Denti bianchi
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Denti bianchi

  1. 546 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Protagonisti di questo romanzo sono due grandi amici, l'inglese Archie e il bengalese Samad. In una Londra dove l'estremismo è all'ordine del giorno, i due danno vita a una strana quanto improbabile coppia: Archie ha sempre seguito la corrente, Samad, invece, è un musulmano convinto, che mal sopporta la decadenza della società occidentale. Ad aggravare la già inquieta atmosfera arrivano i Chalfen, agiati intellettuali inglesi carichi di tutti i tic e le illusioni della Generazione dei Fiori. E l'incontro-scontro fra le diverse culture produrrà effetti tragicomici non meno che devastanti. Attraversando gli ottimismi, le follie e le vanità della fine del secolo, trasportandoci da un ristorante indiano a un parrucchiere giamaicano, Zadie Smith ci offre un romanzo epico-comico sullo scontro delle culture e delle generazioni, sull'eterna lotta fra desiderio di libertà e bisogno di appartenenza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804595090
eBook ISBN
9788852017124

Irie

1990, 1907

In questo mondo di ferro battuto composto da intrecci di causa ed effetto, è possibile che il palpito nascosto da me rubato non abbia influito sul loro futuro?
VLADIMIR NABOKOV, Lolita

11

La diseducazione di Irie Jones

C’era un lampione, equidistante da casa Jones e dal Glenard Oak Comprehensive, che aveva cominciato a comparire nei sogni di Irie. Non proprio il lampione, ma una piccola pubblicità attaccata tutt’attorno con nastro adesivo, che diceva:
PERDETE PESO PER GUADAGNARE SOLDI
081 555 6752
Ora, Irie Jones, quindici anni, era grossa. Le proporzioni europee della figura di Clara avevano saltato una generazione, e Irie, invece di quella di sua madre, possedeva l’abbondante corporatura giamaicana di Hortense, appesantita da ananas, mango e guava; la ragazza era robusta; tette grosse, sedere grosso, fianchi grossi, cosce grosse, denti grossi. Pesava settanta chili, e sul libretto di risparmio aveva tredici sterline. Sapeva di essere il target giusto (ammesso che ce ne fosse uno), così come sapeva bene, mentre arrancava verso la scuola, la bocca piena di frittelle dolci, che la pubblicità si rivolgeva a lei. Si rivolgeva a lei. PERDETE PESO (diceva) PER GUADAGNARE SOLDI. Tu, tu, tu, signorina Jones, con le braccia strategicamente incrociate e il cardigan legato attorno al sedere (il mistero infinito: come riuscire a far apparire più piccola quell’enormità rigonfia, quel posteriore giamaicano?), le scarpe il cui uso dovrebbe ridurre la pancia e il reggiseno che dovrebbe ridurre il seno, l’attillato bustino di lycra – la risposta più decantata degli anni Novanta alle stecche di balena – la panciera elasticizzata. Irie sapeva che la pubblicità si rivolgeva a lei. Ma non capiva bene che cosa diceva. Di che cosa parlava, in realtà? Di magri che venivano sponsorizzati? Della possibilità di guadagno delle persone snelle? O di qualcosa di più equivoco escogitato da qualche sordido Shylock di Willesden, mezzo chilo di carne per mezzo chilo d’oro: carne in cambio di denaro?
Rapidità. Occhio. Movimento. A volte, Irie camminava per la scuola in bikini, con l’enigma del lampione scritto col gesso sopra le sue curve marroni, sopra le sue varie sporgenze (mensola con spazio per libri, tazze di tè, cestini o, più in concreto, bambini, sacchetti di frutta, secchi d’acqua), curve ideate con in mente un altro paese, un altro clima. Altre volte, ecco come sponsorizza il sogno del dimagrimento: lei che bussa a una porta dopo l’altra, con il sedere nudo e armata di un bloc-notes, e tenta di convincere degli uomini anziani a darle una tastatina e a scucire qualche soldo. Nei momenti peggiori? Strappa lembi di carne punteggiata di bianco e li infila dentro quelle vecchie bottiglie di Coca tutte curve, e poi le porta al negozio sull’angolo e le passa di sopra il banco, e il negoziante con il golf dallo scollo a V e il bindi è Millat, che conta le bottiglie, apre la cassa con le mani sporche di sangue e le porge i quattrini. Un po’ di carne caraibica per un po’ di spiccioli inglesi.
