Ebrei invisibili
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Ebrei invisibili

I sopravvissuti dell'Europa orientale dal comunismo a oggi

  1. 552 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ebrei invisibili

I sopravvissuti dell'Europa orientale dal comunismo a oggi

Informazioni su questo libro

Come spiegare la recente recrudescenza dell'antisemitismo nei paesi dell'Europa orientale? Perché gli ebrei vengono accusati di essere i principali responsabili della dittatura comunista? Per rispondere a questi interrogativi Nissim ed Eschenazi hanno condotto un'ampia e capillare inchiesta, iniziata nel 1989, tra Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia e Germania orientale: territori in cui, fino alla Seconda guerra mondiale, vivevano circa dieci milioni di ebrei.
Il volume ricostruisce la vicenda degli ebrei sopravvissuti alla Shoà e rimasti nei paesi comunisti, dimostrando come in ciascuna nazione l'antisemitismo sia stato condizionato dalle diverse esperienze storiche e culturali, e soprattutto racconta come, anche nei momenti più atroci delle persecuzioni, uomini coraggiosi abbiano saputo salvare molte vite con le loro "piccole scelte".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804536406
eBook ISBN
9788852021077
Argomento
Storia

POLONIA

Polacchi ed ebrei vittime della stessa guerra,
ma ancora nemici

Alla fine della seconda guerra mondiale, i polacchi si ritrovarono a vivere in un paese che stentavano a riconoscere. L’unico popolo dell’Europa orientale che non si era alleato con l’Asse, e aveva combattuto contro l’esercito nazista nella disperata rivolta di Varsavia del 1944, pagò un prezzo altissimo alla guerra: 3 milioni di vittime (escludendo gli oltre 3 milioni di ebrei residenti in Polonia e sterminati nei lager), su una popolazione di 34 milioni 800 mila. Varsavia era distrutta per nove decimi, e anche le altre grandi città avevano subito terribili devastazioni; trasporti e comunicazioni erano al 50% fuori uso. Complessivamente era andato perduto il 38% delle ricchezze nazionali. Non solo. Dopo il trauma dell’invasione nazista e dello smembramento del territorio, spartito tra tedeschi e russi, si riproponeva per la nazione il tragico destino della dominazione straniera, della perdita dell’indipendenza e dei legami con l’Occidente, della vittoria del totalitarismo. L’Armata Rossa occupava il paese, e gli accordi di Jalta avevano costretto la Polonia nell’orbita sovietica. I polacchi si sentirono abbandonati e traditi dalle democrazie occidentali. Ecco come descrive lo sconcerto di quei giorni Waga, un personaggio di Cenere e diamanti, romanzo dello scrittore polacco Jerzy Andrzejewski:
Ma era proprio questa, la fine che prevedevamo? No, noi immaginavamo che dalla guerra uscissero vinti non solo i tedeschi, ma anche i russi. Invece, almeno per ora, è andata diversamente. In questo momento, dunque, i polacchi si dividono in due categorie: quelli che hanno venduto la libertà della Polonia, e quelli che si rifiutano di farlo. I primi vogliono sottomettersi alla Russia, noi no. Loro vogliono il comunismo, noi no. Loro vogliono schiacciare noi, noi dobbiamo schiacciare loro.1
Prima della guerra viveva in Polonia la più numerosa comunità ebraica di tutta l’Europa, costituita da ben 3 milioni e mezzo di persone. La «soluzione finale» ideata dai nazisti mirava anzitutto alla loro eliminazione; e vi riuscì: su 6 milioni di vittime dell’Olocausto, metà erano ebrei polacchi. Alla fine della guerra solo poche migliaia tornarono in Polonia dai campi di sterminio o dalla vicina Russia dove si erano rifugiati. In tutto non più di 400 mila ebrei, 150 mila dei quali lasciarono quasi subito il paese per raggiungere la Palestina o gli Stati Uniti. Auschwitz aveva cancellato per sempre il variegato mondo dello Shtetl* con i suoi costumi, le sue sinagoghe, la sua lingua, i suoi teatri, i suoi partiti. Quel passato ormai era un cumulo di macerie.
Nel 1945 la Polonia si presentava come un paese dolorosamente irriconoscibile sia per i polacchi sia per gli ebrei. Durante la seconda guerra mondiale entrambi avevano condiviso lo stesso nemico, la Germania, ed entrambi avevano sperato nella distruzione della potenza nazista. Ora che i tedeschi erano stati sconfitti e la guerra era finita, il martirio dei due popoli per opera dello stesso oppressore – anche se di proporzioni tanto diverse – poteva creare le condizioni di una ritrovata solidarietà.
