiole, vialetti di ghiaia, che circondavano edifici tra il palazzo e la villa, dalle architetture ornate. Avvertivo adesso uno spaesamento diverso, perché non trovavo più cose in cui riuscissi a riconoscermi come prima, o a decifrare l’avvenire. (Non che io creda ai segni, ma per uno che è nervoso, in luoghi nuovi, ogni cosa che vede è sempre un segno.)
Ero un po’ disorientato, dunque, quando entrai negli uffici di quell’Ente, diversi da come me li ero immaginati, perché erano saloni d’un palazzo gentilizio, con specchiere e consolle e camini di marmo e tappezzerie e tappeti (ma il mobilio vero e proprio invece era normale fornitura d’ufficio novecento, e l’illuminazione era del tipo più moderno, con i tubi). Insomma, io adesso mi trovavo in soggezione per aver fissato quella camera così brutta e buia; tanto più quando venni introdotto nello studio del presidente, l’ingegner Cordà , che subito m’accolse con un’espansività esagerata, trattandomi da pari a pari, non solo come prestigio sociale e gerarchico – il che era già una situazione difficile da sostenere – ma soprattutto pari a lui come competenza e interesse nei problemi di cui l’Ente e il giornale «La Purificazione» si occupavano. Io che, a esser sinceri, credevo che fosse tutta una storia messa su tanto per fare, da parlarne strizzando l’occhio, e avevo accettato quel lavoro come un lavoro purchessia, adesso dovevo far la parte di quello che non ha mai pensato ad altro in vita sua.
L’ingegner Cordà era un uomo sulla cinquantina dall’aria giovanile e coi baffi neri, cioè era uno di quella generazione che nonostante tutto è rimasta con l’aria giovanile e i baffi neri, tipi con cui non ho mai avuto nulla da spartire. Tutto in lui, discorsi, aspetto esteriore – vestiva di grigio, impeccabile, camicia d’un candore perfetto –, gesti – muoveva una mano con la sigaretta tra le dita –, spirava efficienza, facilità , ottimismo, spregiudicatezza. Mi mostrò i numeri de «La Purificazione» che erano usciti fin allora, messi insieme da lui (che ne era il direttore) e dal capufficio-stampa dell’Ente, dottor Avandero (me lo presentò; uno di quei tipi che parlano come fosse scritto a macchina). Erano pochi numeri, assai magri, e si vedeva che non erano fatti da gente del mestiere. Per quel poco che m’intendevo di come si fanno i giornali, trovai il modo di dirgli – senza far critiche, s’intende – come l’avrei fatto io, le modificazioni tecniche che avrei apportato. M’era venuto d’usare anch’io quello stesso tono di praticità , di sicurezza dei propri risultati; e m’accorsi con soddisfazione che ci intendevamo. Con soddisfazione: perché io più facevo l’efficiente e l’ottimista più pensavo a quella camera d’affitto misera, a quelle vie squallide, a quel senso di rugginoso e d’attaccaticcio che mi portavo addosso, al mio non importarmene niente di niente, e mi pareva di fare un gioco di prestigio, di stare trasformando in un ammasso di briciole sotto gli occhi dell’ingegner Cordà e del dottor Avandero tutta la loro efficienza tecnico-industriale, e loro non se ne accorgevano, e Cordà annuiva tutto entusiasta.
