Un'estate pericolosa
eBook - ePub

Un'estate pericolosa

  1. 210 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

La grande sfida fra i due toreri Dominguìn e Ordòñez nella primavera del 1959. Una testimonianza eccezionale sul rischio e la tensione che elettrizza il mondo dell'arena.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804469087
eBook ISBN
9788852018725

1

Come fu strano ritornare in Spagna. Non m’ero mai aspettato di poter ritornare nel paese che amavo più di ogni altro al mondo, a parte il mio, e non avevo intenzione di tornarvi finché l’ultimo dei miei amici si fosse trovato in galera. Ma a Cuba, nella primavera del 1953, chiesi a certi buoni amici che durante la Guerra Civile avevano combattuto gli uni contro gli altri se ritenevano possibile una nostra tappa in Spagna mentre andavamo in Africa, e quelli dissero che potevo ritornarvi, senza compromettere il mio onore, se non mi fossi rimangiato nulla di ciò che avevo scritto e avessi tenuto la bocca chiusa in fatto di politica. Inutile chiedere il visto. Non erano più necessari per i turisti americani.
Nel 1953 nessuno dei miei amici era in galera e allora progettai di accompagnare mia moglie Mary alla feria di Pamplona e da Pamplona a Madrid per vedere il Prado e poi, se eravamo ancora liberi, di proseguire fino a Valencia per le corride che si svolgevano là prima di prendere la nave per l’Africa. Sapevo che Mary non correva nessun rischio perché non era mai stata in Spagna in vita sua e conosceva solo gente del bel mondo. Di certo, se avesse avuto qualche grana, sarebbero corsi a toglierla d’impiccio.
Passammo svelti Parigi e guidammo in fretta attraverso la Francia, via Chartres, la valle della Loira e per la strada che da Bordeaux va a Biarritz, dove diverse persone ci aspettavano per passare la frontiera insieme a noi. Si mangiò e si bevve bene, poi fissammo un appuntamento nel nostro albergo di Hendaye Plage e arrivammo al confine tutti insieme. Uno dei nostri amici aveva una lettera del duca Miguel Primo de Rivera, allora ambasciatore spagnolo a Londra, che avrebbe dovuto fare miracoli se io fossi incorso in qualche difficoltà. Questo mi dava un vago senso di sollievo.
Il tempo era stato brutto e piovoso mentre raggiungevamo Hendaye ed era brutto e nuvoloso quel mattino, tanto che per le fitte nuvole e la nebbia non si vedevano i monti della Spagna. I nostri amici non si presentarono all’appuntamento. Concessi loro un’ora e poi un’altra mezz’ora. Quindi partimmo per la frontiera.
Era brutto anche alla dogana. Consegnai alla polizia i quattro passaporti e l’ispettore studiò a lungo il mio senza alzare lo sguardo. In Spagna è una cosa abituale, ma tutt’altro che rassicurante.
«È parente di Hemingway, lo scrittore?» chiese, sempre tenendo gli occhi bassi.
«Apparteniamo alla stessa famiglia» risposi.
Sfogliò le pagine del passaporto e poi studiò la fotografia.
«È lei Hemingway?»
Mi misi sull’attenti e dissi: «A sus ordenes», che in spagnolo non significa solo “ai suoi ordini” ma anche “a sua disposizione”. L’avevo visto e sentito dire nelle più svariate occasioni e speravo di averlo detto bene e col giusto tono di voce.
Lui comunque si alzò, mi diede la mano e disse: «Ho letto tutti i suoi libri e li ammiro moltissimo. Mi lasci timbrare i passaporti e poi vedremo se posso fare qualcosa per lei alla dogana».
