Il ribelle
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Il ribelle

L'avventura della fondazione

  1. 420 pagine
  2. Italian
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Il ribelle

L'avventura della fondazione

Informazioni su questo libro

Il comandante della cavalleria di Tarquinia, un nobile etrusco giusto e coraggioso, commette un orribile crimine per difendere il suo onore: uccide la moglie insieme all'ennesimo amante. Lei, però, è la nipote del re e quel sangue che reclama vendetta lo costringe all'esilio. Deve abbandonare la sua terra, le origini illustri, e persino il suo nome: da quella notte si chiamerà semplicemente Larth. Nei pressi del guado sul Tevere, stremato dalla fuga, Larth si addormenta in un bosco sacro, dove sogna di fare parte della banda di pastori ribelli che popola l'Aventino. È un segno divino, e come tale va rispettato: al risveglio decide di unirsi ai banditi. Ben presto si accorge che fra quei pastori, rozzi ma valorosi, spicca la figura di Romolo, che al contrario del gemello Remo – prepotente e sanguinario – possiede tutte le caratteristiche per diventare un ottimo re. La zona è paludosa, malsana, ma all'occhio acuto di Larth non sfuggono le potenzialità del guado e dei territori circostanti, l'importanza di quello strategico crocevia di genti e merci di ogni provenienza. Qualità che solo un buon capo originario del luogo saprebbe esaltare. E quando si scopre che Romolo è di stirpe reale, l'esule etrusco può finalmente sperare di realizzare il suo sogno: mettere talento e valore al servizio di un giovanissimo re guerriero, aiutarlo a formare una cavalleria preparata, pronta ad affrontare le inevitabili lotte contro le città vicine per difendere la nuova patria. La patria che loro stessi dovranno fondare, Roma. Con una scrittura solida e tesa, decisa come i personaggi che racconta, Emma Pomilio ci riporta alle nostre radici, alle gesta e agli eroi che diedero forma alla civiltà così come oggi la conosciamo, violenta eppure capace di imprese grandiose. E ci riconduce alla Storia che, come un nocciolo duro, sta dentro la leggenda.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804589976
Parte terza

