L'uomo che credeva di essere morto
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L'uomo che credeva di essere morto

E altri casi clinici sul mistero della natura umana

  1. 384 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'uomo che credeva di essere morto

E altri casi clinici sul mistero della natura umana

Informazioni su questo libro

Perché alcune persone ci attraggono sessualmente? Perché ci affascina una certa melodia, un quadro o un tramonto? Come è nato il linguaggio? Come fa il cervello a dare origine alla coscienza? Ognuno di noi, almeno una volta, si sarà posto qualcuna di queste domande, accontentandosi magari di risposte improvvisate e fantasiose, oppure rassegnandosi a ritenerle semplicemente insolubili.
Il famoso neuroscienziato di origini indiane Vilayanur S. Ramachandran le considera invece stimolanti per approfondire ulteriormente, con il suo inconfondibile stile intuitivo "alla Sherlock Holmes", lo studio di quell'affascinante enigma che sono ancor oggi le connessioni tra corpo, mente e cervello. Il metodo da lui adottato non si basa infatti su astruse categorie filosofiche, ma sull'osservazione concreta di pazienti che, a causa di difetti genetici o di lesioni cerebrali, presentano sintomi stravaganti e in apparenza inspiegabili: tra i casi più singolari, quelli di chi, pur avendo subìto l'amputazione di un arto, continua ad avvertirne vividamente l'anomala presenza, di chi "vede" le note musicali o sente il sapore degli oggetti che tocca, fino all'uomo che viveva credendo di essere morto.
Riuscire a decifrare, sotto il profilo dei processi e dei codici cerebrali, fenomeni così bizzarri - sostiene l'autore - vuol dire scoprire sempre qualcosa di nuovo sul funzionamento del cervello umano, una strepitosa macchina che non finirà mai di stupire non solo per le sue "dotazioni" iniziali, ma soprattutto per la straordinaria evoluzione dei neuroni nell'incredibile viaggio che ha portato dai primati a Einstein.
Coniugando competenza specialistica e talento narrativo, attraverso esempi, storie ed esperimenti, Ramachandran ci guida in una sorta di piacevolissimo "giro turistico" tra le più innovative e feconde scoperte scientifiche (come i "neuroni specchio", che rivelano perché possiamo provare empatia e affetto per il nostro prossimo), sul sottile confine tra neuroscienza e comportamento umano, e lungo il misterioso itinerario dalla percezione alla coscienza. Il risultato è un libro destinato ad aprire prospettive inedite su quelle facoltà che rendono l'uomo davvero unico e speciale fra tutti gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804615873

IX

Una scimmia con l’anima:
come si è evoluta l’introspezione

S’impicchi la filosofia! Se non può darmi una Giulietta…
WILLIAM SHAKESPEARE*
Jason Murdoch era un paziente interno del centro riabilitativo di San Diego. Dopo avere riportato un grave trauma cranico in un incidente automobilistico vicino al confine con il Messico, era rimasto per quasi tre mesi in uno stato stuporoso di coma vigile (detto anche «mutismo acinetico»), prima che un mio collega, il dottor Subramaniam Sriram, lo visitasse. A causa della lesione della corteccia del cingolo anteriore, nei lobi frontali, Jason non riusciva a camminare, parlare o intraprendere attività. Benché avesse un ciclo veglia-sonno normale, era costretto a letto. Quando era sveglio pareva vigile e cosciente (se è il termine giusto in un caso del genere: le parole perdono il loro potere risolutivo in simili situazioni). A volte aveva un lieve soprassalto in risposta al dolore, ma non sempre. Muoveva gli occhi, spesso girandoli per seguire le persone, eppure non riconosceva nessuno, nemmeno i genitori e i fratelli. Non parlava e non comprendeva le parole, né era in grado di interagire in modo significativo con gli altri.