Così, dunque, rimettemmo piede in Spagna, e sembrava troppo bello per essere vero. Ogni volta che la guardia civil ci fermò ai tre posti di blocco lungo il fiume Bidassoa mi aspettavo che ci arrestassero o ci rispedissero alla frontiera. E invece, ogni volta, le guardie esaminarono i nostri passaporti attentamente ed educatamente e ci fecero allegramente segno di proseguire. Eravamo in quattro, diretti al San Fermines di Pamplona: una coppia di americani, un gioviale italiano del Veneto, Gianfranco Ivancich, e un autista italiano di Udine. Gianfranco era un ex ufficiale di cavalleria che aveva combattuto con Rommel e un intimo e caro amico vissuto con noi a Cuba mentre lavorava sull’isola. Era venuto a prenderci con la macchina a Le Havre. Adamo, l’autista, aveva una sola ambizione: metter su un’impresa di pompe funebri. C’è riuscito, e se per caso dovesse capitarvi di tirare le cuoia a Udine quello è l’uomo che fa per voi. Nessuno mai gli chiese da che parte avesse combattuto durante la Guerra Civile. In quel primo viaggio, per la pace del mio spirito, mi sorpresi talvolta a sperare che avesse combattuto da tutt’e due le parti. Conoscendolo meglio e apprezzando la sua leonardesca versatilità, credo che sarebbe stato pienamente possibile. Adamo poteva benissimo combattere da una parte per i suoi principî, da un’altra per la sua patria o per la città di Udine, e se c’era una terza parte avrebbe sempre potuto combattere per il suo Dio e per la Lancia o per l’industria delle pompe funebri, tutte cose alle quali era egualmente e profondamente devoto.
Se volete viaggiare in allegria, come piace a me, trovatevi dei bravi italiani come compagni di viaggio. Noi eravamo con due dei migliori in una buona Lancia ben stagionata che si arrampicava su un versante della verde vallata del Bidassoa tra i castagni e la nebbia sempre più rada, tanto da farmi capire che dopo il Col de Velate, quando avremmo iniziato la tortuosa discesa verso l’altopiano di Navarra, il cielo sarebbe stato sereno.
Questo libro dovrebbe parlare di corride, ma allora io non provavo molto interesse per le corride, a parte il desiderio di mostrarle a Mary e Gianfranco. Mary aveva visto combattere Manolete nella sua ultima esibizione messicana. Era un giorno di vento e gli toccarono i due tori peggiori, ma a Mary era piaciuta la corrida, che valeva pochissimo, e io sapevo che se le era piaciuta quella le sarebbero piaciute anche le altre. Dicono che se puoi star lontano dalle corride per un anno puoi starne lontano per sempre. Non è vero ma è un adagio che contiene un pizzico di verità e io, tolte le corride messicane, ero stato lontano per quattordici anni. Per gran parte del tempo, però, era stato come essere in galera, con la differenza che io ero chiuso fuori, non dentro.
Avevo letto, e amici fidati mi avevano parlato, di alcuni degli abusi che si era cominciato a commettere negli anni della dominazione di Manolete e dopo. Per proteggere i principali matadores, le corna dei tori erano state troncate in punta e poi piallate e limate fino a farle sembrare corna vere. Ma in punta erano tenere come l’unghia di un dito tagliata troppo corta e se il toro, aizzato da qualcuno, le picchiava contro le tavole della barrera sentiva così male che a partire da quel momento ci avrebbe pensato due volte prima di provarsi a incornare qualche altra cosa. Lo stesso effetto sarebbe stato prodotto dall’urto contro i teli pesanti come il ferro delle imbottiture allora in uso per corazzare i cavalli.
Con le corna accorciate il toro smarriva anche il senso della distanza e il matador correva un rischio assai minore di essere colpito. Il toro impara a usare le corna nella fattoria durante i litigi, le baruffe e talvolta i gravi scontri quotidiani con i suoi fratelli, e ogni anno che passa le usa con sempre maggiore intelligenza e abilità. Per questo i manager di certi fuoriclasse, che avevano ciascuno la sua filza di matadores meno noti, cercarono di convincere gli allevatori a produrre quello che noi chiamiamo il mezzo toro o, in spagnolo, medio-toro. Si tratta di un toro che deve avere appena compiuto tre anni: così giovane, non saprà usare le corna troppo bene. Perché non diventi troppo forte di zampe, e perciò irriducibile dalla muleta, basterà non fargli fare troppa strada dal pascolo all’acqua. Perché raggiunga il peso richiesto basterà rimpinzarlo di cereali: così avrà l’aspetto di un toro, peserà come un toro e irromperà nell’arena come un toro. Ma in realtà è soltanto un mezzo toro e il trattamento al quale viene sottoposto lo rammollisce e lo rende docile e, se il matador non ha per lui tutti i riguardi, alla fine è alla sua mercé.
