Mentre il volo da Heathrow all’aeroporto Kennedy di New York attraversava l’Atlantico, Marshall telefonò più volte a Teddy Jack. Non ebbe mai risposta e ogni volta lasciò lo stesso messaggio: “Chiamami. È urgente”. Marshall continuava a cambiare posizione sul sedile e aveva gli occhi gonfi per la mancanza di sonno e la pancia vuota. Aveva fame, ma non riusciva a mangiare perché l’ansia gli aveva chiuso lo stomaco. Sulle prime aveva pensato di chiamare la polizia, poi si era un po’ calmato e aveva sperato che Georgia potesse essersi sbagliata. In fondo, non aveva prove certe che quello fosse il fratello di Nicolai Kapinski. D’altra parte, sapeva che Georgia non era una stupida, e che aveva un intuito infallibile. Ma se quello era Dimitri Kapinski, si chiedeva Marshall, perché adesso stava sorvegliando Georgia e Samuel Hemmings?
Dopo aver rifiutato l’offerta di un drink, Marshall si mise a fissare il buio fuori dal finestrino. Se solo avesse potuto mettersi in contatto con Teddy Jack, lui sarebbe stato in grado di spiegare ogni cosa, di dirgli che si trattava di un equivoco. Dopotutto, gli aveva giurato di proteggere Georgia. E se invece avesse mentito? Marshall chiuse gli occhi, e il rumore dei motori gli rimbombò nelle tempie. Doveva dormire almeno un po’. Finché era in volo sull’oceano, non poteva fare niente. Fino al suo arrivo a New York, non poteva fare niente.
Alla fine il sonno lo vinse, insieme a un incubo terrificante. Marshall si svegliò di soprassalto e chiese una bottiglia d’acqua. I suoi pensieri erano scombinati, confusi. Dormire... per tornare lucido, doveva dormire... Doveva per forza esserci una spiegazione. In fondo, Teddy Jack era il confidente di Owen. Suo padre non gli avrebbe mai dato tanta corda se non fosse stato convinto di potersi fidare. A meno che Teddy non avesse imbrogliato anche suo padre...
Marshall si raddrizzò sul sedile e tornò a digitare il numero di Teddy Jack, ma sentì la voce familiare della segreteria. Chiuse gli occhi, cercando di respirare profondamente, madido di sudore e con una forte oppressione al petto al pensiero di Georgia.
«Sta bene, signore?» gli chiese la hostess, chinandosi su di lui.
«Bene, benissimo» rispose Marshall. «Sono solo stanco, ecco tutto.»
Lei annuì, comprensiva. «Desidera un’altra coperta? Di notte fa freddo.»
«Quanto ci metteremo ad arrivare a New York?»
Lei guardò l’orologio. «Altre tre ore, signore. È certo di non gradire qualcos’altro da bere?»
«No, niente, grazie» disse lui, poi sprofondò nel sedile e chiuse gli occhi, con la mano destra appoggiata sulla tasca della giacca che conteneva le lettere.
Il sonno arrivò, insieme alle immagini dello scantinato della Zeigler Gallery e di Charlotte Gorday in un bagno di sangue... Poi Nicolai Kapinski che delirava in preda al panico, chiedendo del fratello, e Teddy Jack che sorrideva, dicendogli che avevano trovato Dimitri. Lo avevano trovato, finalmente... Marshall si svegliò, cambiò posizione e si sforzò di riaddormentarsi. Questa volta sognò le lettere, e Geertje Dircx. Era magrissima, smunta, mentre gli porgeva i fogli di carta.
“Questa è la mia storia...”
Marshall si risvegliò, percepì l’inizio di un fastidioso mal di testa e chiese una pastiglia. Poi riprovò a comporre il numero di Teddy Jack e lasciò l’ennesimo messaggio. Stavolta, quando si addormentò, precipitò a capofitto in un sogno tanto vivido che gli parve di rivivere il passato: tornò a essere il bambino che aveva distrutto il costoso libro di Owen, il ragazzino che andava al British Museum con Timothy Parker-Ross, il giovane che prendeva Georgia tra le braccia e la baciava per la prima volta.
“Ti amo” aveva detto lei, con i capelli che le ricadevano sulla fronte. “Dài, su, dimmelo anche tu!”
“Ti amo” aveva risposto lui, incupendosi un po’ perché non gli sembrava vero di avere avuto tanta fortuna.
Un sobbalzo improvviso dell’aereo svegliò Marshall una volta per tutte. Il mal di testa era svanito con il sonno e si sentiva riposato, con la mente più lucida. Si allacciò la cintura di sicurezza in previsione dell’atterraggio e spense il cellulare. Presto avrebbe potuto fare qualcosa. Guardò gli altri passeggeri. Nessuno aveva dato segno di interessarsi a lui durante il volo: forse i suoi inseguitori lo avevano perso a Heathrow. Magari a New York avrebbe avuto un po’ di tempo, prima che lo riacciuffassero... Si premette con impazienza le lettere sul petto, ansioso che il viaggio finisse. Lo skyline di New York al mattino presto sembrò apparire di colpo in mezzo alle nubi, quasi grattando la pancia dell’aereo che faceva rotta verso terra.