Mentre infatti in Ungheria lo scenario della guerra aveva visto ebrei e ungheresi su fronti opposti e la salvezza dei primi aveva coinciso con la sconfitta dei secondi, alleati dei tedeschi, in Polonia questa situazione non si era verificata. Così, se in Ungheria appariva effettivamente problematico concepire un destino comune tra chi aveva accolto con esultanza, come una vittoria, la sconfitta della nazione filonazista e chi l’aveva invece vissuta come una catastrofe, in Polonia, al contrario, doveva risultare quasi naturale per gli ebrei e i polacchi sentirsi accomunati nella ricerca di un futuro da costruire sullo stesso territorio.
Ma così non fu. Anzi, in realtà si sviluppò un processo del tutto opposto, innescato da un vecchio meccanismo di inconciliabile contrapposizione tra i due popoli che affondava le proprie radici nella storia polacca del XIX secolo, caratterizzata da un viscerale nazionalismo accompagnato – come sempre – dal più accanito antisemitismo. Eppure, proprio la Polonia, nei secoli precedenti, si era rivelata un’accogliente e ospitale terra di rifugio per gli ebrei perseguitati: fin dal XIII secolo, quando il principe Bolesław il Pio, di Kalisz, li aveva accolti sotto la sua benevola protezione; e ancor più con la successiva formazione del regno di Lituania e Polonia, che diventò per loro il luogo più sicuro di tutta l’Europa medioevale.* Era noto in tutta la diaspora il detto dell’insigne rabbino Moshe Isserles, vissuto in Polonia nel Cinquecento: «È meglio vivere in Polonia, anche solo di pane secco, ma in pace»,2 che in condizioni materiali migliori in terre pericolose.
Polacchi ed ebrei tra le due guerre
Le cose cambiarono, e la situazione precipitò con la conquista dell’indipendenza nel 1918. Il paese, risorto sulle ceneri di due imperi – quello austroungarico e quello zarista – si ritrovò con una popolazione di 27 milioni di abitanti, un buon terzo dei quali non erano polacchi. La minoranza nazionale più consistente era quella degli ucraini (16% della popolazione), seguita da ebrei (10%), bielorussi e tedeschi.
L’élite politica, con l’eccezione dei socialisti esclusi dal potere, si pose un solo obiettivo: la «polonizzazione» del paese. I polacchi si erano sempre battuti per costruire uno stato-nazione esclusivamente polacco, e l’ipotesi di uno stato aperto alle minoranze non fu nemmeno presa in considerazione. «La Polonia ai polacchi» era lo slogan che imperversava. Tutti gli «altri» erano considerati nemici potenziali, ostacoli interni allo sviluppo dello «spirito polacco». I 3 milioni 100 mila ebrei polacchi** furono vittime come gli altri della «guerra» che la Polonia dichiarò alle proprie minoranze. Non è lecito isolare il clima antisemita dal contesto di nazionalismo esasperato che mutò radicalmente i rapporti tra i due popoli.
Il preambolo della Costituzione del 1921 iniziava con le parole «Noi popolo polacco»; che tuttavia non significavano: «Noi cittadini dello stato polacco». Cittadini, infatti, erano solo i membri di quella comunità etnica; dunque, solo i «veri» polacchi. Ispirandosi a questo spirito etnocentrico, il nuovo stato negò agli ebrei la possibilità di accedere ai diritti collettivi come minoranza e respinse le rivendicazioni autonomistiche ucraine nella Galizia orientale. Fu un duro colpo per i dirigenti della comunità ebraica. Non c’era forse altro luogo al mondo dove gli ebrei si sentissero «nazione» come in Polonia. Solo lo stato d’Israele riproporrà nel nostro secolo un analogo spirito d’identità nazionale. Nel 1919, alle prime elezioni costituenti del Sejm, il nuovo parlamento, la stragrande maggioranza degli ebrei votò per liste ebraiche, mentre raccolsero scarsi consensi i partiti polacchi. Ancora più significativi furono i due censimenti del 1921 e del 1931. Nel primo ben 2.044.637 (73,7% degli ebrei) intervistati dichiararono di sentirsi di nazionalità ebraica; nel secondo, il 79% dichiarò che la propria lingua madre era l’jiddisch,* non il polacco, mentre il 7,8%, obbedendo alla propaganda sionista disse mentendo che era quella ebraica.
Se si vuole ritrovare la genesi dell’attuale dibattito politico e culturale all’interno dell’ebraismo, occorre risalire a quegli anni in Polonia. C’erano i sionisti che guardavano alla Palestina, i socialisti bundisti** che rivendicavano il diritto di vivere come ebrei nella diaspora, gli ortodossi che polemizzavano con gli ebrei laici, infine quelli che aspiravano all’assimilazione. Il mondo ebraico era quanto di più diviso si potesse immaginare, ma era fortemente unito nell’autoidentificazione nazionale. Questo universo fu messo in pericolo dalla scelta monoetnica polacca.