Irie Jones era ossessionata. Capitava che sua madre, preoccupata, prima che lei scivolasse fuori dalla porta, la bloccasse nell’ingresso, tastasse i suoi complicati bustini e le chiedesse: «Che ti succede? In nome del cielo, cos’hai addosso? Come fai a respirare? Irie, tesoro, vai bene – è solo che sei fatta come una sana, solida Bowden – non lo capisci che vai bene così?».
Ma Irie non lo capiva. Ecco l’Inghilterra, uno specchio gigantesco, ed ecco Irie, priva di riflesso. Una straniera in terra straniera.
Incubi e sogni a occhi aperti, sull’autobus, nel bagno, in classe. Prima. Dopo. Prima. Dopo. Prima. Dopo. Il mantra della droga inventata, dell’aspirarla, del ributtarla fuori; non disposta ad accettare il fato genetico, e invece in attesa della propria trasformazione da clessidra giamaicana appesantita dalla sabbia che si raccoglie attorno alle Dunn River Falls, a rosa inglese – oh, sapete bene com’è fatta questa rosa – è snella, delicata, inadatta al sole cocente, un fuscello che scivola sulle correnti:
Prima: Dopo:
sapete bene com’è fatta questa rosa – è snella, delicata, inadatta al sole cocente, un fuscello che scivola sulle correnti
La signora Olive Roody, insegnante di inglese ed esperta nel cogliere le distrazioni anche da venti metri di distanza, uscì da dietro la cattedra per prendere il quaderno degli esercizi di Irie e strappare la pagina in questione. La guardò, incerta. Poi chiese, con melodiosa enfasi scozzese: «Prima e dopo che cosa?».
«Mmm... come?»
«Prima e dopo che cosa?»
«Oh, niente, signora.»
«Niente? E avanti, signorinella. Non fare la falsa modesta. Evidentemente è più interessante del Sonetto 127.»
«Niente. Non è niente.»
«Ne sei proprio sicura? La smetterai di bloccare la classe? Perché... i tuoi compagni hanno bisogno di ascoltare – anzi, anche se solo un pochino, sono interessati a – quello che ho da dire. Quindi, se riesci a strappare un po’ di tempo ai tuoi giooochetti...»
Nessuno, proprio nessuno, diceva “giochetti” come Olive Roody.
«... e ti unisci a noi, forse potremo andare avanti. Be’?»
«Be’ che cosa?»
«Ci riesci? A strappare un po’ di tempo?»
«Sì, signora Roody.»
«Oh, bene! Mi fa molto piacere. Sonetto 127, per piacere.»
«Nell’epoca andata non v’era bellezza nel nero» continuò Francis Stone, con quella cantilena catatonica con cui gli studenti leggono i versi elisabettiani. «O, se pur v’era, non possedeva nome di bellezza.»
Irie si mise la destra sullo stomaco, lo tirò in dentro e tentò d’incontrare lo sguardo di Millat. Ma Millat era indaffarato a mostrare alla bella Nikki Tyler la sua capacità di trasformare la lingua in un rotolo sottile, in un flauto. E Nikki Tyler mostrava a lui che i lobi delle sue orecchie erano attaccati alla testa, invece che liberi. Erano i resti del flirt della lezione di scienze di quella mattina: “Caratteristiche ereditarie. Parte Prima (a)”. Liberi. Attaccati. Arrotolata. Piatta. Occhi azzurri. Occhi scuri. Prima. Dopo.
«Ed ecco che gli occhi della mia amata sono neri come ali di corvo, e paiono dolenti... Gli occhi della mia amata non riflettono il sole; Il corallo è assai più rosso del rosso delle sue labbra; E se la neve è bianca, perché i suoi seni non so...»