Tuttavia, se suo padre gli telefonava dalla camera accanto, all’improvviso Jason diventava vivace e ciarliero, riconosceva il genitore e avviava con lui una conversazione. Tutto ciò finché il signor Murdoch non tornava nella sua stanza: allora Jason ripiombava nello stato stuporoso di zombie. L’insieme dei sintomi di Jason ha un nome: sindrome del telefono. Il paziente faceva la spola tra lo stato stuporoso e lo stato cosciente a seconda che il padre fosse nella sua stanza oppure no.
Pensate a che cosa significa un fenomeno del genere. È come se ci fossero due Jason intrappolati in un solo corpo: il Jason telefonico, che è del tutto vigile e cosciente, e il Jason in carne e ossa, che è uno zombie semicomatoso. Come può essere? La risposta ha a che fare con le lesioni delle vie visive e uditive provocate dall’incidente. L’attività di ciascuna via è evidentemente isolata, in misura rilevante, per tutto il tratto fino al cingolo anteriore, che ha un’importanza cruciale. Come vedremo, è in questo colletto di tessuto che si origina in parte il senso del libero arbitrio.
Se il cingolo anteriore è gravemente danneggiato, il risultato è il mutismo acinetico conclamato: diversamente da Jason, il soggetto si trova in uno stato crepuscolare permanente e non interagisce con nessuno in nessuna circostanza. Ma se la lesione del cingolo è più limitata, diciamo se la via visiva che va al cingolo è lesa selettivamente a un qualche stadio, ma la via uditiva è intatta, il risultato è la sindrome del telefono. Jason scatta in azione (in senso metaforico, s’intende) quando parla al telefono, ma ripiomba nel mutismo acinetico quando suo padre entra nella stanza. Tranne che al telefono, non è più una persona.
Non sto facendo questa distinzione arbitrariamente. Benché il suo sistema visuomotorio sia ancora in grado di individuare e seguire automaticamente gli oggetti nello spazio, Jason non riconosce ciò che vede né vi attribuisce un senso. Salvo quando è al telefono con suo padre, egli ha perso la capacità di elaborare metarappresentazioni (rappresentazioni di rappresentazioni, un ordine superiore di astrazione) ricche e significative, che sono essenziali non solo per la nostra unicità come specie, ma anche per la nostra unicità come individui e per il nostro senso del sé.
Perché Jason è ancora una persona quando è al telefono, ma non lo è più nelle altre circostanze? All’inizio dell’evoluzione il cervello sviluppò la capacità di creare rappresentazioni sensoriali di primo livello di oggetti esterni che suscitavano solo un numero limitatissimo di reazioni. Per esempio, il cervello di un ratto ha solo una rappresentazione di primo livello di un gatto: nello specifico, la rappresentazione di un oggetto peloso e mobile da evitare istintivamente. Ma quando il cervello umano si evolse ulteriormente, emerse un secondo cervello (o meglio, una serie di connessioni nervose) che era in certo senso parassitario rispetto al primo. Questo secondo cervello crea metarappresentazioni elaborando le informazioni provenienti dal primo cervello e trasformandole in unità gestibili che si possono usare per un più ampio repertorio di risposte maggiormente sofisticate, tra cui il linguaggio e il pensiero simbolico. Ecco perché, a differenza del ratto che lo vede solo come «il nemico peloso», noi vediamo il gatto come un mammifero, un predatore, un animale domestico, un nemico dei cani e dei topi, un qualcosa che ha orecchie, baffi, una lunga coda e fa «miao»; ed ecco perché il gatto ci ricorda anche la stupenda Halle Berry con una tuta di latex. A questa creatura abbiamo pure dato un nome, «gatto», che simboleggia l’intera costellazione di associazioni. In breve, il secondo cervello carica di significato un oggetto, creando una metarappresentazione che ci consente di essere consciamente consapevoli del gatto in un modo in cui il topo non può esserlo.