ROMA

XVI

Remo e Romolo si erano accampati con le bande sull’Aventino. Le genti che avevano occupato il colle durante l’assenza dei gemelli erano state contente di aggregarsi a loro.
Non c’era stato bisogno di costruire molte capanne, alcune c’erano già, ed erano state riparate con frasche nuove. Numitore aveva donato delle tende e alcuni schiavi. Remo e Romolo, come Silvi, ne occupavano una per ciascuno. Le due tende, con i lembi delle aperture sorretti da lance infisse per terra, si fronteggiavano al centro della radura, davanti a un grande spiazzo riservato alle adunate e ai fuochi serali.
Tutte insieme dalla parte opposta c’erano le tende degli Albani, i nemici di Numitore sconfitti, quelli che lo avevano tradito, permettendo ad Amulio di sottrargli il regno. La situazione ad Alba per loro si era fatta difficile, lo stesso Numitore, anche se nel suo discorso iniziale aveva asserito di averli già perdonati, non era contento della loro presenza e faticava a non dimostrarlo.
Con loro Amulio era sempre stato molto generoso. Per riconquistarseli e vivere in pace, Numitore appena riconfermato re aveva anche pensato di avvicinarli promettendo dei privilegi, ma questo gli ripugnava. Non si fidava di loro, per come lo avevano tradito vent’anni prima senza nessun pudore, dopo che li aveva fatti prosperare fino al punto di essere tanto forti da ribellarsi.
Avevano accettato di andare via da Alba a fondare la nuova città, accompagnati da clienti armati e servi e, appena fondata la città, vi avrebbero portato le loro famiglie, che ancora erano in Alba e rappresentavano un pegno di fedeltà. Non si sarebbero mai sognati di tradire i gemelli mentre le mogli e i figli erano nelle mani di Numitore.
All’arrivo sull’Aventino tutti avevano festeggiato con grande allegria, ma fondare una nuova città sul Tevere non sembrava un’impresa facile.
I Quiriti erano ben consapevoli di quello che stava accadendo. Bande armate si erano accampate nell’agro del Settimonzio. Non si trattava delle bande di un tempo, che non creavano grandi problemi alla città. I gemelli da pastori e briganti erano diventati principi e con loro c’era gente venuta da Alba.
I Quiriti si organizzavano militarmente e stavano rafforzando le difese prevedendo che i Silvi si stanziassero sull’Aventino e volessero sottrarre loro una parte dei pascoli e controllare il guado. Faustolo e Larenzia avevano lasciato la loro casa e si erano stabiliti in una capanna alle pendici dell’Aventino.
I gemelli cavalcavano ogni giorno lungo il Tevere insieme a Faustolo, con una grossa scorta, discutendo le caratteristiche dei luoghi che visitavano. Volevano un posto che si potesse difendere facilmente e non rimanesse impaludato nei periodi di piena del Tevere, e neppure fosse umido e malsano.
Si stavano convincendo che il posto migliore fosse proprio l’Aventino, e si chiedevano che ne avrebbero pensato i Quiriti. Comunque, quando fossero venuti a protestare, li avrebbero trovati in armi. Ormai le schiere dei principi Silvi si ingrandivano sempre di più, tra fuoriusciti e banditi di altre città, schiavi fuggitivi provenienti da ogni parte tra cui molti Etruschi, e giovani Quiriti che abbandonavano la città in cerca di una maggior fortuna. I gemelli avevano anche procurato alcune spade e i seguaci di più antica data erano quasi tutti armati.
Li seguivano da vicino, ascoltando gran parte dei loro ragionamenti, Larth, Tito e Novio. Altri fedelissimi, come Numasio e Quinzio controllavano l’accampamento, perché tra tante persone sconosciute e di diverse origini e abitudini non sorgessero scontri.
Ma si scoprì che non era questo il problema principale, quando cominciarono le incomprensioni tra i vecchi seguaci. Rimanevano nascoste, sotterranee, ma ogni tanto venivano alla luce, perché qualcuno si azzardava a porre qualche domanda ai gemelli. Domande caute, velate, poste in modo vago, ma dal senso chiarissimo per Remo e Romolo.
Come intendevano fondare insieme una città e regnarvi insieme? Come avrebbero potuto evitare invidie e incomprensioni? E se fossero stati di parere discorde su qualche decisione da prendere? E, se uno dei due avesse prevalso, i seguaci dell’altro sarebbero stati esclusi? I gemelli rispondevano che nella vita avevano fatto sempre tutto in comune e in perfetto accordo. Non potevano fare a meno l’uno dell’altro. Così avrebbero continuato.
