Povera ragazza ricca
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Povera ragazza ricca

  1. 600 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Povera ragazza ricca

Informazioni su questo libro

Nic Harte è figlia di un influente uomo d'affari dello Zimbabwe noto per la sua mancanza di scrupoli. Pur essendo cresciuta nel lusso, non è felice. Il denaro, infatti, non può aiutarla a ottenere ciò che davvero vorrebbe: emanciparsi dall'ingombrante e discussa figura del padre, che sembra disprezzarla profondamente.
Caryn Middleton deve invece confrontarsi con tutt'altro genere di problemi. Nata a Londra in una famiglia povera, a sedici anni deve prendersi cura della madre depressa e del fratellino più piccolo. Dalla sua ha però un'intelligenza brillante e una grande forza di volontà, che le permetteranno di affermarsi a dispetto delle difficoltà materiali.
Tutto sarebbe invece più semplice per Tory Spiller, se solo riuscisse a liberarsi dal peso di un passato che la tormenta. Cresciuta nell'ombra della sorella morta tragicamente - ragazza modello che sembrava avere tutto quello che lei non ha -, ora anela soltanto a essere se stessa e a crearsi una vita tutta sua. Nonostante la loro profonda diversità, Nic, Caryn e Tory stringono sui banchi di scuola un'amicizia destinata a durare nel tempo, e con il passare degli anni il legame che le unisce si rafforza sempre di più. Ma all'improvviso, quando la bellissima e spregiudicata Estelle Mackenzie irrompe sulla scena, portando con sé un segreto che potrebbe sconvolgere le loro esistenze, tutto viene messo in discussione. Anche perché Estelle ha un unico desiderio: la vendetta. E niente potrà fermarla.
Lesley Lokko ritorna con una grande storia ricca di sentimento, passione e sensualità, orchestrando nell'arco di quindici anni i destini avventurosi delle sue indimenticabili protagoniste tra Londra, Parigi, New York e lo Zimbabwe. Amore, odio, ambizione e tradimento sono gli elementi chiave di un romanzo pieno di colpi di scena, che non mancherà di conquistare ed emozionare.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804595298
eBook ISBN
9788852017049
SESTA PARTE

74

Londra, Inghilterra, 2004
Tory allontanò da sé la pila di ricevute e fatture e si alzò. Era un bel sabato mattina ma come al solito lei era lì, chiusa in casa, a fare i conti. Aveva tutto il weekend per sé: Luc era via per lavoro. Di certo poteva trovare qualcosa di più divertente da fare, no? Non si ricordava l’ultima volta che si era concessa una mattinata di svago. Il negozio le occupava quasi ogni momento libero e il poco tempo che le rimaneva lo trascorreva con Luc. La madre di Tory aveva deciso da tempo di imporre delle regole al proprio marito: durante la settimana, sì, nei weekend, no. Suo padre veniva solo di rado in negozio il sabato. Si avvicinò alla finestra che dava su Canonbury Street. Era una splendida giornata di giugno, il cielo era sereno. Fece una smorfia. Quando era stata l’ultima volta che era andata a fare shopping solo per il gusto di cambiare un po’?
Dieci minuti dopo corse giù per le scale, si sbatté il cancello alle spalle e risalì Upper Street. Adorava il suo nuovo appartamento. Ci abitava da sei mesi e ormai non riusciva più a immaginare di vivere da nessun’altra parte. Era al quinto piano – senza ascensore! – e i pavimenti erano un po’ in pendenza, ma lei ne era innamorata. Luc l’aveva aiutata con le pratiche: senza il suo incoraggiamento, probabilmente, sarebbe stata ancora dai suoi genitori in Hortensia Road. Si domandò che cosa sarebbe successo una volta sposati. Era passato già più di un anno da quando gliel’aveva proposto, durante la prima – e ultima – vacanza insieme. Le nozze erano state rimandate più volte. La madre di Luc era morta all’improvviso, lui aveva avuto una promozione al lavoro, poi, all’inizio dell’anno, Storie sbocciate aveva cominciato finalmente a dare i primi frutti... Entrambi facevano orari così assurdi al lavoro che sembrava non ci fosse mai tempo per organizzare nulla. Ma si sarebbero sposati presto; avrebbero dovuto farlo presto, solo non subito. A Tory pareva quasi di sentire sua madre che spiegava ai vicini perché non avevano ancora fatto il grande passo. “Oh, sapete come sono i giovani al giorno d’oggi. Solo lavoro, lavoro, lavoro.”
