
- 378 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il re dei torti
Informazioni su questo libro
Clay Carter, avvocato, trentun anni, lavora all'Ufficio del gratuito patrocinio: tanto lavoro, pochi soldi e ancora meno soddisfazioni. E anche la vita sentimentale sta andando a rotoli: la fidanzata Rebecca l'ha appena lasciato perché lo considerava un immaturo, un perdente. Ma proprio mentre segue l'ennesimo caso disperato - un ex tossicodipendente reo confesso di un omicidio - un enigmatico personaggio legato a una potente multinazionale farmaceutica gli propone un accordo: milioni di dollari pur di far passare sotto silenzio i veri motivi della tragedia. Clay non ci pensa due volte. E così in breve lascia il suo squallido ufficio, apre uno studio lussuoso e si ritrova ai vertici della celebrità, proiettato nella ristretta cerchia dei ricchissimi esperti in cause per danni alla collettività, avvocati di grido che viaggiano con il loro jet privato. Ma presto arriva il giorno in cui anche Clay deve pagare il suo conto...
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Informazioni
Print ISBN
9788804536505eBook ISBN
97888520158091
Gli spari che piantarono le pallottole nella testa di Pumpkin vennero uditi da non meno di otto persone. Tre istintivamente chiusero le finestre, controllarono le serrature della porta e restarono rintanati nel rifugio sicuro, o almeno appartato, delle loro piccole abitazioni. Altri due, entrambi con una certa esperienza in fatti del genere, abbandonarono precipitosamente la zona correndo quanto se non più dell’uomo con la pistola. Un altro ancora, un fanatico del riciclaggio noto nel quartiere, stava frugando nell’immondizia alla ricerca di lattine di alluminio quando udì provenire da molto vicino le secche detonazioni del fattaccio quotidiano. Si buttò dietro una catasta di scatole di cartone e attese che la pioggia di colpi cessasse, poi entrò con circospezione nel vicolo, dove vide ciò che restava di Pumpkin.
E due avevano assistito quasi all’intera scena. Erano seduti su cassette di plastica per il latte all’angolo tra Georgia e Lamont davanti a una rivendita di alcolici, parzialmente nascosti da un’automobile parcheggiata. L’assassino, che prima di seguire Pumpkin si era guardato per un attimo intorno, non li aveva notati. Entrambi avrebbero raccontato alla polizia di aver visto il ragazzo infilare la mano nella tasca ed estrarre una pistola; l’arma era ben visibile, piccola e nera. Un secondo dopo avevano sentito gli spari, anche se non avevano visto con i loro occhi Pumpkin colpito alla testa. Un altro secondo e il ragazzo con la pistola era uscito correndo dal vicolo e, per qualche ragione, aveva puntato proprio verso di loro. Correva proteso in avanti, come un cane impaurito, colpevole che più di così non si poteva. Ai piedi portava scarpe da basket rosse e gialle che sembravano di cinque numeri troppo grandi e nel fuggire le sbatacchiava sul marciapiede.
Quando era passato davanti a loro impugnava ancora la pistola, probabilmente una calibro 38, e per un istante aveva avuto un sussulto, guardandoli e rendendosi conto che avevano visto troppo. Per un terribile secondo era sembrato che alzasse la pistola come a voler eliminare i testimoni, entrambi i quali si erano catapultati all’indietro dalle loro cassette di plastica in un concitato agitarsi di braccia e gambe. Poi il ragazzo era scomparso.
Uno dei due testimoni aprì la porta della rivendita di liquori e urlò di chiamare la polizia, c’era stata una sparatoria.
Mezz’ora dopo, la polizia ricevette una telefonata in cui si segnalava che un ragazzo corrispondente alla descrizione dell’assassino di Pumpkin era stato visto due volte nella Nona. Girava con una pistola in mano e si comportava in un modo ancora più strano rispetto alla maggioranza della gente del posto. Aveva cercato di attirare almeno una persona in un lotto abbandonato, ma la vittima designata era scappata e aveva denunciato l’episodio.
La polizia trovò l’uomo un’ora più tardi. Si chiamava Tequila Watson, maschio, nero, vent’anni, con i prevedibili precedenti per droga. Nessuna famiglia con cui parlare. Nessun indirizzo. Ultimo domicilio conosciuto, un centro di riabilitazione in W Street. Era riuscito a liberarsi della pistola e, se aveva derubato Pumpkin, aveva gettato via anche il denaro, la droga o quale che fosse il bottino. Aveva le tasche vuote e gli occhi limpidi. I poliziotti erano certi che, al momento dell’arresto, Tequila non fosse sotto l’effetto di droghe o altro. Dopo un rapido e brusco interrogatorio in strada, venne ammanettato e fatto salire senza tanti complimenti su una macchina della polizia.