Ma chiunque arrivasse all’accampamento prima o poi era costretto a schierarsi da una parte o dall’altra, e finiva col porsi gli stessi problemi, così non solo discutevano i seguaci di vecchia data, ma anche i nuovi, tutti in sordina comunque, perché comprendevano che ai gemelli e a Faustolo non faceva piacere.
I seguaci di Remo dicevano che Remo avrebbe dovuto comandare perché era il maggiore, il più forte e il più bello e affascinante, che fra i due aveva sempre prevalso ed era quello che sapeva attirare un seguito più numeroso. Che il fratellino avesse avuto una parte di primo piano ad Albalonga era scontato in quanto Remo era prigioniero. E Remo, quando aveva visto il fratellino tutto contento di stare in primo piano e nelle grazie del nonno, lo aveva lasciato fare con la sua abituale noncuranza e superiorità.
I seguaci di Romolo dicevano che le sue doti non erano mai state comprese perché era il minore, ma Romolo le aveva dimostrate quando aveva liberato il fratello, che si era fatto catturare per la sua ben nota imprudenza. Si appellavano poi ai fatti incontestabili che Romolo aveva restituito il trono a Numitore e che uccidendo Amulio aveva conquistato il diritto a essere re, mentre Remo non aveva questo diritto.
Gli argomenti dibattuti erano questi e altri, e gli echi arrivavano ai diretti interessati, che continuavano ad asserire che il loro accordo era la cosa più preziosa che possedessero.
Di notte l’accampamento era costellato di fuochi. Davanti alle tende dei Silvi si raccoglievano i fedelissimi.
Una sera avevano nostalgia dei vecchi tempi. Dopo aver sacrificato una pecora, allontanarono i servi di Numitore e chiamarono uno dei novellini, un ragazzo sveglio, uno tra quelli che sembravano promettere bene e di sicuro non era un pastore. Era il figlio di un vasaio che aveva litigato col padre ed era fuggito dalla sua città.
Gli ordinarono di preparare la carne per cuocerla allo spiedo e, nello scuoiare la bestia, di non rovinare la pelle che serviva per confezionare un otre. Si sedettero in cerchio a scaldarsi e il ragazzo prese il coltello e cominciò a scuoiare la carcassa per terra tra le loro ombre proiettate dal fuoco guizzante.
«Ma sono le mani di un uomo quelle che vedo? Mi sembrano le mani di una ragazza» disse Tito.
«Ma sì, forse non è questo il lavoro adatto alle sue mani» disse Larth.
«Vogliamo troppo da questo signorino di città» disse Faustolo.
Il ragazzo affilava continuamente il coltello e tentava di scollare nettamente la pelle dalla carcassa. Anche se non l’aveva mai fatto, aveva visto il servo di casa sua scuoiare qualche bestia. Alla luce incerta ce la metteva tutta per non fare brutta figura, ma lo prendevano in giro, lo angariavano in tutti i modi e, se lasciava un pochino di carne attaccata, gli dicevano che era uno sprecone.
Sudava, il coltello cominciava a sfuggirgli e prendeva false strade, una volta lo ferì. Ma il ragazzo era un tipo più duro di quello che sembrava e in poco tempo era arrivato al dorso.
«Ce l’ha fatta» disse Tito.
Proprio in quel momento il coltello bucò la pelle. E addio all’otre. Il ragazzo si guardò intorno, pronto a subire le peggiori ingiurie, ma vide solo facce ilari.
«L’hanno fatto anche a me, e se sapessi che disagio. Hanno capito subito che non era il mio mestiere» gli disse Larth, che si alzò e gli diede una pacca sulla schiena. «Ora sei dei nostri. Ma non lo raccontare in giro, o ci perdiamo il divertimento.»
«Adesso vattene» gli disse Tito. «Non è il caso che ci rovini la carne, ci penso io a preparare lo spiedo, lo so fare meglio dei servi.»
Mentre Tito girava lo spiedo, cominciarono i soliti ragionamenti. Pregi e difetti dei luoghi presi in considerazione per fondarvi la città.
Infine parlò Remo. «Ci rifletto da tempo» disse. «Su e giù per il corso del Tevere diamo sempre fastidio a qualcuno. Anche se ci allontaniamo verso la foce, i Quiriti non si sentiranno sicuri lo stesso, e noi saremo in pericolo per le incursioni dei pirati. E poi, se dobbiamo essere una città fondata per difendere i Latini dagli Etruschi, e Numitore ci ha dato il permesso per questo, il luogo che interessa di più gli Etruschi e dove tentano di affermarsi è il guado. Io dico di smetterla di cercare e di rimanere qui.