Prese un caffè al baretto italiano all’angolo di Canonbury Lane e passeggiò al sole, fermandosi di tanto in tanto a guardare le vetrine. Era una vita che non si comprava un vestito nuovo. Ormai viveva praticamente con la sua tenuta da lavoro: jeans e maglietta o felpa, con grande irritazione di tutti. Nic l’aveva avvertita solo qualche giorno prima che rischiava di trasformarsi in una strega bohémienne, qualunque cosa volesse dire. Sorrise ed entrò da Jigsaw.
Venti minuti dopo uscì con un bellissimo soprabito di lino color crema, una sciarpa di seta blu a pois gialli e un paio di sandali con il cinturino e il tacco alto, stupendi anche se poco pratici. Era perplessa. Come accidenti aveva fatto a lasciarsi convincere a comprarli? Quando mai li avrebbe messi? Ancora qualche secondo e sarebbe venuta fuori dal negozio con un abito da sposa. Si diresse verso Canonbury Square percorrendo le vie secondarie e ammirando i palazzi eleganti e i bei giardini all’ingresso. Stava risalendo Alwyne Villas quando vide un uomo scendere i gradini e aprire il cancelletto di una casa. Tory stava sorridendo fra sé e i loro sguardi si incrociarono: per un attimo pensò che l’uomo avrebbe potuto credere che stesse sorridendo a lui. Distolse velocemente gli occhi, ma non riuscì a liberarsi della strana sensazione che qualcuno la stesse fissando. Si fermò e avvertì un brivido freddo lungo la spina dorsale, che le fece venire la pelle d’oca. Si voltò di scatto e lo riconobbe immediatamente. «Rob?» Si sentiva il cuore in gola.
«Tory?» Lui era inchiodato al marciapiede, pallidissimo.
«Che... cosa ci fai qui?» gli chiese Tory, mentre il brivido freddo si trasformava in una vampata di calore che le infiammò il viso.
Lui si passò una mano sulla faccia. «Io vivo qui. Lì.» Indicò con un cenno del capo la casa da cui era uscito. «Sono appena tornato. Un paio di settimane fa. Che cosa ci fai tu qui, piuttosto?»
«Io... anch’io abito da queste parti. In fondo alla strada.»
«Stai scherzando... Santo cielo, Tory. Come... come stai?»
Lei lo guardò. Sembrava sempre lo stesso, solo un po’ invecchiato. Aveva messo su peso e aveva perso quell’aria allampanata e un po’ stranita che aveva quando lo aveva incontrato l’ultima volta. Capelli castano scuro tagliati corti che già ingrigivano sulle tempie, gli stessi occhi verdazzurri e un’ombra di barba sulle guance e sul mento. Il suo volto era più duro e più spigoloso di quanto ricordasse. Naturale che fosse così: erano più di dieci anni che non si vedevano. Era sparito subito dopo il funerale di Susie. Si era trasferito in un’altra scuola, proprio come lei, nel tentativo di sfuggire al peso di quello che era accaduto. Per qualche tempo sua madre era rimasta in contatto con i genitori di Tory, poi lui era partito e aveva viaggiato per un po’. Thailandia, Vietnam, Laos... Desiderava solo andarsene lontano, aveva detto la madre. Le ultime notizie che aveva ricevuto su di lui erano che viveva in Perù o in qualche altro posto in capo al mondo. Da allora, più niente.
E adesso era tornato. «Io... sto bene. Mi fa piacere vederti» gli disse esitante, non sapendo se abbracciarlo, baciarlo sulla guancia o niente di tutto ciò.
«Sì, anche a me» disse Rob, ancora disorientato.
Tory si morse un labbro. «Se adesso hai tempo, ti va di venire a casa mia a prendere un caffè o un tè?»
Lui deglutì. «Certo. Perché no? Scusa, non riesco ancora a crederci. Sembri così... diversa. Così cresciuta.»
«Be’, è un po’ che non ci vediamo» rispose Tory sorridendo. «Tu sei sempre uguale, invece.»
«Sì, immagino di sì.» Rimasero qualche istante a guardarsi, titubanti.
«Dài, andiamo. Metto su l’acqua» disse alla fine Tory, passandosi la borsa sull’altro braccio.
Attraversarono la strada insieme, in silenzio, entrambi turbati dall’incredibile coincidenza di quell’incontro.
«Bella casa» disse Rob osservando il giardino cintato mentre oltrepassavano il cancello. «Carina.»
Tory annuì. «Sì, mi piace molto. È... tranquilla.» Aprì il portone d’ingresso e fece strada su per i cinque piani di scale. «Mi dispiace, è una bella arrampicata.» Quando raggiunsero finalmente la porta del suo appartamento, gli disse aprendola: «Attenzione alla testa». Rob era molto alto.