Lo trasferirono a Lamont Street, dove fu tempestivamente organizzato un confronto con i due testimoni. Tequila venne accompagnato nel vicolo dove aveva lasciato Pumpkin. «Mai stato qui prima?» gli chiese un poliziotto.
Tequila rimase in silenzio, fissando la pozza di sangue ancora fresco sul cemento sporco. I due testimoni furono condotti a loro volta nel vicolo, quindi fatti avvicinare a Tequila senza dare nell’occhio.
«È lui» dichiararono all’unisono.
«Ha gli stessi vestiti, le stesse scarpe da basket, tutto tranne la pistola.»
«È lui.»
«Non c’è dubbio.»
Tequila venne caricato di nuovo in automobile e trasportato in prigione. Fu arrestato per omicidio e chiuso in cella, con poche speranze di una rapida uscita su cauzione. Vuoi per esperienza o vuoi per paura, nonostante le insistenze e persino le minacce degli agenti, Tequila non aprì mai bocca. Non disse nulla che potesse incriminarlo, nulla che potesse scagionarlo. Nessuna indicazione del motivo per cui avrebbe assassinato Pumpkin. Nessun indizio dei loro precedenti, se ne esistevano. Un detective anziano, nel compilare il rapporto, notò che il delitto sembrava leggermente più casuale del solito.
Non vi fu richiesta di telefonate. Nessuna menzione di un avvocato o di un garante per la cauzione. Tequila sembrava un po’ sbalestrato, ma disposto a starsene tranquillo in una cella affollata a contemplare il pavimento.
Pumpkin, il cui vero nome era Ramón Pumphrey, non aveva un padre che potesse essere rintracciato, e i poliziotti impiegarono tre ore per trovare il suo indirizzo e individuare un vicino disposto a dire loro se aveva una madre.
Adelfa Pumphrey lavorava come guardia giurata nel seminterrato di un grande palazzo di uffici in New York Avenue. Stava seduta a una scrivania appena oltre la porta del seminterrato a vigilare, presumibilmente, su una fila di monitor. Era un donnone grande e grosso in un’attillata uniforme color cachi, con una pistola alla vita e un’espressione di completo disinteresse dipinta sul volto. Gli agenti che si recarono da lei fecero quello che avevano già fatto centinaia di volte: comunicarono la notizia, poi cercarono il suo superiore.
In una città dove non passava giorno senza che qualche giovane venisse ucciso, la carneficina quotidiana induriva la pelle e il cuore, e ogni madre ne conosceva molte altre che avevano perso i loro figli. Ogni scomparsa portava la morte un passo più vicino, e ogni madre sapeva che ogni giorno sarebbe potuto essere l’ultimo per il proprio figlio. E ogni madre aveva visto le altre sopravvivere alla tragedia. Seduta al suo tavolo, con il volto tra le mani, Adelfa Pumphrey pensò a Pumpkin e al suo corpo esanime abbandonato da qualche parte in città, che in quel preciso momento veniva ispezionato da sconosciuti.
Giurò vendetta verso chiunque lo aveva ucciso.
Maledisse il padre per aver abbandonato il figlio.
Pianse per il suo piccolo.
E sentì che sarebbe sopravvissuta. In un modo o nell’altro, sarebbe sopravvissuta.
Adelfa andò in tribunale per la contestazione dell’atto d’accusa. La polizia la informò che il tizio che aveva ucciso suo figlio avrebbe fatto la sua prima apparizione per un’udienza breve nella quale si sarebbe dichiarato non colpevole e avrebbe chiesto un avvocato. Adelfa era nell’ultima fila, tra suo fratello e un vicino di casa, a versare lacrime in un fazzoletto già umido. Voleva vedere il ragazzo. Voleva anche chiedergli perché, ma sapeva che non ne avrebbe avuto l’occasione.
Fecero entrare i criminali come bestiame a un’asta. Avevano tutti la pelle nera, indossavano tute arancione ed erano ammanettati. Erano tutti giovani. Un vero spreco.