– Benissimo, allora senz’altro lei domani, siamo intesi, e intanto, – mi diceva Cordà , – perché sia aggiornato… – e voleva darmi da leggere gli atti del loro ultimo congresso. – Ecco, – mi condusse davanti a uno scaffale dov’erano disposte in tante pile le copie ciclostilate delle relazioni. – Vede? Prenda questa, e quest’altra, e questa ce l’ha già ? Ecco, conti lei se ci son tutte, – e così dicendo prendeva in mano quei fogli; fu allora che io vidi da essi sollevarsi una piccola nube di polvere, e sulla loro superficie appena toccata disegnarsi l’orma delle dita. Ora l’ingegnere, sollevando i fogli, cercava di dar loro una sbattutina, ma appena appena, come non volesse ammettere che erano impolverati, e ci soffiava a fior di labbra. Stava attento a non mettere le dita sulla prima pagina d’ogni relazione, ma bastava che la sfiorasse con la punta d’un’unghia perché un serpentello bianco rimanesse tracciato su quello che ora appariva un fondo grigio, ricoperto com’era d’un velo minutissimo di polvere. Però le dita gli restavano sporche lo stesso, si vede, e cercava di pulirsele piegandole sul palmo e muovendo i polpastrelli, col risultato di riempirsi di polvere tutta la mano. Allora istintivamente abbassava le mani ai fianchi dei pantaloni di flanella grigia, e si tratteneva appena in tempo, le risollevava, e così stavamo tutti e due, muovendo i polpastrelli a mezz’aria e passandoci quelle relazioni, prendendole appena appena per il margine come fossero foglie d’ortica, e intanto continuavamo a sorridere, a sorridere, ad annuire, compiaciuti, a dire: – Oh, sì, un congresso interessante! Oh, sì, una buona attività ! – ma io m’accorgevo che l’ingegnere si sentiva sempre più nervoso e insicuro, e non riusciva a sostenere il mio sguardo trionfante, il mio sguardo trionfante e disperato, perché tutto confermava d’essere veramente come io pensavo.
Tardavo a prender sonno. La camera, apparentemente tranquilla, di notte era raggiunta da suoni che imparai a decifrare a poco a poco. A tratti si sentiva salire una voce deformata da un altoparlante, che dava brevi avvertimenti incomprensibili; se m’ero assopito mi svegliavo credendo d’essere in treno perché il timbro e la cadenza erano quelli degli altoparlanti delle stazioni, come affiorano la notte nel dormiveglia del viaggiatore. Fattoci l’orecchio, riuscii ad afferrare le parole. «Due raviolini al sugo… – dicevano. – Una bistecca ai ferri… Una costata…» La camera era sopra le cucine della birreria «Urbano Rattazzi», che faceva servizio di tavola calda anche dopo mezzanotte: dal banco i camerieri trasmettevano le ordinazioni ai cuochi scandendole in un citofono. Sulla scia dei messaggi saliva fino a me un confuso vocio e talora il coro intonato da qualche comitiva. Ma era un buon locale, un po’ caro, frequentato da un pubblico non volgare: erano rare le notti in cui un ubriaco dava in smanie e rovesciava i tavoli carichi di bicchieri. Stando a letto i rumori della veglia altrui arrivavano attutiti, senza brio né colore come attraverso una nebbia; la voce nell’altoparlante: «Un contorno di patatine fritte… Arrivano quei raviolini?» era d’una tristezza nasale e rassegnata.
Verso le due e mezzo la birreria «Urbano Rattazzi» calava le saracinesche; i camerieri, alzato il bavero dei soprabiti sopra le giacchette tirolesi dell’uniforme, uscivano dalla porta della cucina e attraversavano il cortile chiacchierando. Verso le tre un frastuono di ferraglie invadeva il cortile: gli sguatteri trascinavano fuori i pesanti bidoni da birra vuoti inclinandoli sugli orli e facendoli ruotare e sbatacchiandoli; poi si mettevano a sciacquarli. Erano gente, questi sguatteri, che se la prendeva calma, certo essendo pagati a ore, e lavoravano sbadati, fischiando e con gran fracasso di quei fusti di zinco, per un paio d’ore. Verso le sei veniva il camion della birra a portare i bidoni pieni e a ritirare i vuoti; ma già nella sala della «Urbano Rattazzi» erano cominciati i rumori delle lucidatrici che pulivano i pavimenti per la giornata che ricominciava.
Nei momenti di silenzio, in piena notte, di là , dalle stanze della signorina Margariti, esplodeva nel buio un parlare fitto fitto, frammisto di risatine, di domande e risposte, tutte d’una sola voce femminile in falsetto; la sorda non sapeva distinguere l’atto del pensare da quello del dire ad alta voce e a ogni ora del giorno o anche svegliandosi nel cuor della notte, ogni volta che s’infervorava in un pensiero, in un ricordo, in un rimorso, si metteva a parlare da sola, modulando le battute di dialoghi tra diversi interlocutori. Per fortuna questi soliloqui, data la concitazione, erano incomprensibili; eppure comunicavano il disagio d’essere messi a parte di intimità indiscrete.