«Wow, Tory, è fantastica» disse lui guardandosi attorno.
«Il soggiorno è da questa parte» gli disse Tory, cercando di non sembrare troppo compiaciuta. Non era un appartamento molto grande, ma lei l’aveva arredato esattamente come desiderava. Dopo avere vissuto così a lungo con i suoi genitori, aveva voglia di lasciare il proprio segno nello spazio in cui viveva, a modo suo. «Siediti, torno fra un attimo. Non riesco ancora a credere che tu sia qui, nel mio soggiorno.»
«Lo so.» Rob accennò un sorriso. «Sembra strano. È come se io non fossi davvero qui... non so se mi spiego.»
Tory annuì. «Sì, è strano.» Si voltò e andò nel corridoio che portava in cucina. «Come prendi il tè?» gli gridò dall’altra stanza, poi d’un tratto si ricordò. “Latte e un cucchiaino di zucchero.” Subito dopo le tornò in mente l’immagine di loro tre seduti nella cucina di Hortensia Road, con Susie che allontanava da sé la scatola dei biscotti. Era sempre a dieta. Tory quasi si piegò in due dal dolore.
«Tutto a posto?» chiese inaspettatamente Rob dalla soglia. La sua voce era rauca.
Tory annuì. «Fra un minuto starò meglio» balbettò. «È solo che... mi sono ricordata.» Lui non disse niente, ma dopo un attimo lei sentì la sua mano sulla nuca. Il tocco era fresco, anche se le dita gli tremavano un po’. Era rassicurante. Rimasero così per qualche minuto, senza parlare, finché l’ondata di sofferenza non diminuì, il respiro di Tory ritornò normale e lei riuscì a raddrizzarsi e a preparare il tè per entrambi. Mise anche un paio di biscotti su un piattino. Lo seguì in soggiorno, mentre il dolore si riduceva di un briciolo ogni minuto che passava. Ma solo di un briciolo.
Rimasero per un po’ a chiacchierare, aggiornandosi su quello che era successo dall’ultima volta che si erano visti. Lui era fotografo, le raccontò. Aveva cominciato a farlo un po’ per caso, durante i suoi viaggi. Aveva pubblicato un libro sul Vietnam, uno dei primi resoconti di viaggio su quel paese, che aveva venduto inaspettatamente bene. Poi aveva ricevuto un altro incarico per un libro sul Cile, quindi per uno sul Perù. Adesso ne stava preparando uno su Buenos Aires. Aveva deciso di affittare un appartamento a Londra per avere una base in cui fermarsi tra un viaggio e l’altro. Sua madre stava abbastanza bene: era bello tornare di tanto in tanto nello stesso posto. Per un sacco di tempo non ne aveva voluto sapere di Londra, e aveva continuato a rimandare. «Era solo che... non me la sentivo» le confidò a bassa voce, fissandosi le mani. «Ma adesso che sono qui non è poi così male. E cosa mi dici di te?» le chiese alzando lo sguardo.
«Oh, io? Be’...» Si interruppe, rendendosi conto che stava arrossendo. Non sapeva come descrivere la propria attività senza dare l’impressione di vantarsene. «Ho aperto un negozio mio. Un negozio di fiori. Lo gestiamo insieme io e mio padre» concluse.
Lui rimase zitto per qualche secondo, poi disse: «Sapevo che avresti fatto qualcosa di speciale, Tory. Sei sempre stata l’artista di famiglia...».
«Io? No, non io» rispose Tory automaticamente.
«Sì, tu. Solo che non lo capivi.» Si guardarono per qualche istante, poi lui si alzò. «Grazie per il tè» le disse prendendo la giacca. «È stato bello rivederti.»
«Anche a me ha fatto piacere.» Si guardarono per un secondo, poi lui si chinò in avanti e la baciò sulla guancia.
«Abbi cura di te» le disse infilandosi la giacca. Lei annuì, non osando aggiungere altro. E dopo un attimo lui se n’era andato.
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75

Estelle guardò i due abiti che la commessa aveva tirato fuori da farle vedere. Ebbe un attimo di esitazione. Il tailleur piedde-poule bianco e nero era un classico di Chanel: bottoni dorati discreti, cuciture bianche visibili lungo gli orli... Scosse la testa. Troppo noioso. Meglio l’altro vestito, di Dior: lino bianco, lungo fino al ginocchio, profilo blu sul colletto, scollatura profonda. «Prendo quello» disse senza esitazioni, indicandolo. Di classe. Esattamente come voleva sembrare lei.
«Molto bene, signora.» La commessa si accinse a incartare il prezioso capo.
