Ho trovato una porta per uscire dalla prigione, una porta che si apre verso la libertà, scrivo queste pagine per fartela vedere.
Ora tu forse dirai: quanta libertà crede di poter pretendere, lui che è nato nell’isola di Finø, detta la Gran Canaria della Danimarca, e per giunta nella canonica, che ha dodici stanze e un giardino grande come un parco? E circondato da papà e mamma, sorella maggiore e fratello maggiore, nonni, bisnonna e un cane, che tutti insieme sembrano la pubblicità di qualcosa di costoso ma salutare per tutta la famiglia.
E anche se naturalmente quello che vedo quando mi guardo allo specchio non è granché – perché sono quasi il più piccolo, ce n’è solo un altro più basso di me, nella settima classe della scuola di Finø Città, e tendo un po’ al mingherlino – ciononostante molti giocatori più grandi e grossi al Finø Stadion mi vedono correre a un palmo da terra come un surfista nel vento, e poi sentono rizzarsi i capelli quando sparo il mio velenoso destro.
Perciò di cosa si lamenta, dirai forse tu, come crede che si sentano gli altri ragazzini di quattordici anni, e a questo ci sono due risposte.
La prima è che hai ragione, non dovrei lamentarmi. Ma quando papà e mamma sono scomparsi, e tutto è diventato molto complicato e difficile da spiegare, ho scoperto che c’era qualcosa che avevo dimenticato. Avevo dimenticato, mentre tutto era luminoso, di provare a scoprire che cos’è che tiene, su cosa si può contare davvero quando comincia a fare buio.
L’altra risposta è quella dura: prova a guardarti intorno, quante persone sono davvero felici? Anche quando uno ha un padre con la Maserati e una madre con la pelliccia di visone, e noi alla canonica a un certo punto li abbiamo avuti, quanti hanno realmente qualcosa per cui gridare urrà? E perciò non è forse giusto chiedersi cosa può dare la libertà a una persona?
Ora tu forse dirai che fin dove arriva l’occhio il mondo è pieno di gente che vuole dirti dove devi andare e come devi comportarti, e io allora sarei un altro di quelli, e in un certo senso avresti ragione, ma in un altro senso questa cosa è anche diversa.
Se tu avessi sentito mio padre predicare nella chiesa di Finø Città prima che scomparisse, lo avresti sentito dire che Gesù è la strada, e io ti assicuro che mio padre sa dirlo in un modo così bello e naturale da far sembrare che quella di cui si sta parlando sia la strada che scende al porto e fra un istante saremo lì tutti insieme.
Se tu avessi assistito alla funzione da uno sgabello accanto all’organo mentre mia madre suonava, e fossi rimasto un altro po’ anche dopo, lei ti avrebbe detto che il futuro è la musica, e continuando a suonare te lo avrebbe detto in un modo tale che saresti subito corso a prenotare le prime lezioni di piano e a vedere come riuscire a comprare un pianoforte a coda con i tuoi piccoli risparmi.
Se dopo la funzione fossi venuto a casa per il caffè uno dei giorni in cui avevamo in visita zio Jonas, il mio zio preferito, che va a caccia di orsi nella Mongolia Esterna e ne ha uno impagliato ritto sulle zampe nell’ingresso di casa ed è diventato segretario del sindacato, lo avresti sentito raccontare, in un monologo di non meno di venti minuti, che ciò che conta davvero è se uno ha fiducia nel proprio fisico e consacra la propria vita a organizzare la classe operaia, e non lo dice solo per prendere in giro mio padre, lo pensa sul serio.
Se chiedi ai miei compagni di scuola ti diranno che la vera vita comincia dopo la nona classe, perché a quel punto tutti i ragazzini di Finø lasciano la famiglia per andare al convitto ginnasiale o alla scuola tecnica di Grenå.
E alla fine, per cambiare completamente discorso, se tu chiedessi ai degenti del Gran Monte, una casa di cura appena a ovest di Finø Città, che hanno tutti avuto problemi di tossicodipendenza prima dei sedici anni, se chiedi a loro in tutta onestà, e a quattr’occhi, allora diranno che anche se ormai sono completamente puliti e profondamente grati per le cure e non vedono l’ora di cominciare una nuova vita, comunque non c’è niente che possa stare alla pari con il grande, dolce viaggio che comincia appena hai fumato l’oppio o hai assunto l’eroina.