Le metarappresentazioni sono anche un prerequisito dei nostri valori, delle nostre credenze e delle nostre priorità. Per esempio, una rappresentazione di primo livello del disgusto è una reazione viscerale che ci dice: «Evitalo», mentre una metarappresentazione includerebbe, tra le altre cose, il disgusto sociale per una cosa che si considera moralmente sbagliata o eticamente inappropriata. Queste rappresentazioni di livello superiore sono manipolate nella nostra mente in un modo che è proprio solo dell’uomo. Sono connesse al nostro senso del sé e ci permettono di trovare significato nel mondo esterno (sia materiale sia sociale) e di definirci in relazione a esso. Per esempio, posso dire: «Trovo disgustoso il suo atteggiamento nei confronti della pulizia della lettiera del gatto».
Il Jason visivo è in sostanza morto e sepolto come persona, perché la sua capacità di avere metarappresentazioni di quello che vede è compromessa.1 Il Jason uditivo, invece, continua a vivere; la sua metarappresentazione del padre, del suo sé e della loro vita insieme è in gran parte intatta, in quanto attivata attraverso i canali uditivi del cervello. Particolare affascinante, il Jason uditivo viene temporaneamente disattivato quando il padre entra nella stanza per parlargli di persona. Forse perché il cervello umano enfatizza l’elaborazione visiva, il Jason visivo soffoca il gemello uditivo.
Jason costituisce un caso impressionante di sé frammentato. Alcuni suoi «pezzi» sono stati distrutti, mentre altri sono stati preservati e mantengono un sorprendente grado di funzionalità. Così scomposto in frammenti, Jason si può dire ancora Jason? Come vedremo, diversi disturbi neurologici ci dimostrano che il sé non è quell’entità monolitica che crede di essere. Tale conclusione contraddice direttamente alcune delle nostre più radicate intuizioni in merito a noi stessi, ma i dati sono dati. La neurologia ci dice che il sé consiste di molte componenti, e l’idea che sia unico e unitario potrebbe benissimo essere un’illusione.
Un giorno, nel XXI secolo, la scienza affronterà uno dei più grandi misteri di cui si sia mai occupata: la natura del sé. Quel pezzo di carne all’interno della nostra volta cranica non solo genera un resoconto «obiettivo» del mondo esterno, ma sperimenta anche, direttamente, un mondo interno, una ricca vita intellettuale fatta di sensazioni, significati e sentimenti. Particolare più misterioso di tutti, il cervello rivolge la visione delle cose anche verso se stesso, generando il nostro senso di autocoscienza.
La ricerca del sé, e le soluzioni dei suoi molti misteri, non sono certo una novità. Questo settore di studi è stato per tradizione riservato ai filosofi, i quali, bisogna ammetterlo, nel complesso non hanno fatto molti progressi (anche se non per cattiva volontà: ci hanno provato per duemila anni). Nondimeno, la filosofia è stata molto utile nel mantenere un’igiene semantica e nel mettere in evidenza il bisogno di chiarezza nella terminologia.2 Per esempio, la gente spesso usa la parola «coscienza» in modo approssimativo, per definire due cose diverse. La prima sono i qualia, ovvero le qualità soggettive dell’esperienza immediata, come la «rossità» del rosso o la piccantezza del curry, e la seconda è il sé che li sperimenta. I qualia irritano sia i filosofi sia gli scienziati, perché, sebbene siano tangibilmente reali e rappresentino il vero e proprio nucleo dell’esperienza mentale, restano un mistero: come nascano e per qual motivo esistano è una cosa su cui le teorie fisiche e computazionali sulla funzione cerebrale non dicono assolutamente nulla.