La pubertà, la pubertà nel suo pieno sviluppo (non il leggero rigonfio di un seno, o un incerto inizio di peluria) aveva diviso i due vecchi amici, Irie Jones e Millat Iqbal. Ai due lati opposti della barricata scolastica, Irie era convinta che le fossero state servite carte truccate: curve montagnose, denti sporgenti e macchinetta di metallo per correggerli, impossibili capelli afro, e per completare il tutto, una vista da talpa che richiedeva lenti spesse con una leggera sfumatura rosa. (Perfino gli occhi azzurri – gli occhi che avevano tanto eccitato Archie – erano durati solo due settimane. Irie era nata con gli occhi azzurri, ma un giorno Clara aveva guardato di nuovo ed ecco due occhi neri che la fissavano, come nella transizione da un bocciolo chiuso a un fiore sbocciato, il cui esatto secondo lo sgomento sguardo nudo, in attesa, non può mai cogliere.) E questa convinzione della propria bruttezza, del proprio fisico sbagliato, l’aveva come spenta. In quei giorni teneva per sé le battute dirompenti e non si toglieva mai la mano dallo stomaco. In lei non andava bene niente.
Mentre Millat era la giovinezza ricordata attraverso la nostalgica lente della vecchiaia, la bellezza che fa la parodia di se stessa: naso romano rotto, alto, magro, con le vene leggermente in superficie, muscoli lisci; occhi di cioccolata con bagliore di pagliuzze verdi, simili a una luna che si rifletta su un mare buio; sorriso irresistibile, grandi denti bianchi. Nel Glenard Oak Comprehensive, neri, pakistani, greci, irlandesi... queste erano le razze. Ma chi possedeva sex appeal superava di slancio gli altri corridori. Era una specie a sé stante.
«Se i capelli fossero fili di ferro, sulla testa di lei neri fili di ferro crescono...»
Irie lo amava, naturalmente. Ma lui le diceva: «Il fatto è che la gente si appoggia a me. Ha bisogno che io sia Millat. Il vecchio, buon Millat. Il perfido Millat. L’affidabile, dolcissimo Millat. Ha bisogno che io sia sicuro di me. Praticamente, è una responsabilità».
E, praticamente, lo era. Una volta Ringo Starr disse che i Beatles non erano mai stati grandi come quando erano a Liverpool, negli ultimi mesi del 1962. Avevano semplicemente raggiunto altri paesi. E lo stesso valeva per Millat. Era così grande a Cricklewood, a Willesden, a West Hampstead, in quell’estate del 1990, che niente di ciò che avrebbe fatto in seguito nella sua vita avrebbe potuto superarlo. Dal suo primo gruppo di Raggastani, aveva creato e sviluppato tribù attraverso le scuole, attraverso North London. Era troppo grande per restare semplicemente l’oggetto dell’amore di Irie, il leader dei Raggastani, o il figlio di Samad e Alsana Iqbal. Doveva accontentare sempre tutti. Per le bande di ragazzi cockney in jeans bianchi e camicie colorate, era divertente e spericolato, e un rispettato sciupafemmine. Per i ragazzi neri era un compagno di spinelli e un cliente prezioso. Per i ragazzi asiatici, eroe e portavoce. Un camaleonte sociale. Ma sotto sotto covavano una collera, una pena, onnipresenti, la sensazione di non appartenere a nessun luogo che assale chi appartiene a tutti i luoghi. Era questa debolezza nascosta a farlo amare tanto, a farlo adorare da Irie e dalle graziose suonatrici di oboe, ragazze della media borghesia dalle gonne lunghe, a renderlo prezioso a queste femmine dalla voce flautata e dalle chiome lucenti; era il loro principe scuro, il loro amante occasionale o la loro cotta impossibile, l’oggetto di fantasie sudaticce e di sogni ardenti.
Ed era anche il loro progetto: che cosa bisognava fare con Millat? Tanto per cominciare, doveva assolutamente smetterla di fumare erba. E loro dovevano tentare di impedirgli di uscire a metà lezione. Erano preoccupate per la sua “attitudine” a dormire fino a tardi, discutevano ipoteticamente della sua educazione con i loro genitori («Dicevo solo che c’è questo ragazzo indiano, sai, che si mette sempre nei...»), scrivevano addirittura poesie sull’argomento. Le ragazze o lo volevano, o volevano migliorarlo, ma molto spesso un insieme delle due cose. Volevano migliorarlo finché lui non avesse giustificato la misura di quanto lo desideravano. Siamo tutti un po’ materialisti, Millat Iqbal.
