«Mita è nell’armadio» disse il bambino alla madre.
Margherita e Andrea erano rientrati a casa da poco. L’inizio della scuola incombeva e quella luminosa domenica di settembre sembrava non volersi rassegnare al fatto che le vacanze erano a ventiquattro ore dalla fine. Erano stati da nonna Teresa, come ogni domenica.
Margherita aveva le vacanze nel cuore e nella pelle: in quei mesi sembrava che il mare, come fa con la spiaggia di notte, le avesse levigato il corpo e l’anima, lasciando sulla battigia una di quelle conchiglie a spirale che ne custodiscono il suono e i segreti. Margherita amava portare all’orecchio la conchiglia che decorava il vecchio tavolino di cristallo a casa della nonna: riportava in vita le vacanze e le sussurrava di mondi perduti, di cui era rimasta solo un’eco indecifrabile, perché nessuno ne conosceva l’alfabeto.
Le vacanze dopo la terza media, un periodo che avrebbe voluto prolungare all’infinito: niente compiti, niente libri da leggere. Solo la paura del liceo: scuola nuova, compagni nuovi, professori nuovi. Stava per cominciare una vita nuova, i cui contorni erano incerti come quelli di un acquarello. Ma Margherita si sentiva sicura e pronta a finire quel quadro. Settembre ne prestava i colori.
Nonna Teresa era un pesce rosso, o almeno così aveva detto Andrea. D’altronde proprio la nonna lo ripeteva sempre, con una delle sue lapidarie sentenze sicule: Si vu’ sapiri a verità, dumannala ai picciriddi. Viveva da sola. Suo marito, il nonno Pietro, era morto da tre lustri. Adesso la sua unica compagnia erano i nipoti e Ariel, un pesce rosso che abitava in una boccia di vetro. Andrea rimaneva a guardarlo per ore: aveva una striscia bianca sull’orlo delle pinne, un ricamo concesso alla bellezza, e due grandi occhi inespressivi. Si aggirava nella palla di vetro, in compagnia di un’alga sfrangiata e di un pezzo di corallo rosso, unico scenario della sua vita. Si muoveva a scatti, come se ogni volta scoprisse qualcosa di nuovo.
«Nonna, ma Ariel non si annoia chiuso sempre nella stessa stanza?»
«No, Andrea, i pesci rossi hanno la memoria curta curta, di tre secondi» gli aveva spiegato la nonna. «Al quarto dimenticano tutto, fanno un guizzo e ricominciano. Ariel ogni tre secondi vede la sua alga per la prima volta, si sfrega contro il suo corallo per la prima volta. È sempre priato, contento, non s’annoia mai.»
Andrea non aveva risposto nulla: si rifugiava spesso in una silenziosa bolla infantile, fatta di realtà e fantasia mescolate.
Con il passare del tempo, durante le loro visite, nonna Teresa aveva cominciato a ripetere sempre più spesso le stesse cose, se per ricordarle meglio o perché le dimenticava troppo in fretta nessuno lo sapeva, e allora una volta Andrea aveva detto a Margherita:
«La nonna è come i pesci rossi.»
Margherita lo aveva guardato con curiosità, smettendo per un momento di scrivere l’ennesimo sms di tre parole, e si era limitata a pensare che suo fratello avesse qualcosa di geniale nel dna. In realtà era la genialità naturale dei bambini, che dicono le cose come stanno: Si vu’ sapiri a verità, dumannala ai picciriddi. L’anima della nonna con il passare del tempo diventava simile a quella di Ariel: chiedeva se avevano messo le uova nell’impasto, quando lei stessa lo aveva fatto poco prima. Margherita a volte si indispettiva, mentre Andrea non si scomponeva, perché per i bambini ripetere è la cosa più normale che esista: anche lui voleva sentire sempre la stessa storia prima di addormentarsi, con gli stessi particolari.
Le parole per i vecchi e per i bambini non servono a spiegare, giustificarsi, giudicare, ma sono come nodi su un filo, servono ad assicurare che il mondo è rimasto in ordine: Cu’ nun fa lu gruppu a la gugliata, perdi lu cuntu cchiù di na vota. Così diceva la nonna, ma nessuno capiva che affermava una verità semplice come le sue ricette: chi non fa i nodi perde il filo. Anche nella vita.
Erano rientrati a casa, con la torta ben impacchettata nella carta color nocciola e chiusa da uno di quei nastri rossi che la nonna conservava in un cassetto che non ricordava mai. Margherita era andata in camera sua e si era lasciata abbracciare dalla luce di settembre che entrava dalla finestra spalancata. Aveva acceso la radio e lo specchio aveva calamitato il suo viso, sempre più asimmetrico da qualche settimana a quella parte, in preda a una strana trasformazione che era iniziata allungandole le guance, evidenziando gli zigomi e tagliando gli occhi verdi, prima troppo rotondi. Mani invisibili le impastavano il corpo come una torta, e quanto avrebbe voluto infilare le sue nello specchio per partecipare a quel rito misterioso. Anche il suo corpo emetteva un’eco, il respiro sempre antico e sempre nuovo della vita.
