Otel Bruni
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Otel Bruni

  1. 360 pagine
  2. Italian
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Informazioni su questo libro

I Bruni - Callisto, la Clerice, i loro figli, sette maschi e due femmine, e il loro regno: la cascina nella pianura emiliana, i campi coltivati con fatica perché diano frutto per il notaio che ne è proprietario, e la grande stalla, albergo per ogni pellegrino e luogo in cui ci si riunisce per celebrare il rito della veglia nelle lunghe notti d'inverno, quando Cleto, l'aedo, narra le sue storie meravigliose, retaggio di una tradizione millenaria. Come quella della capra d'oro, idolo demoniaco la cui apparizione nel buio è presagio di orribili sciagure¿
Questo mondo antico, fatto di valori elementari ma fortissimi, di leggende ancestrali, magie, scongiuri, di fatica immensa ma anche di certezze come il cibo, la casa, la solidarietà, non può sottrarsi al corso della storia: tutti e sette i maschi dei Bruni partiranno per la Prima guerra, e la famiglia dovrà affrontare i lutti, il nuovo regime con la sua violenza, il secondo terribile conflitto mondiale e ancora la guerra civile, con le distruzioni, le umiliazioni, le paure e i cambiamenti che portano con sé. Ma anche, ogni volta, con la straordinaria capacità di rimboccarsi le maniche, di affidarsi al volgere delle stagioni e guardare avanti con rinnovata fiducia.
Floti, Gaetano, Armando, gli altri fratelli, le donne coraggiose e piene di vita che gli sono compagne: attraverso i loro gesti quotidiani, la loro intelligenza viva come può esserlo solo quella nata da animi generosi e da una istintiva conoscenza della natura, attraverso i loro occhi i lettori di queste pagine compiranno un viaggio straordinario che va dall'aia di casa Bruni fino alle pietraie del Carso e al corso del Piave e del Tagliamento, dall'Africa alla Russia, dal 1914 al '49 e oltre, da una famiglia unita intorno al focolare alla diaspora del dopoguerra, dall'ordine immutabile della vita contadina alla complessità di un mondo nuovo, nel quale ciascuno fa parte per se stesso e i diritti dei più deboli non sono più garantiti dalla solidarietà istintiva. Dal tempo in cui l'otel Bruni dava riparo e ascolto a ogni viandante nella notte, al vento nuovo che soffia nella campagna ormai disertata dall'uomo...
Attingendo a memorie vive, scandagliate con la meticolosità dello storico e il fervore dell'artista, Valerio Massimo Manfredi si misura in queste pagine con una materia incandescente: la storia del nostro Novecento, i cui segni sono ancora incisi nella nostra pelle e nei nostri gesti. Il passo epico, incalzante che è la cifra distintiva di tutta la letteratura di Manfredi si trasfigura, in Otel Bruni, nel respiro profondo, dolente ma non meno grandioso di una saga: la storia vicinissima e senza tempo di uomini e donne semplici ma destinati a rimanere incisi nella nostra memoria, la rievocazione piena di poesia di un mondo perduto dove l'amore, il coraggio, la speranza erano i valori di una umanità che credeva ancora in se stessa.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804608738
eBook ISBN
9788852019418

1

La notte del 12 gennaio 1914 fu ricordata al nostro paese come una delle più rigide di tutto l’inverno e forse di tutti gli inverni a memoria d’uomo. La neve aveva cominciato a cadere verso sera e, cosa del tutto inusuale se non impossibile, il sole si era voltato indietro – come usava dire – prima di affondare dietro l’orizzonte, apparendo per pochissimi minuti nello stretto spazio che separava l’orlo occidentale della coltre nuvolosa dal profilo della terra. Il raggio vermiglio aveva attraversato la fitta cortina di fiocchi candidi creando un’immagine fantasmagorica, un’atmosfera così irreale che i contadini che stavano rientrando per la cena si erano fermati al centro dell’aia a contemplare la visione mirabile, quasi un segno divino, e a cercare di interpretarne il significato. Erano diventati parte di uno scenario stupefacente, di cui non s’era mai sentito a memoria d’uomo, e un giorno avrebbero cercato di narrare ai loro figli e nipoti di aver visto nevicare sul sole.
In breve tempo le loro sagome si erano imbiancate e la luce d’oro si era spenta.
