I dannati di Malva
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I dannati di Malva

  1. 154 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I dannati di Malva

Informazioni su questo libro

Malva è una città perfetta. L'aria è pulita, le case sono belle e luminose, gli abitanti vivono immersi negli agi. Ma dietro l'apparenza, nell'intrico di fetidi cunicoli che si dipanano nei sotterranei, pulsa una vita segreta. Laggiù vivono i Drow, gli schiavi degli umani, che pagano il prezzo di quel benessere.
Costretti a vivere nell'oscurità e a respirare fumi tossici, i Drow non osano oltrepassare il confine che li separa dalla superficie di Malva. Ma quando sanguinosi omicidi cominciano a macchiare le linde strade della città, sono proprio i Drow ad esserne sospettati. A indagare nei sotterranei misteriosi di Malva è inviato Telkar, un membro della Guardia Cittadina, mezzosangue Drow e quindi capace di mimetizzarsi tra loro. Per Telkar è l'occasione per distinguersi agli occhi degli umani e riscattarsi dalle proprie umili origini.
La verità che lo aspetta negli abissi della terra, però, sarà qualcosa di sconvolgente e inaspettato¿
Dalla creatrice del Mondo Emerso, un fantasy dalle venature thriller e un'avventura mozzafiato.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804603863
eBook ISBN
9788852018107