Qualcosa di peculiare, comunque, distingueva la condizione ebraica da quella delle altre minoranze inghiottite dal nazionalismo emergente. Gli ebrei non erano visti dai dirigenti polacchi solo come una minoranza da «normalizzare», ma come la «minaccia» per eccellenza della nazione, il male che metteva in pericolo l’indipendenza, l’ostacolo che impediva lo sviluppo della borghesia, la quinta colonna del bolscevismo sovietico. Minaccia sui generis, peraltro, non giustificata da episodi realmente accaduti o che potessero indicare in modo evidente quali fossero gli obiettivi degli ebrei, quali attività polacche intendessero colpire o sabotare. In realtà, gli ebrei erano il simbolo stesso di tutte le debolezze e le frustrazioni della nazione polacca; più la Polonia si sentiva insicura, più la «minaccia» ebraica si profilava all’orizzonte. Tant’è che l’odio antiebraico esplose in particolare durante la crisi economica del 1929. Il mito cattolico della «potenza demoniaca» ebraica servì magnificamente ai polacchi per giustificare i propri limiti, ansie e paure.
C’era una dissociazione netta tra la rappresentazione dell’ebreo concreto, l’uomo della strada, e quella dell’ebreo astratto che incarnava le forze del male. Quando il polacco nazionalista vedeva un ebreo nel quartiere, lo considerava un essere sporco, inferiore; quando scriveva di lui, lo ergeva a forza sovversiva che metteva in pericolo la nazione, che complottava, disponendo di un consistente appoggio internazionale, contro le aspirazioni dei polacchi. Anche quando l’ebreo concreto, in carne e ossa, sparirà dalla realtà polacca, prima con l’Olocausto, poi con le varie ondate migratorie tra il 1945 e il 1968, rimarrà comunque l’insicurezza polacca e il bisogno di un capro espiatorio: per questo, nell’immaginario collettivo l’ebreo continuerà a rappresentare fino ai nostri giorni la fonte di tutti i mali.
Come si può spiegare l’esplosione in quegli anni di sentimenti antiebraici? Un primo motivo era costituito dalla debolezza della borghesia polacca, che a differenza della nobiltà* avvertiva un senso d’inferiorità nei confronti di ebrei e tedeschi. Il suo mancato sviluppo era considerato non un limite intrinseco, ma l’effetto di una presenza estranea concorrenziale. Nel programma del 1935 del partito contadino si leggeva per esempio: «Come classe media [commercianti], [gli ebrei] occupano posizioni molto più importanti in Polonia che in altri paesi; così i polacchi non possono avere la propria classe media. Sarebbe molto meglio per lo stato polacco se le funzioni di questa classe media fossero trasferite ai polacchi».3 Nacque così il movimento Rozwóy (Sviluppo), che nel 1923 annoverava 100 mila membri, e il cui scopo era la «polonizzazione» dell’economia e il boicottaggio del commercio ebraico.
Un altro motivo era l’estrema visibilità degli ebrei e la loro dislocazione abbastanza uniforme in tutto il paese. Se ucraini e bielorussi erano concentrati nei lontani villaggi della Galizia e nei kresy (le «terre di confine» orientali), gli ebrei si trovavano in gran numero nei più importanti centri della vita culturale e politica del paese. Un polacco non poteva sopportare che Varsavia, la capitale del paese, fosse abitata da 352.659 ebrei, quasi il 30% della popolazione complessiva; che a Łódź, importante centro industriale, gli ebrei fossero 202.497 (il 33,5%); che a Leopoli fossero 99.595 (il 31,9%) e a Cracovia 56.515 (il 25,8%); non poteva sopportare che in Aleje Jerozolimskie (via Gerusalemme) a Varsavia si parlasse una lingua diversa e incomprensibile e si praticasse un’altra religione, che proprio nel centro della città pulsasse un mondo a parte. Spesso i polacchi lo chiamavano il «continente nero», per l’avversione e la ripugnanza che procurava loro la vista dei quartieri ebraici. Ebbene, questi ebrei non avevano un riferimento territoriale preciso, non rivendicavano l’autogoverno in una regione particolare, ma aspiravano a un’autonomia politica e culturale pur vivendo nel cuore della nazione. Per i polacchi era come se reclamassero uno stato dentro il loro stato! Qualcosa di assolutamente intollerabile per un paese che aveva ritrovato l’indipendenza ma si sentiva debole, insicuro, minacciato dai tedeschi a ovest e dai russi a est.