Certo, può sempre ferirti o ammazzarti con una cornata anche se gli hanno accorciato le corna. Molti sono stati feriti da un corno accorciato. Ma un toro con le corna manipolate è almeno dieci volte più sicuro da trattare e da uccidere rispetto a un toro con le corna intatte.
Lo spettatore medio non può capire se le corna sono state accorciate, perché non ha esperienza di corna di animali e non vede le tracce grigio-biancastre lasciate dalla lima. Gli spettatori guardano la punta delle corna e vedono una bella punta lucente e non sanno che è stata ottenuta strofinando e lustrando le corna con olio di macchina. L’olio di macchina dà a un corno accorciato una lucentezza migliore di quella che il sapone da sella dà ai tuoi scalcagnati stivali da cacciatore, ma per l’osservatore allenato è altrettanto facile da individuare quanto lo è un diamante difettoso per un gioielliere, e lo si nota da molto più lontano.
I manager senza scrupoli dell’epoca di Manolete e degli anni che seguirono erano anche spesso gli organizzatori, o legati agli organizzatori e a certi allevatori. L’ideale per i loro matadores era il mezzo toro e molti allevatori si diedero a produrlo in grandi quantità. Ne ridussero le dimensioni per renderlo più docile e meno pericoloso e poi lo imbottirono di cereali per farlo sembrare più grosso. Delle corna non dovevano preoccuparsi. Le corna si potevano manipolare e il pubblico, vedendo i miracoli che si facevano con quegli animali – uomini che combattevano a ritroso; uomini che fissavano il pubblico anziché il toro, quando gli passava sotto le ascelle; uomini che si mettevano in ginocchio davanti alla bestia feroce e appoggiavano il gomito sinistro sull’orecchio del toro fingendo di parlargli per telefono; uomini che gli facevano una carezza sul corno e gettavano via spada e muleta guardando il pubblico come attori gigioni davanti al toro sanguinante e ipnotizzato – vedendo, dicevo, questo spettacolo da circo, pensò d’essere testimone di una nuova Età dell’Oro della tauromachia.
Se quei manager senza scrupoli dovevano accettare da allevatori onesti tori veri con le corna non manipolate, c’era sempre la possibilità che agli animali capitasse qualcosa nel buio dei corridoi e nelle poste in pietra dell’arena dove vengono rinchiusi dopo essere stati sorteggiati il giorno della corrida a mezzodì. Così, se all’apartado (cioè al momento del sorteggio e della collocazione dei tori nelle poste) avevi visto un toro dall’occhio vivo, agile come un gatto e saldo sulle zampe, e più tardi questo toro entrava nell’arena mostrando un’evidente debolezza al treno posteriore, qualcuno poteva benissimo avergli lasciato cadere un pesante sacco di mangime sul fondo della schiena. O se vagava come un sonnambulo nell’arena e il matador poteva solo provare a lavorarselo nel suo stordimento, avendo così davanti un animale che non mostrava il minimo interesse per quello che accadeva intorno a lui e che aveva dimenticato a cosa servivano le grandi corna che aveva sulla testa, allora qualcuno poteva benissimo averlo punzecchiato con una bella siringa da cavallo piena di barbiturici.
Certe volte, si capisce, dovevano battersi contro un toro vero con le corna non manipolate. I migliori erano in grado di farlo, ma non gli andava perché era troppo pericoloso. Tutti, però, lo facevano un certo numero di volte ogni anno.
Così, per molte ragioni, ma soprattutto per il fatto che mi ero un po’ estraniato dallo sport come spettacolo, avevo perso molta della mia antica passione per le corride. Ma adesso era cresciuta una nuova generazione di toreri e io ero ansioso di vederli. Avevo conosciuto i loro padri, alcuni molto bene, ma dopo che alcuni erano morti e altri avevano mollato per paura o per motivi diversi avevo deciso di non avere mai più un torero per amico perché soffrivo troppo per loro e con loro quando non riuscivano a tener testa al toro per paura o per l’inettitudine che è il prodotto della paura.
