Più di due mesi dopo
Festa per la scarcerazione di JW. Il ragazzo era uscito di prigione da meno di ventiquattr’ore.
Hägerström avrebbe potuto mostrare il suo distintivo di poliziotto ed entrare senza problemi. Poi gli venne in mente che al momento non aveva nessun distintivo. Decise invece di fare il nome di JW al buttafuori, e fu subito ammesso alla festa. Non che JW fosse particolarmente noto in un posto del genere: il ragazzo era pur sempre stato al fresco per più di cinque anni. Ma esistono vari modi per imbucarsi. Il più efficace si chiama “scucire dei soldi”.
Stureplan: l’unico quartiere di Stoccolma adatto all’élite festaiola della città. Il locale si chiamava Sturekompagniet. Era quanto di più lontano dalla cosiddetta “Legge di Jante”, secondo cui nessuno è migliore degli altri. Un posto che tutti amavano odiare, ma a cui tutte le persone sotto i trent’anni sognavano di accedere con un pass da VIP. Era top class, alla moda ed etero-orientato all’ennesima potenza.
JW era venuto qui, sei anni prima, per cercare la sua chance di successo. Per diventare l’imperatore dei rampolli dei ricchi, il re dei fighetti, il signore e padrone del giardino di Stoccolma. E c’era riuscito diventandone il principale fornitore di cocaina. JW era il pusher di lusso che tutti volevano conoscere, il figo con i capelli impomatati che faceva il bagno nei soldi. Poi, improvvisamente, era precipitato. L’eterna regola non poteva avere migliore conferma: più in alto sali, più rovinosa sarà la caduta.
Hägerström era curioso di sapere chi avesse invitato alla festa JW.
All’interno c’era quasi lo stesso caos che all’esterno. Uomini e donne di almeno dieci anni più giovani di lui. Ragazzi della provincia con i capelli incrostati di gel che sventolavano le loro carte di credito chiedendo se potevano usarle per pagare l’ingresso. La cassiera scuoteva la testa: «Cash only, ragazzi. Ma chi vi ha fatti entrare?». I più scafati s’intrufolavano dall’entrata dei VIP, con camicie sbottonate e jeans attillati, fingendo di essere davvero eleganti. In realtà le loro camicie erano flosce e le scarpe avevano le suole di gomma ma i buttafuori in abito scuro e guanti bianchi li facevano passare lo stesso. Grappoli di ragazze supertruccate e probabilmente minorenni non riuscivano a smettere di ridere, felici di essere entrate. Altre, con aria più sicura e borsette che costavano due stipendi da poliziotto, avanzavano a passi lunghi e sinuosi verso la cassa, un piede davanti all’altro, come su una passerella.
A Hägerström tornarono in mente le ragazze che aveva frequentato prima di conoscere Anna. Non appena volevano fare coppia fissa, o parlavano di vedersi più spesso, lui scappava. Sapeva già di essere attratto dagli uomini, anche se non aveva mai avuto relazioni stabili. Preferiva frequentare i locali per gay e qualche volta, nelle tiepide notti estive, era anche andato sulla collina di Långholmen.
Ma sperava ancora di potersi infiammare per le ragazze. Era più semplice. Ma la sola idea di un rapporto permanente con una donna gli metteva l’ansia.
Poi pensò alla sorella di JW. Aveva a lungo bazzicato Stureplan e poi era scomparsa. JW aveva cercato di rintracciarla. Cosa le era successo? E fino a che punto quell’esperienza aveva segnato il ragazzo?
Ritorno al presente. Era venerdì sera e Johan Westlund, JW, stava celebrando la sua scarcerazione. Festa grande per un ex principe di Stureplan.
Hägerström non riusciva a trovarlo. Girovagò in lungo e in largo per il locale, che era più grande di quanto ricordasse – erano passati otto anni dall’ultima volta che c’era stato.
Era molto tardi, Martin voleva che JW fosse ubriaco fradicio al suo arrivo.