Di giorno, quando entravo in cucina a chiederle un po’ d’acqua calda per la barba (a bussare non sentiva e dovevo entrare nel raggio del suo sguardo perché s’accorgesse della mia presenza), mi capitava di sorprenderla che parlava allo specchio con sorrisi e smorfie, o seduta su una sedia con lo sguardo nel vuoto, che si raccontava qualche storia; allora si ricomponeva d’improvviso e diceva: – Uh! stavo parlando al gatto, – oppure: – Scusi, non l’avevo vista: stavo pregando, – (era molto devota) ma il più delle volte non si rendeva conto d’esser stata intesa.
Che molti dei suoi discorsi fossero rivolti al gatto, era vero. Riusciva a fargli dei discorsi di ore, e certe sere la sentivo continuare a fare «pcc… pcc… micio micio micio» alla finestra, aspettando che tornasse dai suoi giri per ballatoi, tetti e terrazzi. Era un gatto striminzito e selvatico, d’un pelo nerastro che ogni volta che tornava a casa era grigio, come se assorbisse tutta la polvere e la fuliggine del quartiere. Da me scappava appena mi vedeva di lontano e si nascondeva sotto qualche mobile, come se l’avessi per lo meno picchiato, sebbene neanche gli badassi. Ma in camera mia, mentre non c’ero, doveva entrarci: la camicia bianca lavata che la padrona disponeva sul marmo del cassettone la trovavo sempre con le impronte fuligginose delle sue zampe sul colletto e sul petto. Mi mettevo a gridare imprecazioni, che presto interrompevo perché la sorda non m’avrebbe sentito, e andavo di là a metterle il disastro sotto gli occhi. Si rammaricava, cercava il gatto per punirlo; mi spiegava che certo quando lei era entrata in camera mia per portare la camicia il gatto l’aveva seguita senza che lei s’accorgesse; così l’aveva chiuso dentro e la bestia aveva sfogato la sua rabbia di non poter uscire saltando sopra il cassettone.
Avevo solo tre camicie e dovevo darle a lavare continuamente perché – non so se fosse la vita ancora non ben assestata che facevo, l’ufficio da mettere in ordine – dopo mezza giornata erano già sporche. Così mi toccava sovente d’andare in ufficio con le orme del gatto sul colletto.
Alle volte trovavo le orme anche sul guanciale. Doveva esser rimasto chiuso dopo aver seguito la signorina Margariti che la sera veniva «a far la rovescina» al mio letto.
Non c’era da meravigliarsi che il gatto fosse così sporco: bastava posare una mano sulla ringhiera del ballatoio per ritirarla striata di nero. Ogni volta che rincasavo, a manovrare con le chiavi attorno a quattro serrature o lucchetti, e poi a ficcare le dita tra i listelli della persiana per aprire e richiudere la porta-finestra, mi sporcavo le mani in modo che entrando dovevo tenerle sollevate per non lasciare impronte, e andare subito al lavabo.
Con le mani lavate e asciugate mi sentivo subito meglio, come se ne avessi riacquistato l’uso, e mi mettevo a toccare e a spostare quei pochi oggetti che c’erano intorno. La signorina Margariti, devo dire, teneva la camera abbastanza pulita; spolverare, spolverava tutti i giorni; però alle volte, a mettere le mani in certi punti dove lei non arrivava (era di statura molto bassa, e corta di braccia) le ritraevo tutte vellutate di polvere e dovevo tornare subito a lavarmele.
Il problema più grave erano i libri: li avevo messi in ordine su quell’étagère ed erano essi soltanto a darmi l’impressione che quella fosse la mia casa; l’ufficio mi lasciava del tempo libero e volentieri avrei passato qualche ora in camera a leggere. Però i libri si sa quanta polvere assorbano: ne sceglievo uno allo scaffale, ma prima d’aprirlo dovevo strofinarlo con un cencio tutt’intorno, sul taglio, e po...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Presentazione
- Cronologia
- Bibliografia essenziale
- La nuvola di smog — La formica argentina
- La nuvola di smog
- La formica argentina
- Postfazione di Mario Barenghi
- Copyright