Arnaud Rykner
IL VAGONE
Traduzione di Marco Bellini
In memoria di G. Rival
e dei suoi compagni
Il 2 luglio 1944, da Compiègne partì uno degli ultimi treni carichi di deportati.
L’ultimo da Compiègne a Dachau.
Ma nel corso di quell’estate altri treni partirono dalla Francia diretti ai campi. Per molto tempo ancora, fino all’inizio dell’autunno, ben dopo lo sbarco in Normandia e la liberazione di Parigi. Per quanto sembri incredibile.
Su quel treno, di ventidue vagoni più quelli di scorta e un vagone di coda, erano stati ammassati duemilacentosessantasei uomini, arrestati dalla polizia francese o dalla Gestapo.
Molti erano partigiani. Non tutti. Alcuni erano collaborazionisti, altri delatori. Altri ancora non erano niente. Il loro unico torto era di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Per coprire un tragitto di ventiquattro ore in tempi normali, il convoglio 7909 impiegò più di tre giorni, in un caldo soffocante, attraversando regioni in cui si registrarono le temperature più alte della stagione. Le condizioni furono tali che settantasette ore dopo la partenza si contarono cinquecentotrentasei cadaveri, dunque al campo giunsero solo milleseicentotrenta sopravvissuti provvisori, molti dei quali sarebbero morti senza rivedere la Francia.
La maggior parte dei sopravvissuti non racconterà nulla per anni.
Finché uno storico non viene a incalzarli, e quasi li obbliga a parlare. Li aiuta a parlare di quel treno così incredibile che venne chiamato, come in un brutto film di serie B, Il treno della morte. 1
Di quelli che hanno parlato, sembra che in seguito la maggior parte abbia lasciato solo qualche pagina. Molti hanno taciuto per sempre. Non hanno detto nulla oltre alle poche parole che erano state loro richieste su quella vicenda, per quel libro.
Di sicuro non avrei mai saputo nulla di quel treno, se un giorno un conoscente non mi avesse informato della sua esistenza. E dell’esistenza, su quel treno, di qualcuno che mi era stato vicino. E, oltre a quella, dell’esistenza di un grande silenzio, di un vuoto, di un buco enorme, smisurato. Mancava un anello a una storia che mi riguardava e di cui non avevo mai saputo niente. Avevo sempre pensato che quel genere di buchi, di voragini, per quanto ormai banali, si aprissero solo sotto i piedi degli altri. Così, quasi senza rendersene conto, quel giorno il mio corpo ha deciso al posto mio che sarei dovuto andare oltre le poche parole scambiate nel corso di una conversazione apparentemente insignificante. Andare oltre e scrivere su questa vicenda, dato che per me scrivere era da tempo una necessità. Le due necessità, scrivere e cercare quel che mancava alla storia, quel che creava il difetto nella concatenazione dei giorni e produceva il silenzio di una o più vite oltre alla mia – così comoda rispetto a quelle –, si sono improvvisamente congiunte.
Nello stesso tempo, ho sempre saputo che scriverne mi era negato. Non ne avevo il diritto. Ma sapevo che l’avrei fatto comunque. Dovevo restituire quell’anello che mi era negato.
Non ne avevo il diritto, ma dovevo farlo, e l’ho fatto.
Un po’ prima o un po’ dopo, non lo so più – e non sapendolo più ho provato su di me cosa sia l’oblio, l’oblio di ciò che è così intenso da cancellare il ricordo, la connessione, il prima, il dopo, il modo in cui la verità giunge a noi e improvvisamente ci trascina con sé, facendoci dimenticare completamente l’ordine in cui si è manifestata, e che fa parte della verità stessa –, ho saputo qualcos’altro, di cui non potrò non parlare. Di cui non potrò parlare.
Perciò ho deciso di parlare di questo treno.
Parlare di questo treno sarà parlare anche di quell’altra cosa proibita.
Di quell’altra storia che non è più la mia. Che è anche la mia. Che è soprattutto la storia di tutti noi.
Ho pensato che fosse giunto il momento e, per quanto non avessi il diritto di parlare al posto di un altro, dovevo parlare. Dare voce all’altro. Prendere il posto dell’altro. Far parlare l’altro in me.
Questa cosa oscena, dovevo tentarla.
Tutto quel che qui è raccontato è vero. Anche tutto quel che qui è inventato è vero. Molto al di sotto della realtà. Non è letteratura.
Ho detto che uno storico ha indagato, ricostruito, interrogato con rigore e precisione chi era sul treno e fuori dal treno. Ho letto tutto quanto, per non mentire. Ho letto tutto quel che potevo per non imbrogliare. Non fare il furbo. Il meno possibile.