La casa dei Bruni era un vecchio edificio colonico a tre spioventi con le grondaie corrose dalla ruggine e gli scuri di quercia che, perduta ogni traccia di pittura, avevano assunto un colore grigio uniforme. Sorgeva a poca distanza dalla strada e distava una cinquantina di metri dalla stalla e dal fienile. Non c’era una casa padronale perché il podere faceva parte della tenuta del notaio Barzini che abitava in un palazzo a Bologna. Un podere di cento tornature buone, se non di più, che confinava a levante con una proprietà dell’opera pia Bastarda, un istituto che si prendeva cura, per così dire, dei bastardini abbandonati nella ruota dei frati o delle suore in qualche convento di città.
La stalla era un edificio imponente, per metà adibito a fienile d’inverno e a cascina per il grano d’estate, dopo la mietitura. Nell’altra metà stavano le vacche con i vitelli, quattro paia di buoi per arare e un toro per la monta. Era lì che ci si trovava d’inverno a veglia per non andare a letto con le galline e per tirare tardi con ospiti sia occasionali che abituali, senza dover bruciare legna nel camino perché il calore delle bestie era più che sufficiente.
Quella sarebbe stata una lunga notte perché il giorno dopo nessuno, tranne il bovaro, avrebbe dovuto alzarsi presto, una notte da passare nella stalla ad ascoltare storie. E così, dopo cena, mentre le donne rigovernavano, gli uomini, uno dopo l’altro, andarono nella stalla portandosi dietro un bottiglione di vino rosso novello che non aveva ancora finito di fermentare. Erano sette fratelli: Gaetano, Armando, Raffaele che tutti chiamavano Floti, Checco, Savino, Dante e Fredo. Il vecchio Callisto ormai non prendeva più parte alle nottate perché aveva mal di schiena e stava scomodo sugli sgabelli per mungere. Aspettava che le donne gli mettessero nel letto il coccio con le braci coperte di cenere che chiamavano “la suora”, dentro al suo trabiccolo di legno, “il prete”, e si infilava sotto le coperte bollenti. E c’era in quella associazione di parole trasgressiva e irriverente una certa logica, nel senso che, secondo l’opinione comune, mettere a letto insieme una suora e un prete avrebbe creato una reazione termica elevatissima.
Ogni volta, stirandosi fra le lenzuola di canapa, Callisto borbottava: «Che grande invenzione il letto!» e in breve russava come un trombone.
Nella stalla era alloggiato un vecchio che diceva di chiamarsi Cleto e faceva l’ombrellaio per guadagnarsi un piatto di minestra e un giaciglio di paglia. Parlava sempre con un suo stile sentenzioso per ottenere rispetto e considerazione. Anche lui aveva osservato quel raggio fiammeggiante, scagliato contro la fitta cortina di neve che scendeva dal cielo, ed esordì con un proverbio: «Quand al soul al’s volta indrì, brota not ai ten adrì». Quando il sole si volta indietro, una brutta notte gli va dietro.
Gaetano, il bovaro, fece notare che non ci voleva molto a prevedere una brutta notte visto che la neve aveva già completamente coperto le impronte lasciate poco prima attraversando l’aia. Stava ancora parlando quando si sentì bussare al portone ed entrò Fredo, che aveva portato con il biroccino la mamma alla novena di sant’Antonio. Era avvolto nel tabarro fino agli occhi e portava un cappello gualcito calato sul naso.
«Nevica che Dio la manda» esclamò come se portasse una grande notizia, battendo i piedi sul pavimento.
«Siediti» disse Gaetano porgendogli uno sgabello, «bevi un bicchiere, che ti scaldi.»
«Secondo me» disse Fredo, «domani mattina ce n’è un culo, di neve.»
«Sì e no una gamba» obiettò Gaetano. «Quando viene giù così forte non può durare molto.»
«Lo dici tu» intervenne Cleto, l’ombrellaio. «Mi ricordo che nel ’94 a Ostiglia in una sola notte ne venne giù un metro.»
«Un metro non è un culo» ribatté Gaetano.
«Dipende a che altezza ce l’ha uno, il culo» ridacchiò Fredo.
Se si parlava del tempo ognuno aveva la sua da dire, l’esempio da ricordare, l’evento stupefacente da descrivere. Nelle loro vite tutto era sempre uguale, un giorno come l’altro, una notte come l’altra: solo le manifestazioni della natura sembravano ancora stupire.
«Volete saperne una?» disse il bovaro. «Quando vengono giù fiocchi così grandi che sembrano fazzoletti da naso e l’aria è così ferma, potrebbe tirare il terremoto.»
Floti, che era stato zitto fino a quel momento, volle entrare nella discussione. «Su questo non c’è da preoccuparsi» disse. «Se deve tirare il terremoto le bestie danno l’allarme in anticipo, state sicuri.»