E io ti dico: sono sicuro che tutta quella gente ha ragione, anche gli ospiti del Gran Monte.
È una cosa che ho imparato da mia sorella maggiore Tilte. Uno dei talenti di Tilte è riuscire a pensare che tutti hanno ragione e allo stesso tempo di avere l’assoluta convinzione di essere, in un assortimento di persone molto ampio, l’unica a sapere di cosa sta parlando.
Tutti coloro che ho nominato indicano la porta della loro stanza preferita, e in quella stanza c’è Gesù o i Lieder di Schubert o l’esame di Stato dopo la nona classe o un orso impagliato o un lavoro fisso o una pacca sulla spalla, e naturalmente molte di quelle stanze sono fantastiche.
Ma finché ti trovi in una stanza sei al suo interno, e finché sei al suo interno sei prigioniero.
La porta che voglio provare a farti vedere è diversa. Non conduce in una nuova stanza. Ma fuori dall’edificio.
Non sono stato io a trovare la porta, non ho la necessaria fiducia in me stesso. È stata mia sorella Tilte.
Io ero presente quando è successo, è stato due anni fa, appena prima che mamma e papà scomparissero per la prima volta, io avevo dodici anni e Tilte quattordici, e anche se me lo ricordo come se fosse ieri, non sapevo che era quella la cosa che aveva scoperto.
Era venuta a trovarci la bisnonna, che si era messa a fare la zuppa di latticello.
Quando la bisnonna fa la zuppa di latticello sta in piedi su due sgabelli messi uno sopra l’altro, per arrivare a girare nella pentola, questo perché lei già era nata piccola e poi ebbe sei cedimenti alla colonna vertebrale ingobbendosi al punto che, se avesse dovuto apparire in quella pubblicità per famiglie di cui parlavo prima, sarebbero dovuti stare attenti alla posizione da cui la riprendevano, perché la gobba è grossa come un portaombrelli.
In compenso molti di coloro che hanno conosciuto la bisnonna ritengono che se Gesù tornerà potrebbe anche avere le sembianze di una signora di novantatré anni, perché la bisnonna è, come dire, onnibenevola. Questo significa che ha un cuore così grande che c’è posto per tutti, anche per tipi come Kaj Molester e come l’inviato del ministero a Finø, Alexander Torvo Finkeblod, che dirige la scuola di Finø Città, e che altrimenti per amarlo bisognerebbe essere sua madre, e forse anche questo non basterebbe, perché una volta l’ho visto andare a prendere sua madre al traghetto e sembrava che amarlo fosse troppo anche per lei.
Allo stesso tempo non bisogna equivocare sulla bisnonna. Non si arriva a novantatré anni sopravvivendo a molti dei propri figli, a sei cedimenti della colonna vertebrale e alla Seconda guerra mondiale – ricordando pure la fine della Prima – senza che ci sia qualcosa di speciale a tenerti in piedi. In altre parole, se la bisnonna fosse un’automobile, la carrozzeria stava già cadendo a pezzi da tempo immemorabile, ma il motore ancora fa le fusa come se fosse appena uscito dalla fabbrica.
Tuttavia in quanto a parole la bisnonna è piuttosto laconica, le distribuisce con parsimonia, come se non gliene fossero rimaste molte, e forse in fondo è giusto che sia così, quando si hanno novantatré anni.
Perciò quando all’improvviso, senza voltare il capo, dice: «C’è una cosa che vorrei dire» noi facciamo assoluto silenzio.
“Noi” significa mia madre e mio padre, mio fratello maggiore Hans, Tilte, io e il nostro cane, Basker III, che è un fox terrier al quale abbiamo dato il nome dal libro sul mastino dei Baskerville, ed è “III” perché è il terzo cane di quella razza che la nostra famiglia possiede dalla nascita di Tilte, e lei ha preteso che ogni volta che un cane muore e ne prendiamo un altro lo si chiami allo stesso modo, solo con un numero in più. Ogni volta che Tilte dice a qualcuno che non ha mai avuto la grande gioia di conoscerci come si chiama il cane, aggiunge sempre anche il numero. Al che di solito la gente ha un lieve sussulto, forse perché il numero ricorda i cani morti prima di Basker, e credo sia questa la ragione per cui Tilte ha preteso quel nome, perché è sempre stata interessata alla morte, più di quanto non lo siano in genere i bambini.