Ma pur sapendo quel che sapevo, avendo letto quel che avevo letto, non potevo che mentire. L’inimmaginabile deve essere immaginato. Là dove nessuna immagine può formarsi, bisogna formare un’immagine. Un’immagine incompleta.
Quindi, tutto quello che è raccontato è falso. Questo non è un libro di Storia. La Storia è molto peggio.
Irreale.
Questo è un romanzo.
2 luglio.
Fra tre giorni è il mio compleanno.
Fra tre giorni avrò ventidue anni. L’inizio della vita, quella vera. La vera fine dell’infanzia.
Continuo a ripetermelo.
Fra tre giorni, ventidue anni.
Il treno corre, come questo numero nella mia testa. Ventidue. Due volte undici.
Undici mesi fa i miei genitori sono partiti. Undici mesi dopo forse li raggiungerò.
O forse no.
Non so cosa mi aspetta.
Non so cosa aspetta tutti noi, qui, ammassati tanto da non riuscire a respirare. Ammassati come gli animali che non siamo, che non vogliamo essere, che non ci costringeranno a essere, oppure sì?
Difficile anche solo pensare, quando il corpo non ne può più, quando l’aria circola a malapena nei polmoni e nella testa, quando nella testa qualcosa si comprime come i corpi in questo vagone. Lo sapevano i miei insegnanti quando ci parlavano dell’importanza dello spirito, della superiorità dello spirito, della sua grandezza che supera tutto, sopravvive a tutto? O ci mentivano consapevolmente? Non avevano imparato niente dalla loro guerra? Non avevano capito niente? O ci nascondevano quel che avevano capito, come se la speranza dipendesse ancora dalla menzogna?
I gomiti dei miei vicini nelle costole, nella schiena, contro il ventre, il loro insopportabile fetore, il dolore continuo, il rumore delle ruote nella testa, ruote che mi tranciano la testa in due: no, non dovevano conoscere nulla di tutto ciò se osavano cullarci con le parole. Tra poco avrò ventidue anni, ma ho l’impressione di saperne più di tutti loro messi assieme. Dove saranno adesso? Quanti sono ancora vivi? Quanti sono morti? Quanti fanno parte dei potenti, di questi vincitori tra poco sconfitti che ci portano chissà dove, magari al macello? Quanti sono fra di noi oggi?
Devono pur essercene.
Non tutti erano pieni di boria e di quel sapere imputridito che appesta quanto i corpi che mi spingono, mi schiacciano, forse anche più di questi corpi. Non tutti erano vili e codardi, non tutti erano così vigliacchi da ammorbarci con parole a cui non credevano più, a cui non potevano più credere.
Impossibile.
Alcuni erano persone vive. Voglio crederlo.
Voglio credere, anche se le scosse del vagone risvegliano le cicatrici delle percosse subite, anche se la pressione di questi corpi, di queste ossa contro le mie, di tutta questa carne, che sembra già putrefatta talmente puzza, ferisce quanto le bastonate; voglio credere che per alcuni di loro le parole non fossero vane, che non ricorressero a Omero, Rousseau, Hugo per addormentarci meglio e assaporare il loro potere sui poveri, ignari bambini che eravamo. Devono pur essercene fra di noi, deve pur esserci chi credeva sinceramente che le sue parole potessero cambiare il mondo e non fossero del tutto inutili, chi non mentiva, chi non ci mentiva. Non voglio morire avendo creduto solo a menzogne. Anche se qui c’è puzza e tutto è appiccicoso, anche se stiamo male e siamo ben lontani da ciò che è stata la mia vita, deve pur esserci fra di noi qualcuno che ci abbia creduto, qualcuno che abbia detto la verità quando ci raccontava che gli uomini sopravvivono grazie alle parole dette, ai libri letti, al potere del pensiero, al potere delle parole, al potere dei nostri sguardi carichi di quelle parole. Non possono aver mentito tutti!
Chi poteva pensare che avrebbero ficcato cento corpi in un vagone previsto per “quaranta uomini o otto cavalli in larghezza”? E cento corpi nel vagone davanti. E cento nel vagone dietro. Più di venti vagoni, per andare dove? Venti vagoni in fila indiana, come bambini in castigo, bambini vergognosi, con il moccio al naso, l’aria abbattuta, sudici, che si reggono i calzoncini e la trattengono per non farsela addosso. Chi poteva prevedere che ci saremmo ritrovati qui a contrarre la vescica, a pregare che i nostri intestini non si rilassino, non subito, non prima di aver trovato qualcosa di meglio della scatola di conserva che ci passiamo alla meno peggio, questa scatola che nonostante tutto siamo ben felici di avere, perché ci evita di dover ricorrere alle nostre gavette, di doverci abbassare a tanto, questa scatola che ci schizza addosso il suo immondo contenuto e che tocca a me cercare di svuotare dal finestrino?