Tobar Manners era arrivato a New York il giorno prima e alloggiava al Four Seasons, dove si era lamentato del servizio in camera e aveva rimandato indietro l’acqua con il pretesto che era sgasata. Il suo umore pessimo era peggiorato a causa delle ridicole regole di comunicazione su cui aveva insistito il cliente. Non avrebbe parlato con Tobar direttamente, ma attraverso un intermediario, un americano smilzo in giacca e cravatta. Per il momento, tutto ciò che Tobar era riuscito a scoprire era che i due ritratti di Rembrandt erano ancora in magazzino e sarebbero stati recapitati al Museum of Mankind il giorno seguente, sotto scorta, due ore prima dell’inizio previsto dell’asta.
Incapace di rilassarsi, Tobar aveva visitato il museo per controllare i sistemi di sicurezza, ed era riuscito a irritare il personale e ad alienarsi le simpatie del direttore. Con grande piacere, tuttavia, constatò che avevano eretto un alto palco su cui i due ritratti avrebbero avuto il massimo risalto, per essere fotografati e filmati dai media di tutto il mondo. Be’, pensò Tobar, forse non di tutto il mondo in senso letterale, dato che la recessione aveva tolto smalto agli eventi culturali, ma di certo il mondo dell’arte avrebbe seguito con il fiato sospeso.
Tobar aveva insistito perché Rosella lo accompagnasse, ma era rimasto sorpreso che lei avesse acconsentito. Poi, in una delle sue confessioni notturne, le aveva raccontato delle lettere di Rembrandt e della lista dei falsi.
“Sono autentiche?” aveva chiesto lei, senza lasciar trapelare che sapeva già della loro esistenza.
“Certo” aveva risposto Tobar. “Sono nelle mani di Marshall Zeigler.”
“Ma” aveva domandato lei, tastando il terreno “immagino che qualcuno cercherà di impedire che siano rese pubbliche?”
“Marshall ha messo la testa sul ceppo, quindi ora non potrà lamentarsi se qualcuno gliela mozza” aveva risposto Tobar, stringendosi contro la moglie. “Io ho cercato di aiutarlo.”
“Ah, davvero?”
“Già” aveva insistito lui, con tono melenso. “Ma non mi ha dato fiducia.”
«E perché no? Cosa ti sei offerto di fare per lui?»
“Di ritirare i Rembrandt dall’asta, se erano sulla lista di falsi.”
Lei aveva capito subito che il marito mentiva, lo percepiva nel buio. La bugia era così grossa da sembrare una terza presenza nella camera da letto.
“E Marshall come ha reagito?”
“Ha detto che vuole rovinarmi” aveva risposto Tobar, puntando i piedi contro i suoi. “Ha detto che avrebbe fatto di tutto per mettersi contro di me, per screditarmi. Penso che sarebbe capace di dire che i ritratti sono falsi solo per distruggermi.”
“Ma nessuno gli crederebbe, vero?” aveva chiesto Rosella in tono sdolcinato. “A meno che Marshall non abbia la lista. E se qualcuno gli portasse via le lettere, lui rimarrebbe senza prove. La persona che possiede i documenti ha il potere.”
Tobar, soddisfatto, aveva sorriso nel buio, poi si era alzato ed era sceso dal letto. Si era reso conto con sollievo che la moglie aveva cambiato partito. La prospettiva del malloppo aveva sedato il suo disgusto per come lui aveva trattato Owen Zeigler e la promessa dei soldi ne aveva fatto una sua alleata.
Marshall scelse la banca più grande di Manhattan, entrò e chiese di parlare con il direttore. Lo presentarono al suo vice, un uomo con una ferita sul collo.
«Sta bene?» chiese all’uomo, che si strinse nelle spalle e spiegò: «Puntura di vespa: fa un male cane».
Marshall sorrise comprensivo. «Mi chiamo Zeigler e vorrei aprire un conto nella sua banca e affittare una cassetta di sicurezza. Ho anche bisogno di lasciare qui una cosa.»
Il vicedirettore gli tese la mano dicendo: «Sono Dean Foley, signor Zeigler. Prego, mi segua».
Marshall seguì Foley nell’ufficio sul retro e si sedette, guardando l’uomo negli occhi. «Mi serve anche una fotocopiatrice.»
«Una fotocopiatrice?» chiese Foley, un po’ interdetto.
Marshall indicò la borsa. «Sono un traduttore. Dovrei fare alcune copie del mio lavoro e poi vorrei lasciare qui questa borsa.»
«Naturalmente, prima dovremo controllarne il contenuto.»
«Ma certo. C’è solo un portatile.» Marshall spinse la borsa sul tavolo, e notò che il collo di Foley si stava gonfiando. «Dovrebbe metterci del ghiaccio» disse.
«Come?»
«Sulla puntura. E farsi togliere il pungiglione, è quello che pizzica.»