«Ma tu sei diversa» diceva Millat Iqbal alla martire Irie Jones. «Tu sei diversa. Noi ci conosciamo da un sacco di tempo. Abbiamo una lunga storia comune. Siamo veri amici. Quelle non significano niente, per me.»
A Irie piaceva crederci. Che avessero una storia comune, che lei fosse diversa nel senso buono della parola.
«Il tuo nero è il più bello per il luogo del mio giudizio...»
La signora Roody azzittì Francis alzando un dito. «Ora, che cosa vuol dire? Annalese?»
Annalese Hersh, che fino a quel momento aveva passato la lezione a intrecciarsi nei capelli dei fili rossi e gialli, alzò lo sguardo, completamente confusa.
«Qualcosa, Annalese, tesoro. Qualunque ideuzza. Non importa quanto piccola. Non importa quanto insignificante.»
Annalese si morse un labbro. Guardò il libro. Guardò la signora Roody. Guardò il libro.
«Il nero?... Va?... Bene?»
«Sì... Be’, penso che possiamo aggiungerlo al contributo della scorsa settimana: Amleto?... È... Pazzo? Qualcun altro? Che mi dite di questo? Poiché ogni mano influisce sul potere della natura abbellendo il brutto con il falso sembiante dell’arte... Mi chiedo che cosa possa voler dire.»
Joshua Chalfen, l’unico della classe che avanzasse mai qualche giudizio, alzò la mano.
«Sì, Joshua?»
«Trucco.»
«Sì» esclamò la signora Roody, vicina all’orgasmo. «Sì, Joshua, proprio così. E che cosa sai dirmi in proposito?»
«La ragazza ha la carnagione scura e tenta di schiarirla con il trucco, con degli artifici. Gli Elisabettiani prediligevano la pelle molto bianca.»
«Allora ti avrebbero adorato!» sghignazzò Millat, perché Joshua era cereo, praticamente anemico, ricciuto e grassoccio. «Ti avrebbero considerato una specie di Tom Cruise.»
Risate. Non perché era divertente, ma perché era Millat che metteva un rompiscatole dove devono stare i rompiscatole. Al loro posto.
«Di’ solo un’altra parola, signor Iqbal, e sei fuori!»
«Shakespeare. Sudore. Stronzate. Ne ho dette tre. Non si preoccupi. Esco da solo.»
Era il genere di cosa che Millat faceva con grande abilità. La porta sbatté. Le brave ragazze si guardarono a quel modo. (È così incontrollato, così pazzo... ha proprio bisogno di aiuto, dell’aiuto faccia a faccia, personale, di una buona amica...) I ragazzi si spanciarono dalle risate. L’insegnante si chiese se fosse l’inizio di una rivolta. Irie si coprì lo stomaco con la mano destra.
«Splendido. Molto adulto. Immagino che Millat Iqbal sia una specie di eroe.» Dando un’occhiata alle facce attonite della 5F, la signora Roody vide per la prima volta e con sgomento che Millat era proprio questo.
«Qualcun altro ha qualcosa da dire su questi sonetti? Signorina Jones! La smetti di guardare la porta come se fossi in lutto? Se n’è andato, va bene? A meno che tu non voglia raggiungerlo?»
«No, signora Roody.»
«Bene. Hai qualcosa da dire sui sonetti?»
«Sì.»
«Che cosa?»
«È nera?»
«Chi, è nera?»
«La dama scura.»
«No, tesoro, è scura, appunto. Non è nera nel senso moderno della parola. Non c’erano... be’, all’epoca, in Inghilterra non c’erano afro-caraibici. È un fenomeno più attuale, come certo ben sai. Ma qui siamo nel 1600. Insomma, non ne sono sicura, ma sembra molto, molto improbabile, a meno che la donna non fosse una specie di schiava, ed è improbabile che il poeta abbia scritto una serie di sonetti per un lord e poi per una schiava, vero?»
Irie arrossì. Aveva avuto la sensazione, proprio in quell’attimo, di aver visto una specie di riflesso, ma ora si stava allontanando, e così mormorò: «Non lo so, signora».
«Inoltre, dice chiaramente: In niente tu sei nera, salvo che nelle tue azioni... No, tesoro, lei ha solo la carnagione scura, capisci, probabilmente scura come la mia.»