Estelle si lanciò un’occhiata allo specchio. La sua pelle era ancora più ambrata grazie alle sedute al solarium a Kensington. Voleva sembrare in gran forma, anche se aveva lo stomaco stretto da una morsa per la tensione. Era incredibile che ci fosse voluto quasi un anno per ottenere quell’incontro, fissato per il giorno seguente. Senza l’aiuto della signora Devereaux non ci sarebbe mai riuscita. Gli uomini come Jim Harte non davano appuntamenti a persone che non conoscevano, tanto meno a ventenni che non dicevano neanche il motivo della loro richiesta. Era stato fissato due volte, e per due volte era stato cancellato all’ultimo minuto. Organizzare l’appuntamento successivo aveva richiesto mesi. E da mesi lei non pensava ad altro, ripassando quel che avrebbe detto, quel che lui avrebbe risposto: le lacrime, i sorrisi, gli abbracci... tutto. Finalmente l’aveva trovato. Dentro di sé aveva sempre saputo di essere destinata a qualcosa di più della misera vita che le aveva offerto sua madre, e adesso capiva perché. Lei era diversa. Era una Harte, accidenti. Mackenzie? Si sarebbe liberata di quella fastidiosa appendice non appena avesse potuto. Ma perché Gloria le aveva mentito?
La commessa le consegnò il vestito in una bellissima scatola bianca lucida. Estelle riuscì a malapena a trattenere un gridolino di eccitazione. Ben presto avrebbe comprato tutti i suoi abiti in un negozio come quello. E dall’indomani l’avrebbero saputo tutti. Sarebbe finito anche sui giornali? Magari l’avrebbero annunciato al telegiornale... Avvertì un’altra stretta allo stomaco. «Me lo faccia pure consegnare oggi pomeriggio» ordinò in tono deciso, prendendo la borsetta. «E lo segni sul conto della signora Devereaux.»
«Certo, signora.» Se la commessa aveva intuito le implicazioni di un conto aperto a nome di Sally Devereaux, di certo non lo diede a vedere.
Estelle uscì dal negozio in una nuvola di profumo. In meno di ventiquattr’ore, la sua vita sarebbe cambiata. Non sarebbe più stata la figlia di una lavoratrice nera di Bulawayo e di un padre bianco sconosciuto e quindi assente: il pomeriggio seguente tutto il mondo avrebbe saputo che lei era la figlia di un miliardario. Sorrise fra sé. Non c’era da stupirsi che avesse un debole per le cose belle e costose: a quanto pareva, le erano sempre appartenute di diritto.
«Oh, Jim...» La segretaria di Jim Harte lo fermò mentre stava uscendo per il pranzo. «Non dimenticarti che hai un colloquio alle tre.»
Jim la guardò irritato. «E con chi?»
Lei guardò l’agenda. «Con una certa signorina Mackenzie. Non mi ha detto il nome di battesimo. L’appuntamento è stato fissato da una certa Sally Devereaux. Ricordi che avevi accettato di vederla?»
Jim sospirò. Non se lo ricordava. Chi diavolo era Sally Devereaux? Guardò l’orologio. «Sarò di ritorno in ufficio fra un’ora» disse prendendo la giacca e il cappello. «Dille di aspettare, se non sarò ancora arrivato. Di cosa si tratta?»
La segretaria si strinse nelle spalle. «La signora Devereaux non l’ha specificato, ma sono mesi che cerca di fissare questo colloquio. L’hai già annullato due volte.»
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«Va bene, ci vediamo dopo.» Aprì la porta e si diresse lungo il corridoio verso gli ascensori. La sua mente aveva già scartato l’informazione per occuparsi di faccende più importanti. Era stranamente agitato. Nessuno lo sapeva – men che meno i suoi soci e gli azionisti – ma c’erano guai in vista. Come succedeva sempre in quei casi, era cominciato tutto in sordina. Per diversi anni la RhoMine aveva gestito un traffico illegale altamente remunerativo di diamanti attraverso una miniera esaurita nella Guinea orientale, vicino al confine con la Sierra Leone. Erano stati corrotti funzionari, stabiliti itinerari di consegna, organizzati piani di volo, tutto l’ingranaggio. Per quasi tre anni, enormi guadagni erano arrivati da quell’angolo sconosciuto del continente, proprio come piaceva a Jim. Le pietre venivano portate fuori dalla Sierra Leone per via aerea, solitamente con la copertura delle tenebre. Un’ora dopo l’aereo toccava terra in Costa d’Avorio, dove venivano imballate in scatole con etichette nuove e rispedite, con destinazione Bruxelles e Nuova Delhi, mentre la provenienza originale si perdeva nei vari passaggi. Attraverso un labirinto di comproprietà, la RhoMine controllava più del sessanta per cento di azioni della Consolidated Mines, la società che possedeva ufficialmente la miniera Kanyati in Guinea. Era un’operazione che soddisfaceva tutti: dai ministri fino agli idioti che pagavano una fortuna per un anello di diamanti. Jim non aveva mai avuto occasione – né francamente il desiderio – di visitare la miniera di Kono, in quel luogo dimenticato da Dio. Finché si continuava a guadagnare e il prezzo delle azioni della RhoMine saliva, tutti facevano soldi ed erano contenti.
