L’altra sera sorvolavo una casa, e siccome al pianterreno c’erano le luci accese e niente tende alle finestre, mi sono fermato a dare una sbirciata. A volte lo faccio, giusto per vedere l’arredamento. Questa casa in particolare era di pietra, ma non antica, solo finto-antica, con una riproduzione di lanterna d’epoca come luce da giardino e il tetto rivestito di quella che sembra ardesia, ma in realtà è solo gomma riciclata. Insomma, uno di quei posti dove tutto, da fuori, sembra gridare “Ruota di legno trasformata in tavolino”, e invece qualche mobile decoroso ce l’avevano, almeno in salotto. Molto pino laccato, a occhio direi inglese.
Da dove mi trovavo, ho lanciato un’occhiata in una cosiddetta “stanza degli svaghi”, vale a dire uno spazio dove la gente può esprimere la propria personalità, o perlomeno una qualche idea di personalità. Di solito in stanze del genere ci sono un sacco di barche, mentre questa era a tema gufi. Non gufi veri – non credo che avrei retto – ma rappresentazioni, sia piatte sia tridimensionali: alari da camino a forma di allocchi, una candela con le fattezze di un barbagianni. Sopra la mensola del camino era appeso un dipinto alquanto maldestro con una civetta delle nevi che volteggiava su un furetto, mentre sulla scrivania campeggiava la statuetta di un grande gufo cornuto. Toglietegli gli occhiali e il tocco accademico sulle ventitré, ed ero io spiccicato. O forse sono un po’ egomaniaco. Non ero solo io. Erano anche mia madre, mio fratello, mia sorella e i miei cugini. In pratica, tutti quelli da cui sto cercando di scappare.
Nella mia famiglia non sono semplicemente stupidi. Quello potrei anche perdonarglielo. Il fatto è che loro sono proprio contro la cultura, un po’ come i gatti con il nuoto, o le tartarughe con l’alpinismo. Non fanno altro che parlare di cibo, cibo, cibo, cosa che a volte può essere interessante, ma il più delle volte non lo è.
Esistono, ovviamente, delle eccezioni. Un giorno ho avuto una conversazione affascinante con una gabbianella che era una specie di autorità in materia di patatine fritte. Io pensavo fossero tutte uguali, e invece pare di no. A sentire lei, il sapore varia a seconda del tipo d’olio che si usa.
Le faccio: «Del tipo?». E chi lo sapeva che esistesse più di un tipo d’olio! Poi c’è la questione della consistenza, che può variare da croccante a molle. Anche il tipo di patata influisce, così come l’età e l’esposizione agli elementi.
Dopo aver parlato con lei, mi è presa la mania dei ristoranti. Ogni sera ne sceglievo uno diverso, e andavo a sbirciare in cucina dalle finestre. Quello che ho visto, a parte forni, fornelli e via dicendo, erano un sacco di topi. Il che mi ha spinto a tornare, finché due sere fa, nel parcheggio di una griglieria, non ho fatto un incontro. Un topo che si stava dirigendo verso l’ingresso sul retro. «Dove andiamo, così di corsa?» gli ho detto.
Una delle prime cose che impara un gufo è: “Mai parlare con la preda”. È un buon consiglio, se vuoi mangiare senza sentirti troppo in colpa. La preda va catturata e uccisa immediatamente, così puoi convincerti che fosse lei a voler morire, che la vita che faceva – spostarsi qua e là grattando via la terra o estraendo semi da baccelli – non fosse una vera vita, ma una pallida imitazione. Lo svantaggio è che così non impari niente di nuovo.
Tornando al topo in questione, era come se recitasse un copione a memoria. «Ho appena mangiato del veleno» è riuscito a dirmi. «Se mi mangi, muori anche tu.»
Bugie del genere ti mettono in imbarazzo. Pensare che loro ti credano così stupido da cascarci.
«Ma per cortesia» gli ho risposto.
Il topo è passato al piano B. «A casa ho dei figli piccoli. Aspettano che gli porti da mangiare.»