Si vendeva con notevole successo I protocolli dei Savi di Sion,* il libro della polizia segreta zarista che si era inventata il «complotto mondiale ebraico». Nella prefazione alla prima edizione polacca del 1919 si leggeva: «Dobbiamo mettere in conto che gli ebrei sono un nemico interno accanito contro il quale dobbiamo difenderci, se non vogliamo che al posto della Polonia si ritrovino solo macerie e sorga la Giudeo-Polonia così bramata dagli ebrei».4
Come difendersi allora da questi ebrei percepiti come una «minaccia»? Non solo opponendosi a ogni loro richiesta collettiva, ma ostacolando anche qualsiasi percorso di assimilazione: infatti gli ebrei che uscivano dal proprio mondo e cercavano d’integrarsi erano considerati corruttori dell’identità polacca. Così scriveva Roman Dmowski, leader e ideologo dell’Endecja (Narodowa Democracja), il potente partito nazionale democratico: «L’assimilazione, in presenza di un così ingente numero di ebrei, ci distruggerà perché essi, a causa del carattere della loro razza, coltivano valori diversi, estranei alla nostra impostazione morale e pericolosi per la nostra vita».5 Per la destra non c’erano dunque possibilità di convivenza: gli ebrei erano «pericolosi» come minoranza organizzata e ancor più se cercavano l’assimilazione. La soluzione logica del problema diventava una sola: l’emigrazione. A partire dagli anni Trenta questa ipotesi entrò ufficialmente nel programma del partito nazionale democratico.
Come arrivarci? Attraverso la «polonizzazione» dell’economia, il boicottaggio del commercio «ebraico», il numero chiuso per gli studenti ebrei nelle università, la preclusione delle cariche governative. Divenne famoso lo slogan coniato dal primo ministro polacco Sławoj-Składkowski nel 1936: «Lotta economica [contro gli ebrei] con tutti i mezzi, ma senza ricorso alla forza».6 Una volta messi alle strette sul piano economico, gli ebrei non avrebbero avuto altra scelta che abbandonare la Polonia. Era questo il pensiero dominante dei dirigenti polacchi. Gli estremisti di destra volevano forzare la partenza, mentre i moderati propendevano per un esodo «spontaneo». Sull’altro versante del panorama politico la sinistra era lontana dall’antisemitismo dominante, ma anch’essa subalterna al nazionalismo etnocentrico. Agli ebrei offriva la possibilità dell’assimilazione, ma rifiutava decisamente l’idea che continuassero a vivere in Polonia come minoranza nazionale. Un ebreo poteva diventare un buon cittadino se abbandonava le proprie tradizioni culturali e religiose, se smetteva di parlare in jargon (com’era chiamato in modo spregiativo l’jiddisch), se rinunciava a iscrivere i figli nelle scuole ebraiche e iniziava a comportarsi quindi da polacco «civilizzato».
Per la sinistra, l’insieme della vita culturale e politica ebraica era solo un retaggio del feudalesimo. Diventando polacco, l’ebreo si sarebbe finalmente liberato del fardello di superstizioni e arretratezza che l’aveva condizionato nei secoli suscitando l’odio nei suoi confronti. Ai bundisti (i socialisti ebrei) che chiedevano solidarietà per le proprie rivendicazioni autonomistiche, la sinistra rispondeva: «Voi volete il ghetto medioevale, noi vi offriamo di diventare buoni cittadini polacchi. Voi volete il passato, noi vi offriamo la civilizzazione, il futuro». In questo discorso, che offriva l’assimilazione agli ebrei in cambio della rinuncia alle tradizioni e a un’identità collettiva, si riproponeva in parte l’immagine «minacciosa» dell’ebreo delineata dalla destra. I confini fra destra e sinistra erano dunque meno netti di quanto non potesse sembrare. Per esempio, il fondatore del positivismo polacco, Alexander Swiętochowski, auspicava l’integrazione, ma considerava la continuazione di una vita ebraica in Polonia un vero e proprio pericolo per la nazione. Sosteneva nel 1913: «Con tutta la sua storia millenaria, con tutta la sua contemporaneità e i suoi sogni di avvenire tra le terribili sofferenze e incertezze, la nazione grida che vuol essere Polonia, null’altro, e dunque non Giudeo-Polonia».7 Nel 193...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Gabriele Nissim
  3. Ebrei invisibili
  4. Introduzione
  5. UNGHERIA
  6. POLONIA
  7. BULGARIA
  8. ROMANIA
  9. CECOSLOVACCHIA
  10. REPUBBLICA DEMOCRATICA TEDESCA
  11. Note
  12. Cronologia
  13. Bibliografia
  14. Copyright