Foley fece un sorriso debole, grattandosi il collo. «L’insetto è entrato e mi ha punto, così. Non ha considerato nessun altro, sembrava avermi preso di mira.»
Marshall osservò l’uomo, e un vecchio ricordo riemerse. Suo padre gli aveva spiegato la differenza tra le vespe e le api.
“Le api prima di colpire avvertono, ti danno una possibilità. Le vespe, no. Si limitano a scegliere la vittima e ad attaccare. Stai attento alle vespe, Marshall, le api si estingueranno molto, molto prima...”
«Lei alloggia a New York, signor Zeigler?»
Marshall annuì. «Per qualche tempo.»
«Ed è qui per lavoro?»
«Sì, per lavoro.»
Foley porse a Marshall un modulo perché lo firmasse. Poi studiò il documento e allungò una mano, dicendo: «Se adesso vuole darmi la borsa...».
«Prima devo fare le fotocopie» si affrettò a interromperlo Marshall. «Devo mandarle oggi stesso ai miei editori. Vogliono che spedisca il lavoro via fax.» Si strinse nelle spalle. «So che sarebbe più comodo mandarlo via posta elettronica, ma quella gente è un po’ all’antica.»
«Non c’è molto da fotocopiare, vero?»
«No, non molto.»
«Le serve aiuto?» chiese Foley, indicando la fotocopiatrice in un angolo.
«No, non si preoccupi» rispose Marshall, premendo il tasto dell’accensione della macchina. «Ci vorrà un attimo.»
Marshall guardò l’uomo uscire, poi sbirciò attraverso le veneziane dell’ufficio prima di tirare fuori le lettere di tasca. Le soppesò con cura su una mano. Si rese conto che stavolta il suo tempo era agli sgoccioli. Non aveva più vie di uscita. Doveva fare qualcosa, e in fretta... Se aveva sperato di stanare l’assassino di suo padre, era rimasto deluso. Il responsabile dell’omicidio, chiunque fosse, non dava segni di voler uscire dall’ombra. Non ci sarebbe stato nessuno smascheramento, nessun contatto. Nessuno lo avrebbe avvicinato per discutere, e in fin dei conti perché avrebbe dovuto? Di colpo Marshall provò imbarazzo per la propria ingenuità. Si era davvero aspettato che l’assassino agisse come un uomo ragionevole? Che mostrasse le sue carte?
Non poteva esserci nessuna discussione. Quattro persone erano già morte per quelle lettere: il colpevole non avrebbe esitato a fare di lui la quinta vittima. La sua vita era preziosa solo finché aveva in mano i documenti. Quando fossero riusciti a strapparglieli, sarebbe morto... Si soffermò a pensare, dolorosamente conscio della sua vulnerabilità. Era solo, in una città che non era la sua. Se anche fosse riuscito a tornare sulle strade di New York, non sarebbe andato lontano. Aveva sperato di reggere fino all’asta, ma ora sospettava di avere poche possibilità di farcela. Non poteva fidarsi di nessuno. Tutti erano potenziali sospetti, e non gli restava nessun posto dove andare. I falsi Rembrandt sarebbero stati venduti il giorno dopo per una fortuna, a meno che lui non li avesse smascherati pubblicando le lettere, la lista e la verità sulla scimmia di Rembrandt.
Marshall sapeva cosa doveva fare. Non cosa avrebbe voluto, o sperato di fare, ma quello che doveva fare. Con la massima cura, fece due copie di ogni lettera, e due della lista. Ogni volta che qualcuno passava davanti alla porta dell’ufficio, si irrigidiva, aspettando che entrasse. Ogni volta sollevava il coperchio della fotocopiatrice e si fermava. Gli sembrava di metterci delle ore, ogni copia calda scivolava minacciosamente sul vassoio di plastica laterale. Marshall infilò gli originali nella busta uno per uno, maneggiandoli con cautela perché la carta era molto rovinata. Le copie apparivano diverse, ovviamente: non avevano i toni seppia degli originali, ma erano di un bianco crudo, accecante, il bianco senza valore della carta comune.
Lavorava in fretta perché sapeva di avere poco tempo e di essere con ogni probabilità sorvegliato. Chiunque lo avesse seguito, sapeva che le lettere erano in mano sua e avrebbe aspettato una buona occasione per colpire. Essere dentro alla più grande banca di Manhattan gli offriva una certa protezione, ma Marshall sapeva di essere stato fortunato fino a quel momento. Le lettere sarebbero rimaste al sicuro nella banca, ma lui sarebbe dovuto uscire... Avvicinandosi alla finestra e guardando di nuovo dalle persiane, posò lo sguardo su due uomini all’ingresso. Sembravano fuori posto in quel contesto e, mentre Marshall li fissava, chiesero qualcosa a un’impiegata a uno degli sportelli.
La donna si girò e indicò il retro della banca, verso l’ufficio in cui si trovava Marshall... Marshall raccolse le copie, tirò fuori due buste, inserì un esemplare di ogni copia in entrambe e scrisse gli indirizzi. Una era per il “New ...