«Senti un po’» gli faccio. «Non esiste, nella storia del mondo, un solo topo maschio che abbia procurato ai suoi figli anche solo un mozzicone di sigaretta, per cui non venire a raccontarmela. Anzi» ho continuato, «a giudicare da quel che si sente in giro, direi che i tuoi figli hanno più probabilità di essere mangiati da te che nutriti.»
«Effettivamente» ha ammesso il topo. Ho sentito il suo corpo rilassarsi sotto le mie zampe, e la speranza riversarsi implacabile dal corpo sull’asfalto, come sangue o urina.
«Facciamo un patto» gli ho detto. «Tu mi insegni qualcosa che non so, e io ti lascio andare.»
«È uno scherzo, vero?» ha detto il topo.
«No» gli ho risposto. «Sono serio. Tu mi dici qualcosa, e se io lo trovo interessante ti libero.» È così che ho scoperto l’esistenza delle “stanze degli svaghi” e del mobilio inglese, dei rivestimenti per i tetti e dell’olio vegetale e delle finte lanterne d’epoca.
«D’accordo» ha detto il topo, fermandosi poi a riflettere. «Tu lo sapevi che i gamberetti di questo ristorante sono surgelati?»
«No, non lo sapevo, ma direi che è un po’ pochino» gli ho spiegato. «Niente di quel che succede in una griglieria può sorprendermi, specie se fa parte di una catena. Devi spaziare un pochino di più.»
«Okay» mi fa lui, e prende a raccontarmi di quando ha cercato di fare sesso con sua madre.
«E secondo te questo in che modo può contribuire al mio sviluppo culturale?» gli ho chiesto. «Non sai niente di rilevante?»
Lui, allora, mi ha raccontato che esiste un tipo di parassita che vive esclusivamente nell’ano degli ippopotami.
«Ma piantala» gli ho fatto.
«No, è vero» ha giurato. «Avevo uno zio che viveva allo zoo, e a lui l’ha raccontato l’ippopotamo in persona.»
Era una di quelle cose così improbabili da non poter essere che vere. «E va bene» gli ho detto, sollevando la zampa dalla sua schiena. «Sei libero, vai.»
Il topo è schizzato via di corsa attraverso il parcheggio, e un attimo prima che raggiungesse l’ingresso posteriore del ristorante, quel rompipalle di mio fratello è sceso in picchiata e se l’è preso. Evidentemente mi aveva seguito, proprio come la settimana scorsa mi aveva seguito mia sorella maggiore, che si era mangiata la gattina da me appena interrogata, quella che mi ha spiegato la differenza tra i filati normali e l’angora (a quanto pare è decisamente più soffice).
«Chi è adesso quello intelligente?» ha gridato mio fratello volando oltre il tetto del ristorante. Avrei anche potuto inseguirlo, ma il topo di sicuro era già morto, stritolato dagli artigli di mio fratello nell’istante stesso in cui l’aveva afferrato. Per alcuni dei miei parenti è diventato un gioco. Anziché cercarsi le prede da sé, mi seguono di nascosto, e appena finisco di parlare con qualcuno se lo mangiano. «Così risparmio tempo» è stata la spiegazione di mia sorella dopo la gattina della settimana scorsa.
Nella manciata di ore che ha risparmiato, immagino se ne sia stata seduta su un ramo a sbattere le palpebre, senza un pensiero che fosse uno ad attraversarle quella zucca vuota.
Dopo che mio fratello si è dileguato col topo, sono volato in cima a un palo del telefono in fondo al parcheggio. Un parassita che vive nell’ano di un ippopotamo. Alla faccia della società chiusa! Come dev’essere vivere così, con la tua famiglia costantemente a un tiro di sputo?