Riuscì a farsi largo, con cautela e determinazione al tempo stesso, fra ragazzine e uomini della sua età che se le mangiavano con gli occhi. Le cicatrici sul ventre tiravano, anche se erano guarite.
La musica era martellante, una qualche eurotechno che non conosceva.
I lampadari di cristallo erano giganteschi.
Lo stroboscopio sulla pista da ballo catturava la gente in lampi di luce.
Pensò all’Operazione Ariel Ultra.
L’irruzione in casa Hansén era stata bruscamente interrotta. Quando Hägerström era fuggito dalla villa, si era pentito di aver parcheggiato il furgone della polizia penitenziaria così lontano e aveva temuto di non riuscire a raggiungerlo. Aveva perso almeno un litro di sangue.
Ma poi ne era stato contento, perché altrimenti gli aggressori l’avrebbero visto. E se JW l’avesse scoperto, tutta l’operazione sarebbe andata a rotoli.
Si era allontanato dalla villa guidando con una mano sola, l’altra premuta sul ventre. Era riuscito a percorrere poche centinaia di metri. Poi si era fermato e aveva chiamato l’ambulanza.
Il giorno dopo era stato visitato da una dottoressa dell’ospedale di Danderyd. La prima coltellata gli aveva procurato una ferita superficiale per cui bastavano tre punti. L’altra, esattamente sotto l’ombelico, era profonda cinque centimetri. Qui di punti ce ne volevano sei, ma era stato incredibilmente fortunato, gli aveva detto la donna. Mezzo centimetro più in là, e il suo fegato sarebbe stato distrutto per sempre.
Hägerström era tornato a Solberga tre giorni dopo. Con JW si era scusato dicendo che non aveva potuto riaccompagnarlo a causa di un terribile mal di stomaco. Il ragazzo non aveva detto nulla, forse non sapeva neppure che qualcuno si era introdotto nella casa di Hansén.
Purtroppo l’irruzione non aveva dato i frutti che Hägerström e Torsfjäll speravano. Non aveva avuto il tempo di cercare abbastanza prima di essere aggredito. Ma avevano capito almeno tre cose. Innanzitutto, Gustaf Hansén era legato agli affari di JW. Secondo, Gustaf Hansén era una persona ambigua. La villa in cui faceva base quando era in Svezia non era intestata a lui; e poi aveva un doppio sistema di allarme. Uno collegato a un normale servizio di vigilanza, l’altro a una “società” decisamente più violenta. Terzo: il promemoria nel computer di Hansén. “Cose da fare oggi: JW a pranzo, telefonare a Nippe, telefonare a Bladman, cena con Börje.” Poteva anche essere che i due nomi sconosciuti non avessero niente a che fare con tutta la storia. Ma anche che fossero importanti.
Tutte le antenne di Hägerström dicevano che nella villa c’era molto altro. Ma Torsfjäll voleva aspettare per la perquisizione.
Quando si era messo in contatto con la Taxi Stockholm si era fatto dare l’indirizzo della destinazione di JW e Hansén: ristorante Gondolen, dalle parti di Slussen. Il commissario aveva mandato un agente in borghese. Dopo pochi minuti, altri tre uomini si erano uniti a loro. L’agente non era riuscito a scattare foto nitide, ma aveva constatato che si trattava di un giovane e due uomini di mezza età, che parlavano svedese. Il tavolo era stato prenotato a nome di un certo Niklas Creutz. Probabilmente Niklas e Nippe erano la stessa persona. Fra l’altro Hägerström lo conosceva. Sua sorella, Tin-Tin, era amica della sorella di Nippe. Secondo tutte le convenzioni, Niklas Creutz non avrebbe dovuto trovarsi in compagnia di un reo confesso. Nippe apparteneva a una delle più facoltose e importanti famiglie della Svezia. Il clan dei Creutz possedeva il quinto più grande impero bancario-finanziario-imprenditoriale del paese. Strano.
JW andò incontro a Martin a braccia aperte.
«Secooondiiino, che bello vederti.»
Martin lo abbracciò a sua volta.
