Mammut
eBook - ePub

Mammut

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Benassa è lo storico, coriaceo rappresentante sindacale dei lavoratori alla Supercavi di Latina- Borgo Piave. La tuta blu sull'anima, la trattativa nel sangue, era il terrore di ogni direttore del personale. Tutti i comunicati che emetteva il Consiglio di fabbrica, li componeva lui di notte. Ed erano poemi. "Mazzate a rotta di collo sull'Azienda e su tutti i Dirigenti. Come movevano una paglia, lui li tartassava sopra la bacheca." Sapeva fare solo quello. E solo quello aveva sempre fatto.
Per anni ha guidato le lotte dei compagni, tra cortei e blocchi stradali, picchetti e occupazioni, conquiste e delusioni, ma ora che bisogna combattere l'ultima decisiva battaglia sindacale, la gloriosa azione collettiva per tenere la fabbrica aperta e sul mercato, Benassa è stanco. Sul punto di mollare. O forse no.
Dopo un'occupazione epica della centrale nucleare di Latina, in due giorni di febbrile clausura nel sepolcro dello stabilimento, Benassa cerca di spiegare ai propri compagni le sue ragioni. Perché dopo vent'anni spesi a lottare per loro sta per cedere alle richieste del capo del personale? Perché è sul punto di accettare di essere pagato per stare fuori dalla fabbrica? Questo è il primo libro di Antonio Pennacchi, il suo romanzo d'esordio, una grande epopea operaia scritta nel 1987, quando era lui pure come Benassa operaio in Fulgorcavi, e il suo eccentrico talento doveva vedersela coi turni di notte alle coniche e alle bicoppiatrici. Con il suo stile ribaldo, insieme ironico e drammatico, racconta una storia di fabbrica e di conflitti sindacali, di un tempo in cui gli operai erano davvero "uno per tutti e tutti per uno" e tra i capannoni della Fulgorcavi/Supercavi si alternavano la rivolta radicale e la solidarietà più accorata, l'odio per il lavoro organizzato e l'orgoglio per la potenza delle macchine. Nel frattempo quella classe operaia "che doveva fare la rivoluzione", e che invece si è avviata inesorabilmente all'estinzione, proprio come i mammut nella preistoria, è tornata a farsi vedere e sentire. Colpo di coda, canto del cigno? O rinascita, riscossa? Come si dice, ai posteri... Quello che è certo è che il romanzo di Pennacchi, che di quella classe ci racconta gioie e dolori, fatiche e speranze, conserva ancora intatta la sua forza e la sua illuminante sagacia, e quella capacità, che è tipica solo dei classici, di essere esemplare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804610717
eBook ISBN
9788852017827

Libro secondo

Martedì

1

Martedì 28 ottobre, alle ore 14, era convocato un incontro di trattativa. Tra il Consiglio di fabbrica e la Direzione aziendale.
Per cui, alle sei, Benassa, prima di addormentarsi, avvisò Giovanna: «Chiamami verso l’una. E non facciamo che ti scordi un’altra volta». Perché ogni tanto succedeva che lei dimenticasse di svegliarlo. E si presentava alle riunioni con un paio d’ore di ritardo.
Oppure, quando telefonava qualcheduno e lui non c’era, «Torna fra poco» lei rispondeva.
«Gli dica, per piacere, di richiamarmi lui. Urgentemente.»
«Non dubiti. Arrivederci» e ritornava a correre appresso ai ragazzini. Quando lui tornava, quel tizio si era perso nella memoria. Riemergeva dopo tre giorni, o anche una settimana. Quando era troppo tardi.
Quel giorno lo svegliò puntuale. All’una. Lui si alzò di malavoglia. Perché stava ancora nel sonno più profondo. Dormendo proprio di gusto.
Si riconsolò. Pensando che la sera appresso avrebbe dormito a casa, accanto a lei. Invece di andare a lavorare. Poiché, per le riunioni, spettano i permessi sindacali.
Si fece la barba e lavò le ascelle. Riempiendole di deodorante stick.