La tappa successiva è stata lo zoo. Ho sentito che in alcuni gli animali sono ospitati in veri e propri ambienti ricostruiti: campi, giungle e via dicendo. Il nostro, ho scoperto, è di quelli classici, orientati più sullo spettatore che sull’animale. La gabbia della pantera è grande più o meno quanto un grosso camion. I leoni non se la passano molto meglio, ma è anche vero che ce ne sono solo due. Non so di quanto spazio abbia bisogno un ippopotamo in libertà, ma quello del nostro zoo, una femmina, è sullo striminzito andante, più piccolo di un campo da pallavolo. C’è una pozza in cui può farsi il bagno, e tutt’intorno una colata di cemento. Su un cartello piazzato davanti c’è scritto LOIS, ma lei mi ha precisato che quello era solo il suo nome da schiava. «Non ho un nome, né mai ce l’avrò» mi ha spiegato. «Tra gli ippopotami non usa.»
A colpirmi da subito sono state la sua gentilezza e la sua disponibilità. Te le aspetteresti da una capra nana, ma avevo sentito dire che gli ippopotami erano notoriamente scostanti.
«A volte anche a me vengono i cinque minuti, eh» mi ha detto lei, dopodiché si è messa a parlare dei suoi denti. Parevano pioli piantati nelle gengive a casaccio, e a sentirla uno in particolare le stava dando il tormento. Con questo non voglio farla sembrare una tipa lamentosa, tutt’altro. «Non è poi così malaccio vivere in uno zoo» mi ha detto. «È vero che non ho molto spazio, ma quel poco che ho almeno è solo mio. L’anno scorso per un certo periodo mi hanno piazzato qui un maschio. L’avevano portato in camion da non so quale centro di recupero per fauna selvaggia nella speranza che tra noi scattasse la scintilla e ci scappasse il figlio, che però non è mai arrivato. E a me sta benissimo così. Non è che non voglia avere figli, sia chiaro. Solo, non li voglio in questo momento, mi spiego?»
«Eccome.»
«Ma dimmi di te, piuttosto.»
Le ho raccontato che i grandi gufi cornuti si accoppiano per la vita, una rarità nel mondo dei volatili. La mia compagna è mancata prima che si schiudesse la nostra prima covata, ma ho imparato da tempo che questo è un dettaglio da tenere per sé. «Ammazza l’atmosfera» è stata la diplomatica spiegazione della gabbianella. Ed è vero. Quando uno ti dice che la sua compagna è morta – investita da un’ambulanza, nientemeno – è chiaro che un minimo di pesantezza si crea. Ecco perché all’ippopotama non l’ho detto. Per non metterla a disagio.
Di cos’altro abbiamo parlato, quella prima sera? Ricordo che lei mi ha chiesto com’era la zona intorno allo zoo. Credeva fosse tutta alberi e sentierini tortuosi, chioschetti di legno che vendevano palloncini e zucchero filato. Che fosse tutto come quello che vedeva lei da dietro le sbarre del recinto. Non sapeva dei negozi di marmitte e dei megastore di forniture per ufficio, dei ristoranti e dei motel e dei condomini con le piscine illuminate sott’acqua.
Com’è fatto il mondo? «Oddio» le ho detto. «Qui mi sa che ci vuole un po’.»
«È quel che speravo di sentirmi dire» ha risposto.
Tornando a casa, quella sera, ho preso un coniglio. Era abbastanza piccolo, e avevo appena cominciato a mangiare quand’è arrivata mia madre. «Finisci pure, io aspetto» mi fa, con quel particolare tono che significa: “Che razza di figlio è uno che a sua madre non offre nemmeno un pezzettino?”. Sospirando, ho staccato un orecchio e gliel’ho passato.
«Ma non dovevi!» è stata la risposta. Poi, con la bocca bella piena, si è messa a parlare di questa mia cugina che è single e presto entrerà in età riproduttiva. Malgrado io non voglia, mia madre è decisa a trovarmi una nuova compagna. «È un po’ che se ne parla» continua a dirmi. Ma di cosa? E con chi?