1

Ancora una volta lo specchio mi rimandò l’immagine di un volto che non riconoscevo. E come sempre mi passai una mano sulla guancia perché non potevo credere che quello fossi io.
Occhi chiarissimi, quasi bianchi, bucati da una pupilla stretta come la capocchia di uno spillo; pelle liscia e nera, d’ebano. Solo il colore dei miei capelli aveva il dono di rassicurarmi; non il candore lucente di quelli dei Drow, ma un grigio scuro da vecchio che faceva uno strano contrasto col mio volto da ragazzo. Come ormai d’abitudine ci passai dentro una mano. Ecco quel che mi distingueva da loro, l’ultimo baluardo della mia umanità: i capelli di mia madre. Per settimane, mesi forse, non avrei avuto altro per ricordarmi chi ero.
Erano anni che facevo i conti con la mia immagine allo specchio.
Avevo iniziato verso i sei. Ero poco più di un bambino, ma già pienamente consapevole della mia diversità, e stanco, stanco di sentirmela pesare sulle spalle come una condanna. Prima le domande a mia madre: perché la tua pelle è rosa e la mia è nera? Perché gli occhi degli altri bambini sono scuri? Perché i miei capelli hanno lo stesso colore di quelli del nonno? E poi gli scherzi crudeli dei miei coetanei, e quella parola, di cui non intuivo pienamente il senso, ma che sembrava terribile. Mezzosangue. Intuivo che il mondo era diviso in due; da un lato gli umani, profumati, puliti, rosei. Dall’altro i Drow, neri, sporchi, puzzolenti. E io ero in mezzo, né l’uno né l’altro. Troppo umano per essere un Drow, troppo Drow per essere umano.
Fu mia madre a istruirmi. Biacca sul volto per schiarirlo e impacchi di polvere di carbone sui capelli, perché diventassero neri e opachi. Sorrise, quando mi vide camuffato la prima volta, e io con lei: sarei stato come gli altri, un umano, e non più il frutto di uno stupro.
Da allora in poi non avevo smesso neppure un giorno. A sera, mi toglievo la biacca dalla faccia, spesso senza neppure guardarmi allo specchio. L’aspetto bislacco che la natura mi aveva dato, quello sì per me era una maschera. Il mio vero volto era quello truccato; il viso che esibivo di giorno era l’aspetto che avrei sempre dovuto avere: quello di un umano in tutto e per tutto.
Mi vestii con calma. Gli abiti me li ero fatti dare da Farq; lui lavorava di sotto, una Guardia dei Livelli Inferiori, il compito più ingrato tra quelli che possono toccare a un umano. Li aveva presi da un Drow morto. Li avevo tenuti fuori dalla finestra per tutta la notte. L’odore mi disgustava. Appena portati in casa, tutta la stanza se ne era impregnata. Il puzzo delle mie sporche origini, il puzzo nefasto di quell’essere che aveva preso mia madre con la forza, anni prima. L’odore che cercavo di togliermi di dosso da anni.
Non ebbi il coraggio di guardarmi, una volta finito. Sapevo cosa avrei visto, e ne avevo paura: un Drow, un maledetto Drow, coi capelli troppo scuri, ma pur sempre un Drow.
Alla fine si torna sempre al punto di partenza, pensai con un brivido. La mia vita era stata una fuga, ma da se stessi non si scappa.
Scossi la testa per cacciar via quel pensiero molesto.
Lo stai facendo per il bene della città. Sei un eroe. Quando sarà finita, e avrai preso quel maledetto, nessuno potrà più dire che non sei un umano. Sarai davvero uno di loro, quello che li ha salvati.
Era cominciata da un mese circa. Il primo omicidio non aveva fatto molto scalpore. Ogni tanto capitava. I Drow sono mansueti, e si sottomettono facilmente. Ma le teste calde ci sono sempre. Così, a volte succedeva che un Drow uccidesse un umano. L’unica cosa strana era che quello l’aveva fatto con la magia. Nessuna ferita di alcun tipo, solo l’alone verdastro che lasciano sulla pelle alcuni incantesimi letali. Era una traccia, una traccia evidentissima. Solo un Drow usa la magia, gli uomini rifuggono quelle diavolerie. E perché mai un Drow avrebbe voluto compiere un gesto tanto palese e sfrontato?
Ma in fin dei conti, nessuno gli aveva dato tanto peso. Certo, erano seguite le indagini, e qualche controllo più stretto la sera, nulla più.
Comunque non era capitato nella mia zona, ed era per questo che non avevo ricevuto nessun ordine specifico. Pattugliare la città come sempre, nient’altro. Ma io avevo quella storia fissa in testa. D’altronde, ogni volta che un Drow combinava qualcosa, a me sembrava che la gente iniziasse a guardarmi con occhi diversi. Mi ci erano voluti anni, per riuscire a farmi accettare. Avevo inghiottito gli insulti dei ragazzini, e avevo lottato per dimostrare che ero diverso, che ero un umano. Avevo scelto sempre le vie più difficili; l’Accademia, in primis. Diventare Guardia, era quella la mia massima aspirazione. Mia madre mi aveva consigliato la prudenza, indicandomi traguardi più abbordabili. Aprire un negozio, lavorare nei pressi del bosco come guardiacaccia, magari dedicarmi all’agricoltura. No. Io volevo essere ancora migliore degli uomini, e fare un lavoro da vero uomo. E alla fine c’ero riuscito: Guardia della città. Mi ero commosso la prima volta che avevo indossato la divisa. Ma ero anche consapevole che la vittoria andava coltivata, che dalla vetta si può facilmente cadere. Per questo spiavo gli sguardi degli altri. Nei loro occhi a volte ancora mi capitava di leggere un giudizio senza appello: potevo fingere di essere come loro, e persino riuscirci egregiamente, ma c’era sempre qualcosa che mi distingueva, qualcosa che in nessun modo avrei potuto cambiare.
Poi era arrivato il secondo morto ammazzato. In una zona di Malva diversa dalla prima, non troppo distante dai posti che pattugliavo. Stavolta si trattava di una donna. La cosa mi fece ribollire il sangue nelle vene. Una donna, come mia madre quella sera, molti anni fa…
La gente iniziò ad avere davvero paura, il padre della ragazza fece il diavolo a quattro, la folla mormorava. Il Rettore si trovò in grossi guai, la sua testa rischiava di cadere. Persino la Guardia Cittadina passò brutti momenti: la gente ci accusava di non fare abbastanza, iniziava a guardarci con ostilità e sospetto.