Poi sedette a tavola e mangiò – più per dovere che per piacere – insieme alla famiglia. Non aveva fame. Ma neanche voleva correre il rischio che la fame gli venisse poi. Verso le tre o le quattro del pomeriggio, nel bel mezzo della riunione.
Finì quindi, con diligenza, il suo piatto di pastasciutta, accompagnando con una sorsata d’acqua ogni forchettata di rigatoni. Poi bevve il caffè. Tiepido. Che era già nella tazzina. E fece un giro intorno al tavolo, per salutare la famiglia.
Quando baciò Giovanna, le bisbigliò all’orecchio, ma piano piano: «Stasera fatti trovare tutta profumata. Che ti voglio leccare dappertutto».
«Va’ in môna» lo respinse lei ad alta voce. Facendosi rossa e imbarazzata. Mentre i figli la guardavano senza capire.
«Appunto» la salutò mentre usciva, ridendo adesso di buon gusto, dalla porta-finestra della cucina. Salì in macchina e partì alla volta della fabbrica.
Subito dopo Borgo Podgora, mentre sorpassava in terza un camion con rimorchio che procedeva lentamente, si ricordò di avere risognato Cesare-Dio-Carlo Marx. E di essere riuscito, finalmente, a scorgere il titolo del libro che reggeva Piero Angela. Si trattava, naturalmente, dell’Uomo e la marionetta. «Era ora» si disse soddisfatto. «La prossima volta debbo concentrarmi su Papa Luciani. Chissà che c’entra?»
Arrivò in fabbrica dieci minuti prima delle due. «E che è successo» lo accogliemmo tutti quanti, «tua moglie ti ha buttato fuori con la scopa?»
Ma l’incontro iniziò lo stesso alle due e mezza; perché arrivò in ritardo la delegazione dell’Azienda: «Scusateci. Noi, oramai, davamo per scontata una mezz’oretta di ritardo…».
«Scusi lei, dotto’. È colpa di Benassa, che è venuto prima.» E cominciammo.
Stavamo lì per vedere se riuscivamo a costruire un sistema, matematico ed oggettivo, per legare la dinamica degli aumenti salariali all’andamento della produttività. Una specie di cottimo collettivo.
Noi ci eravamo andati a capochino; tirati per il collo. Da lui. Perché una cosa del genere c’era già stata, ai tempi del Padrone. Nei primi anni di vita della fabbrica. Ma era stata spazzata via dal Sessantotto. E noi eravamo ancora della buona idea che gli stipendi dovessero essere tutti eguali: operai, impiegati, medici e piloti d’aeroplano.
Adesso, però, la musica era cambiata. Adesso, tutti dicevano la messa: partiti, chiesa, governo, Confindustria e sindacati: la professionalità deve essere valorizzata; gli aumenti di stipendio non debbono superare il tasso d’inflazione; ogni incremento salariale deve essere legato alla produttività. Ma solo per gli operai dell’industria, ovviamente. Tutti gli altri: vai col tango.
«Pare sia diventata legge di Dio e dell’universo» aveva detto Benassa. «Ed anche Gorbaciov cammina come un treno, su questa strada. I cinesi, intanto, hanno riaperto la Borsa di Shangai. Povero Lin Piao…» Poi si è rimboccato le maniche: «Qui bisogna che ci adeguiamo pure noi, prima che ci mandino all’Asinara. Vogliono che ci facciamo carico della produttività e dell’organizzazione del lavoro? Va bene. Noi, intanto, la tiriamo per le lunghe. Poi, alla fine, andiamo più a destra del Partito: oltre ai soldi gli chiediamo le azioni. E qualche posto in Consiglio di Amministrazione».
«Sì, ce li stanno proprio per dare», annuiva Ferrari, mentre gli metteva una mano sulla fronte per accertarsi della febbre. Nello stesso momento Adalciso, che si commoveva sempre quando Benassa riatterrava, si alzava e lo abbracciava: «Sei grande. Dovresti essere tu l’Amministratore delegato! O il Capo di tutti i sindacati».
Ma presto il disegno aveva rivelato la corda. Perché nessuno, di noialtri, aveva voglia di andargli dietro. E continuare nella lotta, giorno per giorno. Ci eravamo tutti stufati.