Margherita ruotava il viso a destra e sinistra per controllare il corpo in cui si stava trasformando, si consolava con i capelli neri, lunghi e mobili, la parte di lei che insieme agli occhi le piaceva di più. Invece le orecchie le sembravano ancora troppo piccole, le tirava come se le potesse allungare. I denti erano bianchi e regolari, le labbra sottili ma docili all’espressione dei sentimenti più diversi, il seno ancora appena accennato.
La radio riempiva la stanza di parole, il sole di luce, il vento di odori contrastanti:
Maybe I’m in the black, maybe I’m on my knees.
Maybe I’m in the gap between the two trapezes.
Gli occhi di Margherita si persero nel vuoto. Ricordava le parole del padre in barca, come un ritornello orecchiabile che non si riesce a strappare via dalla testa:
andrà tutto bene.
Il mondo fuori assomigliava a un palcoscenico in attesa della sua danza e, sebbene il pubblico le incutesse timore, sapeva che dietro le quinte c’erano persone che l’amavano e la rendevano forte: il padre, la madre, il fratello, la nonna, le amiche.
Andrea entrò senza bussare nel santuario di Margherita e lei neanche se ne accorse. Le si aggrappò al braccio, cercando di scuoterla dalla sua trance adolescenziale.
«Poc-corn!» disse sporgendo leggermente in fuori il labbro inferiore, come era solito fare quando doveva convincere la sorella, incapace di resistere a quell’atteggiamento da gatto abbandonato sotto la pioggia.
Aveva cinque anni, il viso diafano, i capelli biondi, gli occhi blu. Parlava spesso da solo, seguendo il filo di trame e personaggi immaginari. Credeva di saper già leggere, quando in realtà riconosceva soltanto alcune lettere senza ancora riuscire a metterle insieme. Margherita gli aveva insegnato a distinguerle stampando grandi fogli, simili a quei cartelloni delle scuole elementari, con enormi ed eleganti lettere associate a immagini vivide: farfalle e ciliegie, gnomi e draghi… Purtroppo però l’inchiostro della stampante, messo a dura prova dall’esperimento, si era esaurito, e Andrea si era dovuto accontentare di poco più di metà dell’alfabeto, e quindi del mondo. Ma a lui bastava inventare le storie nascoste di quei personaggi, che nel cuore della notte si scollavano dai fogli: lo gnomo goloso divorava tutte le ciliegie, mentre il drago sputafuoco si innamorava perdutamente della farfalla.
Ogni volta che poteva Andrea le chiedeva di preparare i “poc-corn”, più per sentirli esplodere che per mangiarli. Margherita, da donna quale cominciava ad essere, resistette. Le piaceva che il fratello la pregasse, con quel labbro sporgente e gli occhi languidi. Poi sorrise.
«Aspettami in cucina. Arrivo.» Voleva ascoltare la fine della canzone. Non sopportava l’interruzione di una canzone, era come se qualcosa di incompiuto rimanesse sospeso nell’aria e nel mondo, e lei non voleva lasciare qualcosa in disordine. La canzone si spense:
Every tear
Every tear
Every teardrop is a waterfall.
Non capiva tutte le parole, ma le piaceva l’idea che ogni lacrima si trasformi in una cascata.
Andrea in cucina aveva già indossato il grembiule da cuoco che gli avevano regalato i genitori. In realtà era un bavaglione gigantesco, con la scritta Assaggiatore ufficiale. Se ne stava lì fermo con le mani alzate, riproducendo i gesti imparati da nonna Teresa, che vietava qualsiasi operazione culinaria se prima le mani non erano ben in evidenza, lavate e asciutte. Aspettava che Margherita desse istruzioni, simile a un chirurgo pronto per un’importante operazione.
Margherita notò il lampeggiare della segreteria telefonica. Non le era sembrato di sentire il telefono: o la musica a tutto volume l’aveva isolata dalla realtà e dalle sue apparenti emergenze, o la telefonata era arrivata mentre erano dalla nonna. C’erano due messaggi. Il primo era di Anna, un’amica della madre, con le sue solite novità assolutamente imprescindibili da comunicarle, che in genere riguardavano un vestito apparso in una vetrina del centro, perfetto per il suo fisico e per i suoi occhi: «Eleonora, chiamami appena puoi».
Il secondo messaggio era di suo padre.
Lo ascoltò tre volte in un silenzio incredulo.
Margherita divenne pietra. La pelle tenera dei suoi quattordici anni si indurì, e avrebbe potuto sgretolarsi da un momento all’altro. La domenica e il mare le uscirono immediatamente dai pori. I suoi occhi verdi si chiusero e sembrarono arrugginirsi, macchiati di paura. Le mani le tremavano sul tavolo della cucina, le labbra fremevano tormentate dai denti. La luce del viso si spense come una lampadina fulminata.
Si diresse nella camera da letto dei suoi, in silenzio, a passi piccoli, come erano i suoi piedi di quattordicenne, funambola sospesa sul filo della vita. A vita è nu filu.
«Dove vai, Mita?» chiese Andrea. Pronunciava così quel nome troppo lungo, eliminando la parte centrale.
Margherita non rispose. Aprì l’armadio dei genitori, nel quale da bambina si nascondeva, la domenica mattina, per spaventarli al loro risveglio. Conoscevano le regole del gioco e ripetevano ritualmente la frase convenuta: «Andiamo a svegliare Margherita, chissà come dorme quella pigrooona». E allora lei usciva dall’armadio. Amore e felicità erano sinonimi di vita e la paura non...