Ora che la bisnonna sta per dire qualcosa e si siede sulla sedia a rotelle, Tilte si stende sul tavolo della cucina, solleva le gambe da terra e la bisnonna si sposta sotto di lei. Tilte vuole sempre starle seduta in braccio, quando c’è qualcosa che la bisnonna vuole dire, ma la bisnonna è diventata più debole e Tilte più pesante, perciò ora risolvono il problema in questo modo: Tilte si solleva, e il mondo si sistema lì sotto di lei, e poi si raggomitola in grembo alla bisnonna che ormai è sempre più piccola.
«Mia madre e mio padre» dice la bisnonna, «i vostri trisavoli, non erano molto giovani quando si sposarono, era la fine degli anni Trenta. Eppure ebbero sette figli. Non appena ebbero avuto il settimo, il fratello di mia madre e sua moglie, mio zio e mia zia, morirono, furono contagiati dallo stesso tipo di influenza, la spagnola, e vennero a mancare quasi contemporaneamente. Lasciarono dodici figli. Mio padre andò al funerale a Porto Nord, dopo il quale si sarebbe tenuta una riunione in cui la famiglia si sarebbe spartita i dodici figli, era così che si faceva a quel tempo, parlo di novant’anni fa, si trattava di sopravvivere. Ci volevano due ore col carro da Finø Città a Porto Nord, mio padre tornò solo la sera. Entrò in cucina, dove mia madre era ai fornelli, e disse:
«“Li ho presi tutti.”
«Mia madre alzò lo sguardo pieno di gioia, poi disse:
«“Grazie per la fiducia, Anders.”»
Quando la bisnonna finisce di raccontare questa storia, in cucina cala il silenzio. Non so quanto sia durato quel silenzio, perché il tempo si è fermato, troppe cose da cercare di comprendere perché sia possibile pensare, abbiamo quasi rinunciato. Bisogna cercare di comprendere cosa fosse successo nella testa del padre della bisnonna quando aveva visto i dodici bambini al funerale e non era riuscito ad accettare che venissero separati. E soprattutto bisogna cercare di comprendere sua moglie, quando lui era arrivato a casa e aveva detto: «Li ho presi tutti». Non un secondo di esitazione, niente crolli né singhiozzi al pensiero che da quel momento non aveva più soltanto i suoi sette figli, cosa che poteva essere già abbastanza pesante, se solo si pensa a noi tre in canonica, dove abbiamo persino due bagni più quello degli ospiti, ma improvvisamente i figli diventavano diciannove.
A un certo punto, quando ancora siamo in silenzio, non so nemmeno più da quanto tempo, da tanto comunque, Tilte dice:
«Anch’io voglio essere così!»
Crediamo tutti di capire cosa intenda dire, e in un certo senso lo capiamo. Crediamo che voglia essere come quel padre, o come quella madre, o come tutti e due, e poter dire di sì a diciannove figli, se fosse stato necessario.
Ed è vero, è questo che intende dire. Ma intende dire anche qualcos’altro.
Prima però, durante quel lungo silenzio, Tilte scopre la porta. O ha la certezza della sua esistenza.
Prima di cominciare dovrò chiederti una cosa. Dovrò chiederti se ricordi degli istanti nella tua vita in cui sei stato felice. Non solo contento. Non solo soddisfatto. Ma talmente felice che tutto era completamente, totalmente perfetto al cento per cento.
Se non riesci a ricordare un solo istante del genere, allora non è proprio una buona cosa, ma in tal caso è ancora più importante che ti giungano queste mie parole.
Se ne ricordi uno solo, o meglio ancora qualcuno, allora voglio chiederti di pensare a quelli. È importante. Perché in prossimità di attimi del genere la porta sta per aprirsi.