Non aveva finito di parlare che si sentì il cane fuori abbaiare furiosamente e l’anello della catena scorrere avanti e indietro lungo il filo di ferro teso fra un noce secolare e la casa. Tutti guardarono le volte della stalla solcate da crepe, aspettandosi da un istante all’altro di veder cadere la polvere di gesso che annunciava il sussultare della terra. Ma non accadde niente di niente. I buoi e le vacche continuavano a ruminare tranquilli e il gatto a dormire raggomitolato su una balla di paglia.
«Ma che terremoto» disse Cleto, «c’è qualcuno là fuori. Andate a vedere.»
Tutti si volsero verso il portone. Checco si alzò e andò ad aprire. Una lama di luce si proiettò all’esterno illuminando prima i fiocchi di neve grandi come farfalle che scendevano a milioni sulla terra oramai completamente bianca e, subito dopo, una figura incerta e barcollante che arrancava verso la stalla.
«Sei tu, Iófa?»
«Sono io» ansimò l’interpellato. «Ho visto la luce e sono entrato.»
«Hai fatto bene. Vieni dentro, dài. Ma cos’hai fatto: hai bevuto?»
Iófa entrò, si scrollò di dosso la neve e buttò il tabarro sulla paglia: «Bevuto? Un bicchiere in tutto all’osteria, ma se me ne date un altro lo bevo volentieri. Ne ho bisogno».
Non l’avevano mai visto così: era stralunato e confuso come se non sapesse da dove cominciare. Gli si fecero intorno mentre lui mandava giù in un sorso il bicchiere di vino.
«Allora?» domandò Checco. «Cosa t’è capitato? Sembra che tu abbia visto il diavolo in persona.»
«Poco ci manca» rispose. «Ero all’osteria della Bassa con Bastiano, il Guercio e Vito Baracca a giocarci a briscola un mezzo di vino bianco. C’era pochissima gente…»
«Con una notte così, te lo credo» lo interruppe il bovaro.
«Lascialo parlare» disse Floti sicuro che l’uomo non era capitato lì per caso con un tempo del genere. Ci era venuto apposta perché aveva qualcosa dentro che non avrebbe potuto tenere solo per sé per l’intera notte. Iófa riprese il suo racconto:
«Io giocavo con il Guercio contro Bastiano e Vito Baracca e avevamo già pareggiato due mani. Vi sembra possibile? Sessanta e sessanta e Baracca che aveva avuto l’asso, il tre e il fante di briscola. Insomma stavamo per giocarci la bella che si sente aprire la porta ed entra un tizio mai visto. Aveva una barba che gli arrivava fin quasi alla cintura, un pastrano grigio lungo fino ai piedi, una borsa di pezza a tracolla e due occhi rossi da demonio. Si siede, tira fuori dalla borsa un pezzo di pane duro come un sasso e lo appoggia sul tavolo.
“Da dove venite, galantuomo?” gli fa il Guercio.
“Dal crocevia della Corona” risponde lui.
“Era meglio se dormivate là. È un bel pezzo di strada fino qui con questa neve. Potevate rimanerci seppellito.”
“Sono venuto fin qua perché sapevo che questa notte sarebbe apparsa…” risponde lui con uno sguardo da far spavento.
Nessuno di noi ha il coraggio di dire una parola. Si stava lì con le carte in mano a guardarci l’un l’altro come per dire ma questo è matto da legare. Quello guarda l’oste e gli dice di portargli un bicchiere di vino che i soldi per pagarlo ce li ha, ci inzuppa il pane e se lo ficca in bocca e lo succhia e lo mastica a bocca aperta, che faceva schifo, proprio come un demonio.»
«Sarà stato il demonio» commentò Fredo, ma Floti gli diede ancora sulla voce: «Non dire bestialità, lascialo parlare».
«Alla fine gliel’ho chiesto io, visto che nessuno s’azzardava… Apparsa che cosa, galantuomo?
Lui alza la testa e mi guarda stralunato: “La capra d’oro”.»
Iófa smise di raccontare per spiare nei volti dei presenti, uno per uno, l’effetto delle sue parole.
«Vai avanti» disse Floti, «non farti cavare le parole di bocca.»
«“La capra d’oro?” gli chiedo, “ma siete sicuro di star bene, galantuomo?” Lui manda giù l’ultimo boccone di pane, ingolla l’ultimo sorso di vino, e fa: “Certo. Me la sono trovata davanti così come adesso vedo voi. Era sul più alto di quattro monticelli, sulla sinistra della strada…”.
