Quando vieni a prendermi?
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Quando vieni a prendermi?

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Quando vieni a prendermi?

Informazioni su questo libro

Santiago ha una trentina d'anni e un contratto di lavoro di quelli che il capo può chiamarti da un giorno all'altro e dirti che non hanno più bisogno di te. Santiago ha anche un amore, Amanda. L'ha conosciuta per caso e ha fatto tutto il possibile per tenersela stretta. Una volta, su uno scoglio al tramonto le ha anche chiesto: "Vuoi sposarmi?", perché l'atmosfera sembrava quella giusta. Poi le ha detto: "No, scherzavo" e lei non gli ha più parlato per giorni. Le vuole molto bene, certo, lei è bella, dolce, intelligente, però... Santiago ha una vita che stenta a prendere forma, rimane confusa, e appena sembra assumere una direzione (e non tutte le altre) gli fa paura.
E allora basta una scintilla, un'occasione, per decidere di mollare tutto, il proprio Paese, il proprio lavoro, la propria donna e partire. Dove? L'importante è che sia lontano, quanto basta per perdersi e, magari, ritrovarsi. Santiago inizia un viaggio rocambolesco ed emozionante, come quando in Giappone lavora in un locale come "elargitore di complimenti" per donne trascurate dai mariti. O quando in Australia incontra Linda, bella da farti rimpiangere di non aver scelto con maggiore cura i vestiti prima di uscire. A volte però si sente solo, come quelle valigie che girano abbandonate sul nastro trasportatore dell'aeroporto, e quando lascia passare anche un solo pensiero su Amanda gli altri entrano tutti senza permesso, come le auto alle rotonde quando hai tu la precedenza.
Questo nuovo romanzo di Alessandro Cattelan, conduttore di "X Factor" e amatissima voce radiofonica, è una commedia romantica fresca e brillante, un viaggio alla scoperta del mondo e dei nostri sentimenti, di quanto lontano dobbiamo andare per seminare il nostro destino.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804617228
eBook ISBN
9788852021657

Alessandro Cattelan

QUANDO
VIENI A PRENDERMI?

Mondadori

Quando vieni a prendermi?

Dedicato a Peanut!!!

Come la volpe io fuggo con chi è braccato
e se non sono l’uomo più contento
sulla faccia della Terra
di sicuro sono il più fortunato uomo vivo.
CHARLES BUKOWSKI