Illustrerò il problema con un esperimento mentale. Immaginiamo che uno scienziato marziano dotato di grandi facoltà intellettive, ma daltonico, decida di indagare sul concetto umano di «colore». Con la sua tecnologia alla Star Trek studia il nostro cervello e capisce fin nei minimi particolari tutto ciò che accade quando abbiamo esperienze mentali relative al colore rosso. Alla fine della sua indagine è in grado di spiegare ogni evento fisico-chimico e neurocomputazionale che si verifica quando vediamo il rosso, pensiamo al rosso e diciamo «rosso». Ora chiediamoci: questo è servito a capire tutto quello che c’era da capire sulla capacità umana di vedere e pensare la «rossità»? Il daltonico marziano può essere sicuro, adesso, di comprendere la nostra modalità aliena di esperienza visiva, anche se il suo cervello non è sintonizzato per rispondere a quella particolare lunghezza d’onda delle radiazioni elettromagnetiche? La maggior parte delle persone risponderebbe di no. I più direbbero che, per quanto accurata e dettagliata fosse la descrizione esteriore-obiettiva della cognizione del colore, essa avrebbe un’enorme lacuna al centro, perché tralascerebbe il quale della «rossità» («quale» è il singolare di «qualia»). Di fatto, non c’è modo di trasmettere la qualità ineffabile della «rossità» a qualcuno, se non collegando direttamente il suo cervello con quello della persona che la sperimenta.
Forse un giorno la scienza troverà finalmente un metodo imprevisto o una teoria efficace per affrontare empiricamente e razionalmente i qualia, ma credo che un simile progresso sia lontano dalle nostre attuali capacità come la genetica molecolare lo era dalle capacità dell’umanità del Medioevo. A meno che non si nasconda da qualche parte un potenziale Einstein della neurologia.
Ho detto che i qualia e il sé sono diversi, e tuttavia non si possono spiegare i primi senza il secondo. L’idea di qualia senza un’esperienza introspettiva su di essi è un ossimoro. Analogamente, Freud aveva osservato che non possiamo equiparare il sé alla coscienza. La nostra vita mentale, diceva, è governata dall’inconscio, un torbido calderone di ricordi, associazioni, riflessi, motivazioni e pulsioni. La nostra «vita conscia» è un’elaborata razionalizzazione post factum di cose che in realtà facciamo per altri motivi. Poiché la tecnica non era ancora abbastanza avanzata da permettere l’osservazione del cervello, Freud non aveva gli strumenti per portare le sue idee oltre il divano, e così le sue teorie furono risucchiate dal pantano che sta tra la vera scienza e la retorica incontrollata.3
Freud aveva forse ragione? È vero che la maggior parte di quanto costituisce il nostro «sé» è inconscia, incontrollabile e inconoscibile?4 Nonostante l’attuale impopolarità (a dir poco) di Freud, le moderne neuroscienze hanno effettivamente rivelato che il medico viennese aveva ragione nel sostenere che solo una limitata parte del cervello è conscia. Il sé conscio non è una sorta di «nucleo» o essenza concentrata che siede su un trono speciale al centro del labirinto neurale, ma non è nemmeno una proprietà dell’intero cervello. Il sé emerge invece da un gruppo relativamente ristretto di aree cerebrali che sono collegate in una rete straordinariamente potente. Identificare tali regioni è importante, perché aiuta a restringere la ricerca. Dopotutto, sappiamo che il fegato e la milza non sono consci e che solo il cervello è conscio. Stiamo semplicemente facendo un passo avanti e dicendo che soltanto alcune parti del cervello sono consce. Sapere quali lo sono e che cosa fanno è il primo passo verso la comprensione della coscienza.
Il fenomeno della visione cieca è un indice particolarmente chiaro del fatto che può esserci un pizzico di verità nella teoria freudiana dell’inconscio. Ricorderete che nel capitolo II abbiamo parlato della visione cieca in una persona che aveva subìto una lesione nell’area V1 della corteccia visiva e che quindi non vedeva più niente. Divenuta cieca, non provava nessuno dei qualia associati alla vista. Se le si proiettava davanti, sulla parete, un punto luminoso, affermava categoricamente di non vedere niente. Tuttavia, se le si diceva di allungare la mano e toccarlo, lo faceva con impressionante precisione anche se aveva l’impressione di tirare a indovinare. Riusciva a farlo perché, come abbiamo visto in precedenza, la via arcaica tra la retina e i lobi parietali era rimasta intatta. Così, anche se non vedeva il punto luminoso, riusciva ad allungare la mano per toccarlo. Anzi, un paziente affetto da visione cieca spesso indovina – sempre grazie alla via arcaica – anche il colore e l’orientamento di una linea (verticale o orizzontale), pur non riuscendo a percepirla consciamente.