Quell’anno 1953 prendemmo alloggio fuori città a Lecumberri e coprivamo in automobile i quaranta chilometri tra Lecumberri e Pamplona per arrivare alle sei e mezzo ogni mattina prima che, alle sette, sguinzagliassero i tori per le vie. Piazzammo i nostri amici nell’albergo di Lecumberri e vi passammo la solita settimana o giù di lì. Dopo sette giorni di baldoria ci conoscevamo tutti piuttosto bene e ci trovavamo simpatici, tutti o quasi, il che voleva dire che era stata una bella fiesta. All’inizio avevo trovato un tantino pretenziosa la Rolls Royce con finiture in oro del conte di Dudley. Ora la trovavo incantevole. Così, quell’anno, andarono le cose.
Gianfranco s’era unito a una di quelle squadre, costituite da adulatori e aspiranti borsaioli, che ballavano e bevevano tutta la notte, per cui il suo letto a Lecumberri lo vide molto raramente. Si creò una sua piccola fama perché a volte si metteva a dormire sulla rampa cintata dalla quale i tori entrano nell’arena per avere la certezza di essere sveglio in tempo per l’encierro e per non perderlo come gli era capitato una mattina. Non lo perse. Fu calpestato dai tori e tutti i membri della sua combriccola ne andarono assai fieri.
Adamo era nell’arena ogni mattina e voleva che gli dessero il permesso di ammazzare un toro, ma la direzione aveva altri progetti.
Il tempo era pessimo e Mary si bagnò fino alle ossa assistendo alle corride e si buscò un forte raffreddore con la febbre che non smise di tormentarla per tutto il tempo che restammo a Madrid. Le corride non erano gran che. Tranne una, che passò alla storia. Fu la prima volta che vedemmo Antonio Ordóñez.
Compresi che era grande dal primo lungo e lento passaggio che fece con la cappa. Era come rivedere, vivi e vegeti, tutti i grandi sbandieratori di cappe, e sì ch’erano tanti. Solo che lui era meglio. Poi, con la muleta, arrivò alla perfezione. Uccise bene e senza fatica. Studiandolo attentamente e da vicino capii che sarebbe diventato un grandissimo matador, se non gli fosse successo niente. Allora non sapevo che lo sarebbe diventato qualunque cosa gli fosse accaduta, e che il suo coraggio e la sua passione sarebbero cresciuti dopo ogni grave ferita.
Tempo addietro avevo conosciuto suo padre Cayetano e lo avevo descritto, lui e le sue corride, in Fiesta. Tutte le pagine di quel libro che parlano di corride sono state ispirate da Cayetano e dal suo modo di combattere. Tutto quello che succede fuori dell’arena è frutto della mia immaginazione. Lui lo ha sempre saputo e non ci ha mai trovato niente da ridire.
Guardando Antonio alle prese col toro capii che aveva tutto quello che aveva avuto suo padre ai tempi suoi. Cayetano era in possesso di un’assoluta perfezione tecnica. Sapeva dirigere i suoi subalterni, i picadores e i banderilleros, in modo tale che tutto il combattimento, le tre fasi che portavano alla morte del toro, si svolgesse nell’ordine e nella razionalità. Antonio era molto migliore di lui e ogni gesto che faceva con la cappa dal momento in cui il toro entrava nell’arena e ogni mossa dei picadores e il piazzamento di ogni colpo di lancia erano destinati con grande intelligenza a preparare il toro per l’ultimo atto della sua esibizione: il suo assoggettamento da parte del drappo scarlatto della muleta che precede la sua morte a fil di spada.