1

È come emergere brevemente da un’apnea profonda per poi risprofondare nuovamente sott’acqua. La sensazione di sollievo dura meno di qualche istante nel quale cerco di inghiottire più aria possibile. Stavo soffocando nel sogno e mi manca il respiro anche ora, mentre mi dibatto tra le lenzuola appiccicose per cercare di liberare almeno un braccio e riuscire a raggiungere la sveglia. Nell’ultimo anno mi sarà capitato una cinquantina di volte, con una media di tre o quattro volte al mese. Mi sveglio così spesso in preda al panico che sta diventando un’ossessione.
La luce perennemente accesa, proveniente da un cantiere in costante attività a un isolato da casa, filtra attraverso le imposte della finestra della camera da letto. Non la illumina del tutto, ma mi permette di scovare la sagoma della bottiglia d’acqua che ho imparato a non dimenticare mai di riempire prima di andare a nanna. Bevo affannosamente e con l’ingordigia di chi sta vagando nel deserto da giorni e tutto a un tratto va a sbattere contro una sorgente d’acqua montana, e intanto riavvolgo mentalmente il copione del mio incubo alla ricerca di nuovi particolari che mi possano aiutare a trovarci un senso.
Nulla, è sempre tutto uguale.
Nella mia dimensione onirica sono in un camerino prima di uno spettacolo. Sento di essere atteso da qualcuno e percepisco una leggera sensazione d’ansia. Il camerino non è di quelli teatrali, pittoreschi e ricchi di personalità che si vedono nei film, è un lungo bancone in legno laminato, asettico, anonimo, cui si contrappone uno specchio altrettanto lungo costellato di lampadine accese di un giallo più intenso del reale, quasi accecante. Cosa ci faccia in quel camerino, mi è ignoto.
Non sono comprese persone, suoni, immagini o profumi degni di nota. Sui muri, intorno a me o appoggiato sul bancone non c’è nessun indizio che mi aiuti a capire cosa ci faccia io lì. Eppure ci sono, e mi faccio la barba. Ogni volta mi ci applico con una meticolosità che non mi appartiene nella vita reale, ma della quale sembro molto compiaciuto. E mi sento felice e in pace col mondo, mentre modello il mio pelo riccioluto. Tutto sembra filare liscio, finché i peli della barba che mi si staccano a ciuffetti dalle guance, dal mento o dalle basette si animano di vita propria e, ribellandosi al padrone, iniziano a infilarsi prepotentemente fra le mie labbra spingendosi in gola, ingolfandomi fino quasi a soffocarmi. Io inizio a tossire, e ad ansimare, e a cercare invano di pronunciare la parola “aiuto”. Emetto degli orripilanti suoni gutturali, rantoli gonfi di paura, e conati di vomito iniziano a farsi strada dalle mie viscere.
Questo entusiasmante siparietto si ripete identico sera dopo sera dopo sera dopo sera, ma è a questo punto però che entra in scena la variante dietro la quale ho arbitrariamente deciso si debba nascondere la chiave per spiegare la follia del mio sogno. A rispondere alle mie lancinanti richieste di aiuto ogni notte si presenta un VIP. Uno a caso. Non importa che mi piaccia o mi stia antipatico, che lo abbia visto prima di addormentarmi o che non ne sentissi più parlare da anni, che sia legato in qualche modo alla mia infanzia o che me ne abbia parlato un amico per la prima volta qualche giorno prima. Un VIP, scelto in maniera randomica dal mio subconscio, si precipita nel mio camerino e inizia a scuotermi e a parlarmi e a cercare di farmi reagire. Io riesco a percepire solo flebili suoni ovattati e apparentemente senza significato, mentre butto un’occhiata verso lo specchio e mi vedo bluastro con le guance allo spasmo e le vene del collo gonfie come corde da barca. Il VIP mi carica sulle spalle quando è abbastanza muscoloso e prestante da poterlo fare, oppure mi trascina fuori dalla stanza afferrandomi da sotto le ascelle, e nel momento in cui scompaio dietro la porta del camerino mi sveglio di soprassalto.
Anche da sveglio, però, continuo a sentirmi la gola come un puntaspilli e un’immutata impressione di soffocamento.
Negli ultimi mesi sono accorsi in mio aiuto fra gli altri: Gerry Scotti, Paola Barale, la buon’anima di Corrado, Tata Lucia, Marco Columbro, Maurino Di Francesco, Nino Frassica, Pamela Anderson nei panni della bagnina di “Baywatch” (il che, in qualche modo, è verosimile) e Federica Panicucci. Stanotte mentre stavo per cadere vittima della mia diabolica barbetta è intervenuto in mia salvezza il cast delle letterine di “Passaparola” del ’98 al completo. C’erano tutte, le ho contate, comprese Ilary Blasi, Alessia Fabiani, Silvia Toffanin e tutte le altre che non hanno mai fatto nemmeno un calendario o non si sono mai fidanzate con un uomo famoso e adesso non se le ricorda più nessuno.
Se avessi un mucchio di soldi, andrei a farmi vedere da uno psicologo. Se fossi Woody Allen, dopo, ne trarrei anche la sceneggiatura per un film.