Ma – naturalmente c’era un fottuto “ma” – il recente colpo di Stato in Sierra Leone aveva accresciuto le pressioni per pagare di più i funzionari della miniera e i ministri. Era tipico: qualche stronzo nei posti che contavano diventava avido e voleva una fetta maggiore di guadagno. Questo giochetto costava a Jim un patrimonio in bustarelle, per non parlare poi del carburante per gli aerei per mandare valigette piene di soldi in luoghi che lui non aveva mai nemmeno sentito nominare – Kambia, Kabala, Makeni... – e che certamente non voleva vedere. E poi quelle dannate Nazioni Unite avevano imposto sanzioni sul paese, rendendo le cose ancora più difficili. Come se lui non avesse già abbastanza problemi, accidenti. Persino organizzare un piano di volo era diventato un affare tortuoso e complicato. Manning ne aveva le scatole piene, e anche Ogilvy e Butcher, e pure lui, adesso. Era una vera scocciatura, cazzo. Però le miniere stavano producendo alcuni dei diamanti più belli provenienti dall’Africa, e Jim era un uomo pratico. Prima o poi la guerra in Sierra Leone sarebbe finita: non aveva appoggiato il RUF per niente. Il colpo di stato in marzo aveva avuto come risultato un governo precario condiviso tra il RUF e il neocostituito AFRC, il Consiglio rivoluzionario delle forze armate. Jim scosse il capo. Quando l’avrebbero capito? Le rivoluzioni erano deleterie per gli affari. Di certo lo erano per lui. Erano cominciate a circolare voci nella stampa britannica, come sempre quando la RhoMine era in procinto di annunciare un accordo importante. Di conseguenza, ovviamente, il prezzo delle azioni e la fiducia degli investitori stavano calando drasticamente. Di certo non era il clima giusto per avviare la sua ultima, rischiosa impresa: il rame. Un gruppetto di uomini d’affari gli stava facendo penzolare sotto il naso una manciata di miniere, chiedendo sempre di più. E chi guidava quel gruppetto? Klaassens. Se lo sentiva che sarebbe incappato di nuovo in lui. Gli tornarono in mente gli occhi azzurri slavati e il ghigno di quell’uomo. “È così che la vede, signor Harte?” gli aveva chiesto quasi vent’anni prima. Quel piccolo coglione. Sì, era proprio così che la vedeva, cazzo.
Aprì la porta del ristorantino italiano in Gutter Lane. Sorrise fra sé. Gutter... fogna. Era lì che avrebbe spedito Klaassens se i suoi sospetti si fossero rivelati esatti. E ora doveva incontrare qualcuno che glieli avrebbe confermati. «Gordon» gli disse porgendogli la mano. «Grazie per essere venuto.»
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Per la seconda volta in meno di un anno, Estelle sedeva fuori dallo studio di un uomo che aveva il potere di mandare il suo mondo a gambe all’aria, ed era di nuovo costretta ad aspettare. Quel caporale di una segretaria che l’aveva fatta entrare continuava a guardarla, come se non riuscisse a credere ai propri occhi. Be’, che guardasse pure. Lei si meritava certo una seconda occhiata. Quella vecchia antipatica aveva una vaga idea di quanto le fosse costato quel vestito?
«Lo sa che aveva un appuntamento con me, vero?» le chiese infine Estelle, quando il quarto d’ora si era trasformato in venti minuti.
«Oh, sì. Non dovrebbe tardare molto» rispose la donna senza riuscire a nascondere la propria curiosità. «Ha detto di aspettare.»
Estelle rimase in silenzio. Aveva lo stomaco in subbuglio, il cuore che batteva forte e le mani sudate.
Dieci o quindici minuti dopo – Estelle aveva perso la cognizione del tempo – si udirono dei passi nel corridoio, e poi la voce di un uomo. Estelle avv...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prima Parte
  5. Seconda Parte
  6. Terza Parte
  7. Quarta Parte
  8. Quinta Parte
  9. Sesta Parte
  10. Settima Parte