Nella corrida moderna non basta che il toro sia semplicemente dominato dalla muleta in modo tale da poter essere passato a fil di spada. Prima di uccidere, se il toro è ancora in grado di caricare, il matador deve compiere una serie di classici passaggi. In questi passaggi il corpo del matador dev’essere a portata del corno del toro. Più vicino passa il toro all’invito e all’ordine dell’uomo, più grande è il brivido dello spettatore. I passaggi classici sono tutti pericolosissimi e durante questi passaggi il toro dev’essere tenuto a bada dal pezzo di stoffa scarlatta spiegato dal matador sopra una bacchetta lunga un metro. Si sono inventati molti passaggi truccati nei quali in realtà è l’uomo che va a sfiorare il toro, invece di farsi sfiorare da lui, o è l’uomo che approfitta del suo passaggio salutandolo, in sostanza, mentre passa, invece di controllare e dirigere le sue mosse. I saluti più sensazionali si fanno ai tori che caricano in linea retta, quando il matador, sapendo che il rischio è relativamente nullo, volta le spalle al toro all’inizio del passaggio. Potrebbe passare così anche un tram, ma il pubblico va in estasi davanti a questi trucchi.
La prima volta che vidi Antonio Ordóñez capii che era capace di eseguire tutti i passaggi classici senza trucchi, che conosceva i tori, che poteva uccidere bene, se voleva, e infine che era un genio con la cappa. Capii che possedeva i tre grandi requisiti del matador: coraggio, attitudine professionale e una specie di sovrana indifferenza davanti al pericolo di lasciarci la pelle. Ma quando un comune amico mi disse, uscendo dall’arena dopo la corrida, che Antonio desiderava che andassi a trovarlo all’Hotel Yoldi pensai: non rimetterti a bazzicare toreri e soprattutto non questo, ora che sai quanto vale e quanto avrai da perdere se gli succede qualcosa.
Per fortuna non ho mai imparato ad accettare i consigli che mi dò, né a prestar fede ai miei timori. E così, quando incontrai Jesús Córdoba, il torero messicano nato nel Kansas che parla un ottimo inglese e che il giorno prima mi aveva dedicato un toro, gli chiesi dov’era lo Yoldi e lui si offerse di accompagnarmi. Jesús Córdoba era un ragazzo straordinario e un abile e intelligente matador e fare quattro chiacchiere con lui fu per me un grandissimo piacere. Mi lasciò davanti alla porta della camera di Antonio.
Antonio giaceva nudo sul letto, coperto da una salvietta come da una foglia di fico. I primi a colpirmi furono gli occhi: gli occhi più scuri, più allegri e più vivi che uno abbia mai visto; poi il sogghigno da monello birichino e le cicatrici sulla coscia destra, che non era possibile ignorare. Antonio mi tese la mano sinistra, perché si era tagliato la destra in malo modo con la spada uccidendo il secondo toro, e disse: «Si sieda sul letto. Mi dica. Sono bravo come mio padre?».
Allora, guardandolo in quegli occhi strani, mentre il sogghigno era svanito insieme al dubbio se avremmo mai potuto essere amici, gli dissi che era meglio di suo padre e gli spiegai quanto valeva Cayetano. Poi si parlò della mano. Disse che in due giorni sarebbe stato in grado di usarla. Era un taglio profondo, che però non aveva reciso né tendini né legamenti. Arrivò la telefonata che aveva fatto a Carmen, la sua fidanzata, figlia del suo manager Dominguín e sorella del matador Luis Miguel Dominguín, e io gli chiesi il permesso di allontanarmi per lasciarlo parlare in santa pace. Quando ebbe finito di parlare lo salutai. Ci accordammo per trovarci a El Rey Noble con Mary e da allora siamo stati sempre amici.
La prima volta che assistemmo a una corrida di Antonio, Luis Miguel Dominguín aveva smesso di fare il torero. Lo incontrammo a Villa Paz, la fattoria che aveva appena comprato vicino a Saelices, sulla strada che da Madrid porta a Valencia. Da molti anni conoscevo suo padre, che era stato sia un buon matador in un’epoca in cui i grandi matadores erano due, sia poi un uomo d’affari abilissimo e scaltro che av...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di James A. Michener
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. Un’estate pericolosa
  7. Mappa della Spagna
  8. Capitolo 1
  9. Capitolo 2
  10. Capitolo 3
  11. Capitolo 4
  12. Capitolo 5
  13. Capitolo 6
  14. Capitolo 7
  15. Capitolo 8
  16. Capitolo 9
  17. Capitolo 10
  18. Capitolo 11
  19. Capitolo 12
  20. Capitolo 13
  21. Glossario di termini usati nella corrida
  22. Copyright