Invece resto semplicemente sudato ed esausto, notte dopo notte, con la schiena appoggiata alla testiera del letto. Mi tocco la faccia tentando di stabilire un netto confine tra la fase onirica e la realtà, passandomi il palmo aperto della mano sulla lingua piatta a controllare che non ci siano rimasti peli ribelli nello sbalzo fra le due dimensioni. Di riuscire a riaddormentarmi, ovviamente, non se ne parla mai.
Quando ero più piccolo dormivo in continuazione, senza ritegno, in ogni luogo venissi parcheggiato per più di qualche minuto. Mia madre si preoccupava e minacciava di portarmi dal dottore, mentre mia nonna diceva che era perché avevo la coscienza pulita. Diceva che dormivo il sonno dei giusti e che tutti dormiremmo di più se solo fossimo delle brave persone. L’insonnia era un problema di chi doveva farsi perdonare qualcosa, secondo lei.
Può anche essere, ma l’unica cosa che so con certezza è che non ne posso più di svegliarmi nel cuore della notte per poi restare con l’occhio sbarrato a contemplare il nulla fino al mattino. Mi resta troppo tempo per pensare. E pensare troppo è pericoloso e finisci spesso con l’incasinarti. Nelle ultime notti, non riuscendo a tirare il freno al cervello, sono finito col mettere in discussione qualunque cosa avessi fatto fino ad oggi o avessi in mente di fare nei prossimi cinquant’anni. Non voglio metterla giù tragica, ma il tarlo del dubbio esistenziale ha trovato terreno fertile nel passato e nel presente per iniziare a ramificare nell’immediato futuro. Il mio Domani è un cielo velato di ineluttabile tragedia, e sono certo di non avere più scampo, perennemente alla rincorsa di qualcosa di irraggiungibile. Immagino l’intera vita come una matita alla quale non si riesce a fare la punta. Se è la mina di grafite all’interno della matita che si è rotta, non importa quante volte provi a temperarla, non riuscirai mai più a scrivere nemmeno una parola. Gli errori collezionati negli anni precedenti erano il naturale prequel all’inconsistenza della mia condizione attuale e non possono certo lasciar presagire nulla di buono per il futuro. La domanda “dove andrò a finire?” non trova mai una risposta rassicurante. Sto impazzendo, anche se la maggior parte delle persone mi liquiderebbe come semplice paranoico.
L’unico esercizio efficace per scacciare i pensieri in queste notti di smarrimento è sdraiarmi comodo, affondare la testa nel mio cuscino Memory, aspettare che il lattice mi avvolga il cranio in una presa materna e respirare a fondo. Far scivolare una mano sotto l’elastico delle mutande e iniziare a stropicciarmi il pisello con delicatezza nella speranza di risvegliarmi che è già mattina.
«Ancora l’incubo?» Stavolta la voce impastata di Amanda ha bloccato le mie falangi esploratrici ancora prima che iniziassero a darsi da fare.
«Già» le rispondo io in un sussurro che nelle intenzioni avrebbe dovuto minimizzare la mia ansia.
«Ancora?» mi domanda, non capisco se preoccupata o infastidita, con una voce che sembra provenire da un’altra dimensione.
«Già» le rispondo cercando di addolcire ancora di più il mio tono nella speranza di ricevere lo stesso trattamento in cambio.
«Ma non puoi dormire un po’?»
Voglio molto bene ad Amanda. Stiamo insieme da cinque anni e da due anni e mezzo conviviamo. L’ho conosciuta allo stadio durante il derby tra Inter e Milan, ed è stato ciò che di più simile a un colpo di fulmine io possa immaginare. Era fine aprile e i pomeriggi avevano appena ricominciato a essere soleggiati e finalmente godibili anche in maniche di camicia. La partita si giocava alle tre e ci ero andato in motorino con la zip della giacca chiusa solo fino a metà, felice come un bambino mentre l’aria frizzantina mi batteva sul petto e sulla faccia e mi accarezzava le mani nude.
Era il derby di ritorno e un’eventuale vittoria ci avrebbe consegnato matematicamente il diciassettesimo scudetto, quello dell’aggancio al Milan. E per di più a casa loro, davanti ai loro tifosi. Game, set and match. Non stavo nella pelle. Avevo ottenuto il biglietto per una botta di culo al lavoro (una delle rare, se non l’unica) nonostante lo stadio fosse comprensibilmente, completamente esaurito. La società per la quale prestavo, e presto tuttora, i miei umili servigi aveva chiuso una partnership con uno degli sponsor dell’Inter e ci avevano omaggiato di cinque biglietti in tribuna rossa numerata. In realtà, in quanto ultima ruota del carro, ero stato tagliato fuori dalla distribuzione nazista dei tagliandi da parte dei miei superiori, ma all’ultimo secondo il buon Dio si è messo una mano sulla coscienza e ha puntato il suo incontestabile dito iracondo sull’intestino del direttore commerciale e della sua corpulenta signora che, complice una cena disinvolta la sera prima, non si sono potuti presentare all’appuntamento con la Storia.
Amanda era alla cassa accrediti e nel momento in cui mi ha passato la busta bianca col mio nome scritto a penna vicino a quello del direttore commerciale cancellato da un tratto deciso di pennarello nero, ho sentito una scossa attraversarmi il corpo. Non era solo bella come un’attrice francese in un film che ha trionfato al Sundance Film Festival, ma aveva uno sguardo che prometteva conversazioni spumeggianti e confronti stimolanti su qualunque argomento, combinato a un sorriso rassicurante come quello di una mamma che abbraccia il figlio di ritorno dal fronte. Incredulità è la parola che meglio descriverebbe il mio stato d’animo.