JW disse: «Al bar hanno la mia carta di credito, ordina quello che ti pare. Una volta questo era il mio locale preferito. Devo recuperare il tempo perduto».
Alle spalle di JW c’era il tavolo dei cocktail. Due grandi cestelli color argento pieni di ghiaccio con due magnum in ognuno. Calici da champagne vuoti. E poi bottiglie di acqua tonica, Coca-Cola e ginger ale, più due di vodka mezze vuote.
Intorno al tavolo sedevano otto uomini e quattro ragazze. Hägerström riconobbe tre dei maschi. C’erano Tok-Tim e Charlie Nowak, entrambi appena usciti di galera. Erano raggianti, felici quanto JW di poter respirare un po’ di aria fresca. Inoltre era un’esperienza di lusso, per gente come loro, stare seduti a bere in un locale del genere. Hägerström sperò che la sua improvvisa comparsa non li indisponesse.
Il terzo viso che riconobbe non lo colse di sorpresa, non troppo, almeno. Era Nippe.
Hägerström si chinò sul tavolo, salutò Tok-Tim e Charlie. Non sembravano infastiditi dal fatto che un secondino si unisse ai festeggiamenti. Forse sapevano che JW si era appoggiato a lui durante il soggiorno in carcere.
«Salve, ragazzi, ho chiuso anch’io con Salberga, lo sapevate?»
Lo guardarono con aria interrogativa.
«Mi sono licenziato.»
Esplosero in una risata. Alzarono le coppe di champagne. Brindarono alla libertà. Alla possibilità di chiudere dall’interno la porta del bagno per la prima volta dopo anni. Al fatto che sarebbero tornati all’assalto di Stoccolma.
JW presentò Martin agli altri. A parte Nippe, sembravano tutti ex compagni di galera. Martin lo capiva dagli sguardi indolenti, dai tatuaggi, dai jeans e dalle magliette attillate. Uno stile che qui stonava, esattamente come i capelli impomatati di JW stonavano nel carcere. O forse no, in fondo. Diede un’altra occhiata al locale. Non tutti erano ricconi all’ultima moda là dentro. Di molti si capiva che i soldi non venivano dalle professioni della finanza.
Nippe si chinò in avanti e salutò Hägerström.
«Ciao, mi chiamo Niklas Creutz.»
Un’altra parlata, la voce leggermente nasale. Quanto di più lontano si potesse immaginare dall’idioma del carcere.
«Tutti però lo chiamano Nippe. È un mio vecchio amico» disse JW.
«Piacere, Martin Hägerström.»
«Piacere mio. Sei per caso il fratello maggiore di Tin-Tin?»
«Sì, la conosci?».
«La più grande delle mie sorelle è una sua buona amica. Si chiama Hermine, l’hai mai incontrata?»
Hägerström annuì. Sorrise.
Sentirono l’affinità.
Matin si fissò l’obiettivo per quella serata: capire che cosa aveva a che fare Nippe con JW.
Non arrivarono molte persone alla festa di JW. Hägerström se ne dispiacque per lui, evidentemente il ragazzo non aveva molti amici. Più di cinque anni in galera, e solo otto persone erano venute a festeggiarlo, oltre a lui, ovviamente. Che però era un finto amico. Poi gli venne in mente che forse in tanti avrebbero voluto festeggiare JW, ma magari non se la sentivano di farsi vedere con lui in pubblico.
Hägerström si diresse verso il bar, cercando di farsi largo tra la calca. I provinciali sventolavano carte di credito, i parvenu biglietti da cinquecento. Gli ci vollero quindici minuti per riuscire ad avere l’attenzione del barista. Ordinò una bottiglia di Heineken. Disse di chiamarsi Johan Westlund e di aver bisogno della sua carta di credito. Il barista la trovò fra quelle che gli avevano lasciato. E la mise sul bancone.
Hägerström la prese. Le fissò per quattro secondi. Memorizzò il numero 3435 9433 2343 3497. MasterCard. Gold. Emessa da una b...