Oltre alle manette, Tequila era ornato di catene supplementari ai polsi e alle caviglie, visto che il suo reato era particolarmente violento; anche se, quando fu scortato nell’aula con la successiva ondata di imputati, l’impressione che diede fu di un individuo abbastanza inoffensivo. Guardò rapidamente i presenti per vedere se riconosceva qualcuno, se ci fosse qualcuno che ce l’aveva con lui. Fu messo a sedere in una seggiola di una lunga fila e, come per rincarare la dose, uno degli ufficiali giudiziari si chinò e gli disse: «Il ragazzo che hai ammazzato. Quella là in fondo, vestita di blu, è sua madre».
A testa bassa, Tequila si girò lentamente a guardare negli occhi umidi e gonfi la madre di Pumpkin, ma soltanto per un secondo. Adelfa fissò il giovane magro nell’enorme tuta arancione e si domandò dove fosse sua madre, come lo avesse cresciuto, se avesse un padre e, soprattutto, come e perché la sua strada si fosse incrociata con quella del proprio ragazzo. Entrambi avevano più o meno la stessa età, intorno ai vent’anni. Gli agenti le avevano detto che, almeno da una prima verifica, sembrava che l’omicidio non avesse niente a che vedere con la droga. Ma lei non era così ingenua. La droga c’entrava sempre, nella vita di strada. Adelfa lo sapeva fin troppo bene. Pumpkin aveva fatto uso di marijuana e crack, e una volta lo avevano arrestato, per semplice possesso, ma non era mai stato un violento. Gli agenti dicevano che l’omicidio sembrava casuale. Tutte le uccisioni di strada sono casuali, aveva detto il fratello di Adelfa, ma tutte hanno una ragione.
A un lato dell’aula c’era un tavolo intorno al quale erano riunite le autorità. I poliziotti parlavano sottovoce con i pubblici ministeri, che scartabellavano appunti e verbali nel tentativo di tenere le documentazioni al passo con l’avvicendarsi degli imputati. Dall’altra parte c’era un tavolo al quale si succedevano gli avvocati difensori al ritmo con cui procedeva la catena di montaggio delle incriminazioni. Il giudice leggeva i capi d’accusa: reati di droga, una rapina a mano armata, un’aggressione probabilmente a sfondo sessuale, altri crimini di droga, molte violazioni della libertà vigilata. Quando veniva chiamato il loro nome, gli imputati erano condotti davanti al banco del giudice, dove rimanevano in piedi in silenzio. Dopo una rimescolata di scartoffie, venivano portati via e ricondotti in prigione.
«Tequila Watson» annunciò un ufficiale giudiziario.
Un altro ufficiale lo aiutò ad alzarsi. Avanzò camminando a strappi, in uno sferragliare di catene.
«Signor Watson, lei è accusato di omicidio» dichiarò a voce alta il giudice. «Quanti anni ha?»
«Venti» rispose Tequila, con gli occhi bassi.
L’accusa di omicidio, echeggiando nell’aula, aveva provocato un momentaneo silenzio. Gli altri imputati in tuta arancione lo guardarono ammirati. Avvocati e poliziotti erano incuriositi.
«Può permettersi un avvocato?»
«No.»
«Me lo immaginavo» borbottò il giudice, lanciando un’occhiata al tavolo della difesa. I fertili campi della sezione penale della corte superiore di Washington erano accuditi quotidianamente dall’Ufficio del gratuito patrocinio, la rete di salvataggio per tutti gli imputati indigenti. Il settanta per cento delle cause veniva assegnato a difensori nominati dalla corte, e in qualsiasi fase di un’udienza si aggiravano di solito cinque o sei difensori d’ufficio nei loro abiti economici e scarpe logore, con mazzi di incartamenti che strabordavano dalle borse. In quel preciso istante, tuttavia, ne era presente solo uno, l’avvocato Clay Carter II. Si era fermato per la lettura di due capi d’imputazione abbastanza leggeri e ora, lì tutto solo, avrebbe dato qualsiasi cosa per non esserci affatto. Si girò a destra e a sinistra e si rese conto che il giudice stava guardando proprio lui. Dov’erano finiti tutti gli altri avvocati?
Una settimana prima, Carter aveva portato a termine un processo per omicidio, un dibattimento che era durato quasi tre anni e alla fine si era chiuso con l’invio del suo cliente in un carcere dal quale non sarebbe più uscito, almeno non legalmente. Lui era ben felice che fosse sottochiave e, fino a quel momento, si era ampiamente rallegrato di non avere per le mani altri casi di omicidio.
Una situazione che, evidentemente, stava per cambiare.