“Il Pra’ dei Monti!” dice il Guercio. “L’hanno sempre detto che sta nascosta là. Ma voi come facevate a saperlo visto che non siete di queste parti?”
“Splendeva in mezzo al turbinare della neve, circondata da un’aureola palpitante…”
“E voi? Voi che avete fatto?” gli chiedo.
“Mi sono fermato a guardarla incantato. Era tutta d’oro, in grandezza naturale e al posto degli occhi aveva due pietre preziose, rosse come il fuoco. Non potete immaginare che cosa si prova a trovarsi di fronte una visione del genere. È una cosa che non dimenticherò per tutta la mia vita.”»
Gaetano aveva ascoltato fino a quel momento senza dire una parola e anche gli altri se ne stavano in silenzio a pensare a quell’apparizione che il forestiero aveva descritto agli avventori dell’osteria. Disse: «Io non ci credo. Quello è un furbo che viene da lontano, uno senza arte né parte che ha saputo di questa storia che circola nel nostro paese e ha voluto prendersi gioco di voi…».
«O vuole trovare qualcuno che gli dà alloggio qualche giorno per farsi raccontare di nuovo la sua storia, finché le strade non diventano percorribili e può rimettersi in viaggio» aggiunse Checco.
«Sarà» rispose Iófa, «ma a sentirlo parlare venivano i brividi: aveva una voce rauca, una voce che… sembrava venire dall’altro mondo. Bastiano, che è grande e grosso come un armadio e non ha mai avuto paura di niente, tremava come un bambino. Quell’uomo non era di qui, e però diceva di aver visto la capra d’oro…»
«E adesso dov’è?» domandò Armando che fino a quel momento non aveva proferito verbo.
«E chi lo sa» rispose Iófa, «è sparito.»
«Come, sparito?» chiese Gaetano.
«Ha chiesto un altro bicchiere di vino e lo ha mandato giù in un sorso, poi ha lasciato dieci centesimi sul tavolino ed è uscito. Noi ci siamo avvicinati alla porta a vetri per guardare fuori ma lui non c’era più… Secondo voi che cosa vuol dire?»
«Non vuol dire niente» rispose Gaetano. «Vedrete che domani salterà fuori. Sarà andato a dormire in qualche fienile.»
«Dite così per mettervi l’animo in pace» disse l’ombrellaio. «La verità è che avete paura.»
«Paura?» disse Floti. «E di che?»
«Di quella cosa… della capra d’oro. Lo sapete bene che cosa vuol dire. Quando appare così improvvisamente, in una notte come questa, a un viandante solitario, può significare soltanto che sta per accadere una disgrazia. La prima volta che se ne ha memoria apparve poco meno di trecento anni fa e l’anno dopo scoppiò la grande peste che si portò via più di cinquecento persone soltanto qui nel vostro paese. Apparve di nuovo circa sessant’anni più tardi a un frate cappuccino che viaggiava, per sfuggire alla calura, in una notte d’agosto, diretto al convento di Vignola. Pochi mesi dopo i turchi invasero le regioni orientali e poi l’Austria e per un miracolo non invasero l’Italia per prendere Roma. Sarebbe stata la fine della Cristianità! Venti giovani soldati di questo comune morirono nella battaglia di Vienna.
La capra d’oro fu vista di nuovo diciotto anni fa in una notte di tempesta da un commerciante di porci che tornava dal mercato di Sant’Agata. La vide illuminata in pieno dal lampo di una folgore in un diluvio di pioggia. Sei mesi dopo i suoi tre figli morirono nella battaglia di Adua in Abissinia assieme a migliaia e migliaia di nostri soldati…»
«Smettila» disse Floti, «si tratta solo di chiacchiere senza costrutto, superstizioni di gente ignorante che quando succede una disgrazia subito fa apparire la capra. Ecco che cos’è. Non c’è nessun significato.»
«Davvero?» rispose Cleto. «Allora, se le cose stanno come dici tu e se non hai paura di queste superstizioni, perché non andiamo a dare un’occhiata al Pra’ dei Monti? Adesso.»
«Sei pazzo» disse Floti. «Non ci penso nemmeno. Fa un freddo cane e nevica sempre più forte. Se capita qualcosa andiamo giù per un fosso e moriamo assiderati, e ci trovano solo la prossima primavera.»
«Tu non ci vai molto in chiesa» ribatté Cleto, «ma io ricordo bene che cosa diceva don Massimino, che Dio lo abbia in gloria. Diceva che la capra è un simbolo del demonio che ha origini antichissime, forse era venerata come idolo pagano da queste parti, p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Otel Bruni
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. Epilogo
  35. Copyright