Noi volevamo solo stare tranquilli. Ed essere lasciati in pace: «Salario e produttività? Va bene, facessero come gli pare. Basta che nessuno tocchi il culo mio».
I soldi, certo, tutti noi li volevamo: «Ma quello è il compito suo. Trovasse lui, il modo di farceli ottenere. E si arrangiasse un po’ come gli pare».
Quindi, adesso, la trattativa languiva già da qualche mese. Lui continuava, imperterrito ed ostinato, a portarsela avanti tutta da solo. Senza averne più molta convinzione. E traendo forza solo dall’abitudine e dalla sua etica professionale. Sapeva fare solo quello. E solo quello aveva sempre fatto.
L’Azienda, poi, cominciava già a sentire puzza di bruciato.
Per cui, anche martedì la riunione fu pallosa assai. Parlavano di indici. Di elementi di bilancio. Di rilevazioni dati. Di computi estimativi. Di controllo di gestione. Di efficienza. Di istogrammi. Di parametri e coefficienti. Di equazioni. Di formule matematiche. Di parabole ed iperboli. Di ergonometria.
Se la parlavano soltanto in tre. Benassa da parte nostra, e i due del Planning da quell’altra.
Tutti gli altri non capivamo un tubo. Di quello che si dicevano. L’ingegner Serrelli, ogni tanto, li interrompeva. E diceva anche lui la sua. Per far vedere che li seguiva a ruota. Ma loro sbuffavano ogni volta. Mica stavamo a Rio Martino.
Un Importante Capo era tutto uno sbadiglio. Ogni tanto si assopiva, e chiudeva proprio gli occhi.
Verso le quattro e mezzo facemmo una sospensione. Noi andammo in Palazzina, a prendere un caffè alla macchina automatica. Gli chiesi: «Allora, come ti pare?».
«Due palle» mi disse lui.
«Bena’, sapessi noi.»
«Pure… Mi sento come sant’Antonio abate nel deserto. Solo che io non ho nemmeno un porco, a farmi compagnia.» E pareva depresso per davvero.
«Madonna!» tentai di tirarlo su. «Non ti ho mai visto col morale così a terra.»
Riprendemmo come prima. E lui sembrava ancora identico a se stesso: tempestava di dubbi le ipotesi degli avversari, si inventava sull’istante ipotesi sempre nuove. Ma era solo professionalità.
Finimmo la riunione verso le sette della sera. Senza avere concluso molto. E la aggiornammo alla settimana dopo.
Quando eravamo già nel cortile, alla spicciolata, scambiandoci nel buio i saluti e le ultime battute, il Direttore del Personale lo tirò in disparte: «Ma non ci sarebbe proprio modo di poterle parlare da solo a solo?».
«Quando vuole» gli uscì deciso. Dopo tanti anni di rifiuti. Imprevisto e inaspettato anche da lui.
«Dove?» ribatté l’altro. Velocissimo. Per non dargli il tempo di ripensarci sopra.
«Da lei. Vengo domani pomeriggio. Nel suo ufficio.»
«La aspetto!» lo salutò. Con l’aria di chi ha azzeccato, finalmente, un terno al lotto.
Appena in macchina, Benassa fu assalito da un’ansia nuova. Più che nello stomaco, se la sentiva nella testa. La governò bene, fino a casa. Sforzandosi di pensare, solamente, ai microepisodi della riunione.
Trovò la cena scodellata e si sedette a tavola. Con Giovanna. I bambini trangugiarono alla svelta un po’ di minestrina. Si fecero infilare la fettina in un panino, e tornarono di corsa in sala. Davanti alla televisione, ad attendere la sigla di “Love me Licia”.
Restarono da soli. Lui diede la stura all’ansia: «Mi sa che mollo tutto», mentre si portava verso la bocca un altro cucchiaio di minestra.
«Lo hai detto tante volte» rispose lei incredula. Servendosi il fiordilatte e l’insalata. Nello stesso piatto in cui prima c’era il brodo.
«Mi sa che stavolta è vero… Minestra, ce n’è ancora?», raccogliendo, nel cucchiaio, gli ultimi anellini.