Non so neppure come mi venne l’idea. Forse l’ennesimo sguardo sospettoso, mentre con la spada dietro la schiena e la divisa fresca di lavanderia, mi muovevo tra le strade della città per la ronda diurna.
Non sono mai stato un uomo d’azione. Ovviamente, come ogni Guardia che si rispetti, ho ricevuto l’addestramento alle armi: so maneggiare egregiamente lo spadone a due mani, ero il primo della mia classe, con gran disappunto di tutti i figli di papà che mi giudicavano con sufficienza. Ma battevo una zona della città piuttosto tranquilla, e per questo non avevo mai avuto davvero occasione di sfoggiare la mia preparazione tecnica. Un paio di ladruncoli e qualche truffatore, questo il bottino di dieci anni di onorata carriera. Forse fu proprio questo il primo pensiero… mettermi alla prova. Ma soprattutto, credo di aver deciso di dimostrare a me stesso che niente mi legava alla oscura fatalità da cui provenivo. Combattere un assassino Drow era il modo migliore per provare, a me ancora prima che al mondo, da che parte stavo davvero, da che parte ero sempre stato.
Lo dissi prima al mio diretto superiore, Varessa, il Capitano del mio manipolo. La gettai lì, casualmente, tra una battuta sul tempo che volgeva al freddo e un’imprecazione contro il bosco che avanzava verso la città.
«Non credete che potrei occuparmi io dell’assassino Drow?»
Varessa si stava cambiando, riponendo lo spadone sulla rastrelliera, nella sala centrale del Comando. L’elsa gli sfuggì di mano, e solo riacchiappandola al volo riuscì a evitare che cadesse a terra.
Deglutii, e cercai di sostenere il suo sguardo basito. Lo conoscevo, quello sguardo. Era lo stesso che mi rivolgevano all’Accademia quando mi proponevo per qualche compito di rappresentanza, lo stesso che mi avevano gettato in faccia quando per la prima volta avevo espresso il desiderio di essere una Guardia.
«Non devi dimostrare niente a nessuno, Telkar» mi disse con un sorriso rassicurante, mentre metteva a posto la spada.
Digrignai i denti. «Lo so, non è per questo.»
«Se ne stanno già occupando egregiamente in Prima Giurisdizione, e ovviamente anche le Guardie dei Livelli Inferiori sono tutte mobilitate. Lo prenderanno.»
Venne a sedersi accanto a me, un sorriso condiscendente sulle labbra. Varessa era un progressista, tutto sommato. Era tra i pochi che davvero mi giudicava per il mio effettivo valore, e non per il colore della mia pelle. Ma anche lui sapeva perfettamente che esistevano dei limiti, e non li varcava mai.
«Occorre indagare dall’interno» obiettai.
Il sorriso non scomparve dalle sue labbra.
«Lo stanno già facendo.»
«E come? Sono uomini.»
Varessa sospirò, mi mise un braccio sulle spalle.
«Stai facendo un ottimo lavoro qui, magari tra qualche anno potresti tentare la via di una promozione.»
Lo ignorai. «Ma io, io sono come loro, capite? Io potrei infiltrarmi ai Livelli Inferiori, e indagare direttamente in mezzo ai Drow.»
Varessa tacque per qualche istante. Era evidente che non voleva espormi a una delusione. Mi voleva bene, l’avevo sempre saputo.
«Stiamo già lavorando al caso. Ho intensificato i turni di guardia, te ne sarai accorto. Stai già facendo qualcosa.»
Continuai imperterrito. «In fin dei conti non sappiamo niente di quel che combinano là sotto. Sì, ci sono le Guardie che li controllano, ma quel che fanno quando non lavorano, cosa si dicono la sera, quando staccano… mistero. Ci limitiamo a farli lavorare, ci accontentiamo che facciano il loro dovere, ma non li controlliamo per davvero, e questa sfilza di omicidi ne è la prova. Se mi facessi passare per uno di loro…»
Varessa fece una smorfia. «La gerarchia è la prima cosa, lo sai bene, giusto? Ognuno deve saper stare al proprio posto, vale per i civili, e più ancora per le Guardie. Devi limitarti a fare il tuo dovere.»
«Il mio posto è là sotto, se è per questo. Quelli come me vivono e lavorano nelle viscere di Malva.»
Un lampo di imbarazzo passò rapido nei suoi occhi. Abbassò lo sguardo, si mise a camminare per la sala.
«Non intendevo questo…» farfugliò.
«Non vi fidate di me?» Mi accorsi che stavo giocando sporco, ma il rischio valeva la candela. Varessa infatti tornò a guardarmi con intensità.
«Sai perfettamente che ti stimo, e che ti reputo un elemento indispensabile al nostro manipolo.»
«E allora cosa c’è di tanto scandaloso nella mia idea? L’assassino ha lasciato una sola, chiara traccia; per il resto, può trovarsi ovunque, può essere chiunque. Dobbiamo sfruttare quest’unico indizio, e il modo migliore è far sì che io mi infiltri. Cosa c’è che non funziona nel piano?»
Varessa era imbarazzato. Non sapeva cosa dire. Io invece immaginavo chiaramente cosa stesse pensando. I suoi superiori non me l’avrebbero mai permesso.
«È pericoloso» disse infine. «Tu non sei uno di loro.»
«Che io sappia, ci sono mezzosangue che lavorano là sotto.»
«Ma gli altri Drow non si fidano di loro.»
Mi sfuggì un sorriso sarcastico. Quanta gente, lì a Malva, non si fidava di me?
«Sul serio? Io so che il cameratismo è molto sentito da quelle parti. Il lavoro, il lavoro duro, unisce e annulla le differenze.»
Si mise a camminare ansiosamente per la stanza. Mi conosceva, Varessa. Sapeva che quando mi mettevo in testa una cosa non mollavo la presa. E conosceva bene il mio modo di ragionare.
«In ogni caso la gerarchia…» sbottò a un tratto.
«Per questo lo sto dicendo prima a voi, e in modo informale. Contavo che avreste proposto il mio piano al Maggiore, e lui a Sua Eccellenza, se serve la sua approvazione.»
Riprese a muoversi in tondo innanzi a me, fissando il pavimento. L’idea non lo convinceva, era chiaro, e sapeva che non avrebbe convinto neppure i suoi superiori. Tutto sommato, però, sentivo che desiderava assecondarmi.
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I dannati di Malva
  4. Prologo
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. Epilogo
  13. Copyright