La sorte, infatti, ha voluto che io sia vicino a uno dei finestrini del vagone, non così ben sigillato da non riuscire a scostare le assi che lo tappavano. La sorte o l’istinto di sopravvivenza, un egoismo vitale che mi ha spinto qui senza che lo avessi deciso, previsto o pensato – al punto che non posso neppure vergognarmene. A quanto pare ci hanno tolto anche la vergogna. Perché questo spiraglio protetto dal filo spinato forse mi salverà la vita. Chissà quanto tempo potremo resistere in questa cella dove si soffoca, dove manca l’aria tanto che qualcuno sviene in piedi, dove il caldo diventa insopportabile anche se avremo lasciato Compiègne da meno di un’ora. Pazienza se mi tocca svuotare la scatola già debordante di lordure, visto che sul vagone non c’è il bugliolo, pazienza se mi puzzano le mani. So di essere fortunato a trovarmi qui, anche se so che presto dovrò cedere il posto, se non voglio trasformarmi in un animale che si occupa solo di se stesso, obnubilato dal pensiero della propria sopravvivenza. Può darsi che le parole di un tempo mi aiuteranno a sopportare tutto ciò. Eppure, già devo richiamarle alla memoria, rievocarle continuamente per impedire che la bestia prenda il sopravvento. Forse, almeno, mi aiuteranno a non cedere troppo presto, a resistere più a lungo.
Resistere? A cosa? A chi? Per cosa? Per chi? Più a lungo di chi?
Mi appiattisco più che posso per lasciar passare un compagno svenuto, a fatica riusciamo a sollevarlo fino al finestrino. E mentre i lamenti si moltiplicano e i primi battibecchi lasciano presagire il peggio in questa insostenibile promiscuità, in questa insopportabile pressione dei corpi, che però ci permette di restare in piedi nonostante gli scossoni del convoglio, si alza una voce, imperiosa, sicura di sé quando tutti dubitano, che ci ordina di sederci e alzarci a turno per cercare di condividere quel poco d’aria che ci resta.
«Una metà in piedi, l’altra seduta, partendo dal lato sinistro!»
Chi ha parlato?
Tutti, per una volta, hanno voglia di obbedire. Tutti capiscono istintivamente che quella è la nostra unica possibilità di “resistere”. Evidentemente, nessuno si aspettava che una voce ci dicesse cosa fare, ci ordinasse di vivere. Dentro di me benedico chi ha ancora la forza di comandare.
Che strano balletto facciamo, così stipati, alzandoci e sedendoci a turno, come spinti da una molla, un istinto adesso condiviso.
Seduti.
In piedi.
Seduti.
In piedi.
Seduti.
In piedi.
Ogni volta che siamo in piedi, anche se il corpo cede, la flebile corrente d’aria calda che filtra ci fa ritrovare un po’ di coraggio. I polmoni si riempiono, aspirano quel puzzo salvifico. La testa si rimette in moto.
Stando seduti, invece, il corpo si rilassa, ma l’asfissia incombe.
Fa un caldo infernale, si soffoca. Come andrà dopo mezzogiorno?
È un giorno di canicola, come quelli che da piccolo amavo passare con i miei fratelli, già grandi. Uno di quei giorni in cui mi portavano a turno sulle spalle e ci buttavamo in mare, loro sotto, io sopra. Uno di quei giorni in cui era bello avere caldo, per apprezzare meglio il freddo delle onde.
Ma oggi non ci sono onde, né vento. Non ci sono fratelli. Solo compagni di dolore e disperazione.
Alcuni non ce la fanno, cercano di rialzarsi prima del loro turno. Ci vuole tutta l’autorità di pochi per mantenere un’apparenza di ordine. Quanto tempo durerà? Quanto tempo sopporteremo l’orrore che cresce dentro di noi?
Del barilotto di acqua che ci hanno consegnato in stazione rimane soltanto un deposito di liquido rovente, immondo. Fa talmente caldo che, nonostante i nostri sforzi per resistere e la disciplina che abbiamo saputo mantenere, abbiamo già bevuto la metà che non si è rovesciata nella calca della partenza. Ho la gola terribilmente secca. Non ho mai avuto tanta sete. E non devono essere neanche le dieci.
Il treno rallenta.
Una stazione?
Tendo il collo verso lo spiraglio, cerco di scorg...