È incredibile. Significa che solo le informazioni che fluiscono attraverso la corteccia visiva sono associate alla coscienza e collegate con il senso del sé. L’altra via parallela continua a fare quel che deve fare, eseguendo i complessi calcoli necessari a guidare la mano (o anche a indovinare il colore), senza che la coscienza faccia mai il suo ingresso nel quadro. Perché? In fondo, le due vie preposte all’informazione visiva sono composte da neuroni di identico aspetto e paiono eseguire calcoli ugualmente complessi: come mai, allora, solo la via recente proietta la luce della coscienza sui dati visivi? Che cosa c’è di così speciale in quei circuiti, perché «richiedano» o «generino» la coscienza? In altre parole, come mai tutti gli aspetti della visione e del comportamento che a essa si informa non sono simili alla visione cieca e non procedono tranquilli con competenza e precisione, senza consapevolezza conscia e qualia? La risposta a questa domanda non potrebbe fornire indizi sulla soluzione dell’enigma della coscienza?
L’esempio della visione cieca è suggestivo non solo perché corrobora l’idea della mente inconscia (o di parecchie menti inconsce), ma anche perché mostra come le neuroscienze possano mettere ordine nelle prove del funzionamento più segreto del cervello e arrivare a riaprire un caso irrisolto, per così dire, rispondendo ad alcuni interrogativi sul sé che erano rimasti in sospeso e su cui si erano scervellati filosofi e scienziati per millenni. Studiando pazienti affetti da disturbi dell’autorappresentazione e analizzando il malfunzionamento di aree cerebrali specifiche, è possibile capire meglio come si origini il senso del sé nel cervello normale. Ogni condizione patologica diventa una finestra su un preciso aspetto del sé.
Per prima cosa definiamo questi aspetti, o almeno quello che abbiamo intuito al loro riguardo.
1. Unità. Nonostante la ricca varietà di esperienze sensoriali da cui siamo sommersi in ogni momento, ci sentiamo individui unici. Inoltre, i nostri (a volte contraddittori) obiettivi, i nostri ricordi, le nostre emozioni, le nostre azioni, le nostre convinzioni e la consapevolezza presente si aggregano a formare un singolo individuo.
2. Continuità. Nonostante l’enorme numero di eventi distinti di cui è costellata la nostra vita, avvertiamo la continuità della nostra identità nel tempo momento per momento, decennio per decennio. Come ha osservato lo psicologo cognitivo Endel Tulving, siamo in grado di compiere un viaggio mentale nel tempo, e fare tranquillamente la spola tra la nostra prima infanzia e il futuro in cui ci proiettiamo. Questo virtuosismo proustiano è esclusivamente umano.
3. Identità corporea. Ci sentiamo ancorati al corpo, a casa nostra in esso. Non ci viene mai in mente che la mano con cui abbiamo appena preso le chiavi della macchina non ci appartenga, né ci verrebbe mai da pensare che il braccio del cameriere o del cassiere sia il nostro. Eppure, a ben guardare, si scopre che il senso d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'uomo che credeva di essere morto
  3. Prefazione
  4. Introduzione - Qualcosa più di una scimmia
  5. I. Arti fantasma e cervelli plastici
  6. II. Vedere e sapere
  7. III. Colori chiassosi e pupe bollenti: la sinestesia
  8. IV. I neuroni che forgiarono la civiltà
  9. V. Dov’è Steven? L’enigma dell’autismo
  10. VI. Il potere della chiacchiera: l’evoluzione del linguaggio
  11. VII. Bellezza e cervello: l’emergere dell’estetica
  12. VIII. Il cervello artista: le leggi universali
  13. IX. Una scimmia con l’anima: come si è evoluta l’introspezione
  14. Epilogo
  15. Glossario
  16. Note
  17. Bibliografia e letture consigliate
  18. Ringraziamenti
  19. Dello stesso autore
  20. Copyright