Per tutto il primo tempo la partita è scivolata leggera attraverso la mia totale indifferenza. Pensavo solo a quella creatura meravigliosa che avevo appena incontrato e, né una galoppata sulla fascia né il prezioso palleggio della mia squadra a centrocampo mi entusiasmavano a un livello nemmeno lontanamente paragonabile al pensiero di quell’emanazione di Dio dai capelli color nocciola. Non sapevo nemmeno il suo nome ma era già il perno attorno al quale ruotava il mio mondo. Buttavo un occhio in campo e c’era lei in porta a bloccare un’azione avversaria. Era sempre lei che ripartiva palla al piede in un repentino ribaltamento di fronte, si accentrava scambiando fitto fitto il pallone sempre con se stessa finché non verticalizzava per la punta di diamante della squadra, che aveva le gambe robuste e muscolose di Ibrahimovic, ma il viso angelico della ragazza degli accrediti. Guardava il portiere avversario negli occhi, lo ammaliava, e lasciava partire un siluro che finiva poco a lato lambendo il palo, scatenando contemporaneamente le imprecazioni e i sospiri di sollievo di ottantamila tifosi tutti con la sua faccia. Lei era ovunque.
Appena finito il primo tempo mi sono precipitato da lei. L’ho osservata per qualche minuto da lontano sperando di non essere scoperto e scambiato per un maniaco sessuale, fino a quando ho racimolato il coraggio necessario per farmi avanti. Ogni passo di avvicinamento era così faticoso che avevo la sensazione di trascinare una lavatrice sulla schiena. Una volta davanti a lei non mi sarebbe rimasta altra scelta che invitarla a uscire e se lei avesse rifiutato, o fosse stata già impegnata, o entrambe le cose, me ne sarei andato non solo ferito nell’orgoglio, che peraltro ho sempre considerato sopravvalutato, ma con la ben peggiore consapevolezza che non avrei mai più incontrato nessuno di altrettanto incredibile nella mia vita, e che la futura madre dei miei figli sarebbe stata soltanto un triste ripiego che, a ogni bacio, mi avrebbe lasciato in bocca solo il gusto agrodolce dell’autocommiserazione. La posta in gioco era altissima e non ero certo di avere le carte giuste in mano, ma trovandomi in piedi di fronte a lei da ormai qualche minuto, qualcosa dovevo pur dire.
«Ciao!»
«Ciao?» mi fa eco lei aspettandosi che proseguissi la frase.
«Ciao, sì, scusa eh... di solito non faccio queste cose...» le accenno sorridendo nervosamente. Ripensandoci oggi a mente fredda, questa parte l’avrei evitata. Troppo cliché.
«Ma mi chiedevo se avessi un fidanzato, o un marito...» Sempre a mente fredda avrei evitato anche questa ma sul momento non mi è venuto niente di meglio.
La sua risposta è stata un misto di sensualità, dolcezza e divertita timidezza. Ma soprattutto è stata negativa.
«Ottimo» rispondo io con fermezza, prima di chiudermi in un silenzio del quale era difficile comprendere la natura, dondolando leggermente sulle gambe con le mani in tasca. Lei ha atteso educatamente qualche secondo prima di riprendere il discorso.
«E ti serviva saperlo solo per statistica o l’hai chiesto per un motivo?»
Ho sorriso in modo goffo, tentando di darle la sensazione di avere tutto sotto controllo e di sapere perfettamente cosa le avrei detto dopo, pur pensando esattamente il contrario.
«No... mi chiedevo se ti andava di lasciarmi il tuo numero e se ti potevo chiamare, non so, per bere un caffè...» Questa mi sembrava una buona frase, certo niente di geniale, ma almeno ero stato educato e poi non si può pretendere molto di più da un uomo sotto pressione.
«Magari lasciami il tuo, ok?» Ok. Ci sto. Mi piace. Non c’era presunzione nel suo tono, ma soltanto una gentile fermezza, segno di un’educazione esemplare.
«Certo... certo! Hai carta e penna?»
«Solo penna...» dice lei allungandomi una bic nera che le ho preso dalle mani come una benedizione.
«Ok, allora vediamo...» temporeggio mentre mi perquisisco le tasche in cerca di qualunque cosa su cui fosse possibile appuntare il numero. L’unico pezzetto di celluloide che sono riuscito a recuperare era la matrice del biglietto del derby, che in caso di vittoria avevo già programmato di incorniciare e fissare in bella mostra sul muro di casa. Non nascondo di averci pensato su, ma solo per un secondo, prima di decidere che quel minuscolo ma potenzialmente storico cimelio sarebbe stato sacrificato sull’altare dell’amore.
Le ho scritto il mio nome e lasciato il mio numero. Due volte. Sul biglietto ho scritto SANTIAGO 347 0746797 e subito sotto TRE QUATTRO SETTE ZERO SETTE QUATTRO SEI SETTE NOVE SETTE.
«Ecco, così se decidi di non chiamarmi non puoi usare la scusa che ti avevo scritto male un numero...» Sì, di questa ne vado fiero.
Lei ha sorriso, si è infilata...

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