Voglio raccontartene un paio dei miei. Non sono niente di speciale. Lo faccio per renderti più facile rintracciarli nella tua vita.
Un istante di questo tipo fu quello in cui per la prima volta venni convocato per i Finø All Stars, che a luglio giocano la partita contro i villeggianti. La lista venne letta dall’allenatore della prima squadra, che noi chiamiamo il Fachiro perché è pelato e magro come uno scovolino, e perché il suo umore per tutto l’anno è quello di chi si è appena alzato dopo aver dormito su un letto di cocci di vetro.
Non era mai stato convocato nessuno sotto i quindici anni, perciò la cosa giunse totalmente inaspettata. Lui leggeva la lista ad alta voce e arrivò al mio nome.
Per un momento molto breve mi sarebbe stato difficile dire dove mi trovassi, mi sentivo fuori dal corpo o dentro il corpo o in entrambi i posti contemporaneamente.
Un altro sprazzo di luce fu quando Conny mi chiese se volevo essere il suo fidanzato. Non me lo domandò di persona, mandò una delle sue dame di corte, Sonja. Io stavo tornando a casa da scuola. Sonja mi si accostò: «Devo chiederti da parte di Conny se vuoi fidanzarti con lei».
Per un attimo brevissimo fu come se qualcuno avesse tolto il tappo dello scarico, non sapevo se mi stavo librando a un palmo da terra o se ci stavo coi piedi sopra. E la sensazione di librarsi non era immaginaria, tutto il mondo tangibile era diventato completamente diverso.
C’è un’altra situazione che riguarda Conny, è molto indietro nel tempo, quando entrambi avevamo circa sei anni e andavamo all’asilo insieme. Nell’intera Finø Città ci sono in tutto circa trecento bambini, una sola scuola e un solo asilo, perciò siamo andati tutti a scuola e all’asilo insieme.
L’asilo aveva ricevuto in dono dalle Birrerie Finø alcuni giganteschi tini per la birra, che erano stati messi a terra, sistemati l’uno accanto all’altro, vi era stato fatto un pavimento ed erano state ricavate delle piccole porte e finestre, in modo che potessero essere usati come casette per giocare. Dentro uno di quei tini chiesi a Conny se poteva spogliarsi davanti a me.
Ora forse ti chiederai come ebbi il coraggio di fare una cosa del genere, io che ho l’aria di essere troppo impacciato persino per chiedere la strada al fornaio, e devo ammettere che fu una di quelle volte in cui mi sorpresi di me stesso.
Ma se un giorno incontrerai Conny, capirai che ci sono donne capaci di spingere un uomo a compiere atti straordinari, anche se hanno appena sei anni.
Lei non disse nulla. Cominciò semplicemente a spogliarsi con lentezza. E quando fu tutta nuda, sollevò le braccia e sempre lentamente ruotò davanti a me. Potevo vedere la peluria bionda sulla sua pelle, intorno a noi il tino era curvo come l’interno di una nave o di una chiesa, e c’era il sentore di tutta la birra che per cento anni aveva impregnato il legno. E sentii che ciò che stava accadendo fra Conny e me aveva qualcosa a che fare col resto del mondo.
L’ultimo istante è il più tranquillo. Sono piccolo, ho forse tre anni, perché abbiamo appena preso Basker II, che si è arrampicato sul letto di mamma e papà, dove ho dormito anch’io. Da lì mi lascio scivolare sul pavimento, apro le porte a vetri, esco in giardino. Dev’essere l’inizio dell’autunno, il sole è basso e l’erba è gelida e mi brucia sotto i piedi. Fra gli alberi ci sono delle grosse ragnatele, sui fili ci sono gocce di rugiada, come un milione di minuscoli diamanti che si rispecchiano fra loro. È molto presto e il mattino è così fresco e nuovo e impossibile da imitare, come se non ci fosse mai stato un mattino prima di quello, e non ne fosse necessaria una copia, perché quello durerà in eterno.
In quell’istante il mondo è assolutamente perfetto. Non c’è niente che debba essere fatto e non c’è nessuno per farlo, perché non ci sono persone, non ci sono ne...