Dunque la mia proposta è di fondare una città sull’Aventino. È proprio addosso al guado, meglio che la città dei Quiriti. È un posto che si può fortificare facilmente, non risente di miasmi, anzi ha un’aria ottima. È ampio, e la nostra città si potrà espandere. È il luogo fortunato dove abbiamo imparato a cacciare, dove ci siamo riuniti coi nostri seguaci e dove sempre ci siamo rifugiati, e mai nessuno è riuscito a prenderci. È casa nostra.»
«Ma sull’Aventino ci siamo sempre rifugiati quando eravamo considerati briganti» disse Romolo, «oggi siamo cambiati. Oggi siamo Silvi e non possiamo permettere che la gente pensi a noi come a dei briganti.»
«Ma in questo modo hanno paura di noi» disse Remo.
«E in fondo ci disprezzano. Io voglio che abbiano fiducia in me» ribatté Romolo con rispetto ma anche con decisione.
Erano al dunque, pensarono gli altri.
«Allora che vuoi fare, fratellino? Io ti ascolto» disse Remo con affetto. Lontano da Alba, nei luoghi selvaggi dove lui, o meglio la forza bruta, predominava, era orgoglioso del coraggio che aveva dimostrato il suo fratellino uccisore di Amulio.
«Voglio fondare una città sul Palatino. Ha le stesse ottime prospettive dell’Aventino, è lontano dalle incursioni dei pirati ed è il luogo fortunato dove siamo stati salvati dal fiume, dove si trova la casa di nostro padre e nostra madre. Anche se non sono i nostri veri genitori, ci amano e ci hanno allevato bene. Sostengo che ci hanno allevato da Silvi, non ci hanno tolto il coraggio e l’orgoglio…»
Dopo il primo momento di stupore in cui nessuno riuscì ad articolare una parola, Romolo fu interrotto.
«Sei matto?» urlò Faustolo «I Quiriti ti uccideranno piuttosto. È il loro monte più importante. Ci abitano le famiglie più ricche.»
«Appunto. Ma ci abiti anche tu e ci abitavamo anche noi. Gli chiediamo se sono d’accordo. Diventeranno più potenti, sotto la guida di un re. Noi mettiamo a disposizione le nostre bande.»
«Non saranno d’accordo» disse Faustolo.
«Allora gli faremo la guerra.»
«Sei matto?» urlò di nuovo Faustolo, e qualcuno cominciò ad avvicinarsi per ascoltare. Faustolo lo scacciò e decise di dominarsi.
«Non sono matto» disse Romolo, «voglio fondare una città al guado sul Tevere, un posto dove tanti popoli vengono a commerciare e a concludere patti e affari. Ma non voglio un concorrente. Vicino a me non voglio gente armata che non sia con me. Non voglio qualcuno che mi dia fastidio. E poi abbiamo capito bene che anche altri sono interessati, e dunque se non lo facciamo noi lo faranno loro, forse i Sabini, forse gli Etruschi. Chi lo sa? E poi anche i Greci si guardano intorno… i Fenici…»
«Io pensavo che dovessimo fondare una città dove non c’è una città» disse Remo, incredulo.
«Infatti non è una città, ma con me diventerà una città. Oggi è solo un insieme di curie, che stando vicine credono di proteggersi l’una con l’altra» disse Romolo. «Queste cose me le ha spiegate bene il maestro che il nonno ci ha fatto venire da Gabii per imparare a scrivere.»
«Giusto, non hai imparato a scrivere…» sghignazzò Remo.
«Ma ho imparato molte cose.»
«Raccontaci, fratellino, sono meravigliato.»
«Un insieme di villaggi come Alba o di curie come la città dei Quiriti non è una vera città. Una città deve essere fondata con determinati riti e dopo aver preso gli auspici. Allora gli dèi la riconoscono e la proteggono.»
«Bene, allora faremo così per fondare la nostra città. Questa volta hai proprio ragione, fratellino. Il problema è dove.»
Larth si avvicinò a sussurrare all’orecchio di Tito, mentre tutti erano presi dalla discussione e non facevano caso a lui.
«Metti un altro spiedo con dei bei pezzi di carne teneri» gli disse, «e falli rosolare. Poi fatti dare un vassoio dai servi e metti la carne sul vassoio ben disposta. Qualche nastro non sfigurerebbe. Prendi anche un’anfora di vino. Il migliore, quello che Romolo tiene per quando si sacrifica. Poi vai alle tende degli Albani, presentati al loro capo e di’ che Larth gli manda questa roba e anche i suoi omaggi.»
T...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il ribelle
  4. PERSONAGGI PRINCIPALI
  5. Parte prima. IL GUADO SUL TEVERE
  6. Parte seconda. ALBALONGA
  7. Parte terza. ROMA
  8. Parte quarta. IL COMANDANTE CELERE
  9. Copyright