«È nella pentola… Perché, oggi che è successo?» gli chiese preoccupata. Con un pezzetto di mozzarella sulla forchetta, a due passi dalla bocca.
Lui si alzò. Girò attorno al tavolo. Prese la pentola d’acciaio che stava sopra al gas, spento. La svuotò nel piatto, che risultò pieno fino all’orlo. Poi risedette. Misurò un cucchiaio di olio crudo nella minestra, la rimestò e ricominciò a mangiare: «Mi hanno chiamato per domani. Vogliono parlarmi da solo. Sicuramente vogliono comprarmi». E lo disse quasi di corsa, tra una cucchiaiata e l’altra.
«Come fai ad esserne così sicuro? Chissà di che cosa vogliono discutere…» disse Giovanna.
«E mica mi avranno chiamato per discutere di calcio. O no?»
«Eh, no. Ma tu che intenzioni hai?»
«Non lo so ancora. Certo, mi sono stancato di questa vita. Se vado avanti così, è capace che mi faccio venire un tumore psicosomatico.»
Giovanna parve rabbuiarsi. Ed inghiottirono in silenzio gli ultimi bocconi. «La mozzarella non la mangi?» gli chiese un po’ alterata. Vedendo che anche lui, sazio dei due piatti di minestra, dava segno di aver finito.
«È buona per domani» le rispose.
E lei si alzò. Per rassettare la cucina. Quando fu all’opera al lavello – senza voltarsi e mischiando la sua voce allo sbattere dei piatti sotto l’acqua – gli ricordò: «Guarda che in ogni caso i bambini mangiano tre volte al giorno».
«Sta’ tranquilla» la rassicurò, varcando la porta della sala per andarsi a stendere sul divano, davanti alla televisione; mentre lei continuava a brontolare: «Sto proprio tranquilla. È da quando ho conosciuto te, che sto sempre tranquilla».
Appena ebbe finito li raggiunse. In silenzio, si gustarono due ore di spot pubblicitari. Disturbati, ogni tanto, dalle sequenze di un film d’amore.
Solo quando furono nel letto, sotto le coperte, lui si avvicinò. Lei si rifiutò, voltandosi dall’altra parte. E ritornò sulla questione: «Pensaci bene prima di decidere. Perché io lo so come sei fatto. Dopo ti farai venire chissà quanti sensi di colpa, e starai peggio di prima. E poi, tu non sei uno che può, di punto in bianco, lasciare il sindacato e vivere in santa pace. Senza dar fastidio più a nessuno. Tu sei sempre uscito da un impiccio per ficcarti dentro un altro. Comincerai ad annoiarti, e ad annoiarmi, già dal giorno dopo… E adesso, vediamo di dormire».
Lui ci restò male. Soprattutto per via di quei progetti che s’era figurato dalle due. Ma non era proprio aria.
Allora chiuse gli occhi. E prese sonno subito. Perché avendo staccato la mattina, e dormito solo fino all’una, adesso si trovava in debito d’ossigeno.
Però fu un sonno assai agitato. Sognava a ripetizione. E tutti sogni brutti. Si svegliava all’improvviso, e poi si riaddormentava. Per svegliarsi un’altra volta, e riaddormentarsi ancora.
Sognava d’essere circondato dalla melma. E non saperne uscire. Al lago di Fogliano e al canale Mussolini. Sognava d’essere nei cessi – e non avevano mai fine – del 21° fanteria “Cremona”. Ad Asti.
Giovanna, pure lei, ogni tanto si svegliava. Ma perché era lui a disturbarla. Voltandosi in continuazione e rifilandole qualche manata, mentre biascicava parole senza senso.
«Eppure, ha mangiato solo la minestra» pensò lei. E soltanto dopo un po’ le riuscì di dormire indisturbata. Quando lui parve acquetarsi.
S’era rimesso, infatti, a fare il sogno di Cesare. E...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Mammut
  4. Prologo. Il sabato dopo
  5. Libro primo. Lunedì
  6. Libro secondo. Martedì
  7. Libro terzo. Mercoledì
  8. Libro quarto. Giovedì e venerdì
  9. Epilogo. Due anni dopo
  10. Copyright