Irie guardò la signora Roody. Aveva un colorito simile a mousse di fragole.
«Vedi, Joshua ha proprio ragione: a quei tempi, si preferivano le donne eccessivamente pallide. Il sonetto verte sul dibattito fra il colore naturale della donna e il trucco di moda a quei tempi.»
«Pensavo solo... come quando dice, qui: E quindi io lo giuro, la bellezza stessa è nera... E la cosa sui capelli ricci, i fili di ferro neri...»
Sentendo le risatine, Irie ci rinunciò, stringendosi nelle spalle.
«No, tesoro, tu lo leggi con orecchio moderno. Mai leggere con orecchio moderno ciò che è vecchio. Anzi, questo è da mandare a mente... scrivetelo tutti, per favore.»
La 5F lo scrisse. E il riflesso colto da Irie si dissolse nella solita oscurità. Mentre usciva dall’aula, Irie si vide consegnare un biglietto da Annalese Hersh, che scosse la testa per significare che l’autrice non era lei, che lei era solo uno dei tanti che l’avevano passato. Diceva: “Di William Shakespeare: ODE A LETIZIA E A TUTTE LE MIE PUTTANE CON IL CULO GROSSO E I CAPELLI DI FILO DI FERRO”.
Il parrucchiere dal criptico nome di P.K. Pettinature Afro: Stile e Direzione si trovava fra l’Impresa di Pompe Funebri Fairweather e il Gabinetto Dentistico Raakshan. Questa comoda vicinanza significava che non era raro che un cadavere di origine africana passasse per tutti e tre i posti nel suo viaggio finale verso una bara aperta. E così, quando si telefonava per un appuntamento con il parrucchiere, e Andrea o Denise o Jackie dicevano «alle tre e mezzo ora giamaicana», naturalmente significava che poteva esserci del ritardo, ma c’era anche la possibilità che significasse che una fedele della chiesa, fredda come marmo, era decisa a scendere nella fossa con la messa in piega e lunghe unghie finte. Per quanto suoni strano, ci sono un sacco di persone che si rifiutano di incontrare Dio con una pettinatura afro.
Irie, ignorando tutto questo, arrivò all’appuntamento alle tre esatte, assorta nella propria trasformazione, assorta nella lotta ai propri geni, con un foulard che le nascondeva i capelli simili a un nido d’uccello, la mano destra piazzata accuratamente sullo stomaco.
«Vuoi qualcosa, piccola?»
Capelli lisci. Capelli lisci lunghi neri diritti sbattibili, scuotibili, movibili, toccabili, di quelli che il vento fa volare, di quelli che ci si può passare in mezzo le dita. Con la frangia.
«Tre e mezzo» fu l’unica cosa che Irie riuscì a comunicare di tutto questo «con Andrea.»
«Andrea è alla porta accanto» rispose la donna, tirando un pezzo di gomma e indicando in direzione di Fairweather. «Se la sta spassando con le care estinte. Sarà meglio che entri, ti metti a sedere e non mi scocci. Non so quando arriverà.»
Irie aveva l’aria sperduta, in piedi in mezzo al negozio, le braccia strette attorno al ventre. La donna s’impietosì, si rimise in bocca la gomma e squadrò Irie dalla testa ai piedi; la sua comprensione aumentò, quando notò la carnagione color cacao di Irie, gli occhi castani.
«Jackie.»
«Irie.»
«Palliduccia. Lentiggini e tutto. Messicana?»
«No.»
«Araba?»
«Mezza giamaicana, mezza inglese.»
«Mezzosangue» spiegò pazientemente Jackie. «È tua madre, la bianca?»
«Mio padre.»
Jackie arricciò il naso. «In genere è il contrario. Quanto sono ricci? Fammi vedere che cosa c’è qui sotto...» Allungò la mano verso il foulard di Irie. Irie, terrorizzata all’idea di essere messa a nudo in una stanza piena di gen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontepizio
  3. Colophon
  4. Archie 1974, 1945
  5. Samad 1984, 1857
  6. Irie 1990, 1907
  7. Magid, Millat e Marcus 1992, 1999
  8. Ringraziamenti