La mia compagna era morta da tre giorni, quando mia madre mi ha fissato un appuntamento con la figlia di una sua vicina. Ci siamo incontrati all’alba, sopra una grande quercia che dava su un pascolo. Sotto di noi, in mezzo all’erba, c’era una vitellina bianca che ciucciava il capezzolo della madre. La figlia della vicina le ha strillato: «Frocio!».
«Mi sa che la parola che cerchi è “lesbica”» le ho detto. «Anche se nemmeno così avrebbe senso. Quello che stanno facendo non è un atto sessuale. Si chiama allattamento. È così che i mammiferi danno da mangiare ai piccoli.»
E lei: «Sì, i mammiferi froci».
Quando l’ho raccontato a mia madre, lei, fissando il coniglio sanguinolento che avevo tra le zampe, ha detto soltanto: «E l’altro orecchio?». Poi ha giurato e spergiurato che quest’altra femmina, mia cugina, era diversa. «Le ho detto che vi vedrete domani sera, in cima alla croce davanti a Dio Santo Cristo Gesù Signore.» È così che lei chiama la cattedrale cattolica, il cui vero nome – gliel’avrò ripetuto mille volte – è San Timoteo. Non che in questo caso la cosa avesse importanza. La sera dopo, alle undici, ero di nuovo allo zoo a chiacchierare con l’ippopotama.
Quella sera abbiamo iniziato parlando dei piccioni e dei passeri che di giorno vanno a defecare sul cemento intorno alla sua pozza. «Un vero schifo» ha detto lei. «Se c’è una cosa che proprio non sopporto, sono i vola…» Si è trattenuta. «Vola… ntini.»
«Non sopporti i volantini?»
«Sporcano» ha risposto. «Non trovi anche tu?»
«Senti» le ho fatto, «non devi preoccuparti di ferirmi. Salvo un paio d’eccezioni, nemmeno io vado pazzo per i volatili.» Poi le ho raccontato della gabbianella, quella che mi aveva spiegato le patate fritte. «Poco tempo dopo, ho conosciuto un topo che mi ha detto, correggimi se sbaglio, che esiste un certo tipo di parassita che vive soltanto nel vostro… ehm… retto.»
«Se vivano o meno soltanto lì, non te lo so dire, ma di sicuro ce li ho avuti in quel posto per un nove mesi buoni» mi ha risposto l’ippopotama. «E sono pure un po’ stronzetti, ti dirò. Devo essermeli presi da quell’amantucolo da due soldi che mi avevano spedito dal centro di recupero.»
«Fanno male?»
«Non particolarmente» ha detto. «È più per il principio, non so se mi spiego. L’idea che questi possano vivere dentro di me, a sbafo, manco fossi casa loro.» Cercò di girarsi indietro il più possibile. «E poi fanno un rumore!»
«Cioè li senti parlare?»
«Non è che distingua le parole esatte» ha detto lei. «È più come un brusio di sottofondo, però costante. Lo sento ancor di più quando sono sott’acqua.»
«Ma secondo te di cosa parlano?» le ho chiesto.
«Ma di cagate!» ha esclamato l’ippopotama. «Cioè, non le mie cagate, quelle letterali. Dico le cose di cui parla di solito la gentaglia come quella. Che ne so, incesto, carte.»
«Carte?»
Annuì con il massiccio testone. «Ci giocano durante le pause i signori che vengono a farmi le pulizie nel recinto. A volte si siedono sulla panchina accanto al chiosco dei panini, e io mi metto lì a guardarli.»
In lontananza, la pantera ruggì. Poi sentii una sirena della polizia. «Se vuoi posso provarci io, ad ascoltare quello che dicono» le ho proposto.
«Non so se ho davvero voglia di dare loro tutta questa importanza» mi ha risposto lei.
«Comprensibile» le ho detto, cercando di mascherare la delusione. “Come può uno non voler sapere di cosa parlano i suoi parassiti?” ho pensato tra me e me.
«E se poi dicono cattiverie?» ha proseguito l’ippopotama. «Già è abbastanza fastidioso averceli. Dovessi anche scoprire che si divertono alle mie spalle, sarebbe davvero...