«Signor Carter?» lo interpellò il giudice. Non era un ordine, ma un invito a farsi avanti per assumere l’incarico che spetta a tutti i difensori d’ufficio: difendere l’indigente, quale che sia il capo d’imputazione. Carter non poteva tradire segni di debolezza, specialmente sotto gli occhi di agenti di polizia e pubblici ministeri. Deglutì a vuoto, represse una smorfia e si presentò al banco con il piglio battagliero di un avvocato deciso a pretendere seduta stante un processo con giuria. Prese la cartelletta dalle mani del giudice, diede una scorsa al magro contenuto ignorando l’espressione supplichevole di Tequila Watson, quindi disse: «Vostro onore, l’imputato si dichiara non colpevole».
«Grazie, signor Carter. E dobbiamo indicare lei come patrocinante?»
«Per ora, sì.» Carter già formulava giustificazioni per scaricare il caso sulle spalle di qualche collega.
«Molto bene. Grazie» rispose il giudice, già allungando la mano verso l’incartamento del caso successivo.
Avvocato e cliente si consultarono per qualche minuto al tavolo della difesa. Carter raccolse tutte le informazioni che Tequila era disposto a offrirgli, vale a dire molto poco, e promise che il giorno dopo sarebbe passato in prigione per un colloquio più lungo. Mentre bisbigliavano, il tavolo si popolò all’improvviso di giovani avvocati del Gratuito patrocinio, colleghi di Carter che sembravano essersi materializzati dal nulla.
Un complotto? si domandò Carter. Prima avevano preso il largo perché sapevano che in aula c’era un accusato di omicidio? Negli ultimi cinque anni aveva usato anche lui stratagemmi analoghi. Ma per i difensori d’ufficio schivare le rogne era una forma d’arte.
Raccolse la borsa e scappò via lungo il passaggio centrale, superando file di parenti ansiosi, oltrepassando Adelfa Pumphrey e il suo scarno gruppetto di supporto, uscendo nel corridoio gremito di molti altri imputati con rispettive mamme, fidanzate e avvocati.
All’Ufficio del gratuito patrocinio c’erano coloro che giuravano di sguazzare felicemente nel caos della H. Carl Moultrie Courthouse: la pressione dei dibattimenti, il pizzico di pericolo di una situazione in cui ci si trovava a contatto con tanti individui violenti, il penoso conflitto tra le vittime e i loro aggressori, il disperante affanno delle udienze che si accavallavano, lo slancio missionario a protezione dei poveri e a difesa delle garanzie di un equo trattamento da parte delle forze di polizia e del sistema.
Se Clay Carter era mai stato attratto dall’idea di fare carriera al Gratuito patrocinio, ora non ne ricordava i motivi. Di lì a una settimana sarebbe giunto e trascorso il quinto anniversario del suo impiego, senza celebrazioni e, sperabilmente, senza che nessuno lo sapesse. A trentun anni, Clay era bruciato, incastrato in un ufficio che si vergognava di far vedere agli amici, alla vana ricerca di una via d’uscita e ora ingabbiato in un altro insensato caso di omicidio che gli andava più stretto con il passare di ogni minuto.
In ascensore maledisse se stesso per essersi lasciato incastrare in quel modo. Era stato un errore da pivelli; aveva abbastanza esperienza da evitare trappole di quel genere, specialmente in un terreno a lui così familiare. “Io mollo tutto” giurò a se stesso. Il voto che pronunciava tutti i giorni da un anno.
C’erano altre due persone in ascensore. Un non meglio definito impiegato del tribunale, con una montagna di pratiche fra le braccia, e un signore sulla quarantina in tenuta completamente nera e griffata: jeans, T-shirt, giacca, stivaletti di coccodrillo. Faceva finta di leggere il giornale attraverso occhiali piccoli sulla punta di un naso affilato ed elegante; in realtà, stava studiando Clay a sua insaputa. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto prestare attenzione a qualcun altro su quell’ascensore, in quel palazzo?
Se Clay Carter fosse stato all’erta, invece che assorto, avrebbe notato che quell’uomo era troppo ben vestito per essere un imputato, ma troppo informale per essere un avvocato. Non aveva altro che un quotidiano, circostanza un po’ singolare in un palazzo di giustizia, che non era propriamente un luogo di lettura. Non aveva l’aspetto di un giudice, non semb...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il re dei torti
- 1
- 2
- 3
- 4
- 5
- 6
- 7
- 8
- 9
- 10
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- Nota dell’autore
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