Vero all'alba
eBook - ePub

Vero all'alba

  1. 308 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Scritto tra 1954 e 1956, dopo un safari di cinque mesi in Kenia, questo "romanzo autobiografico" rimase inedito fino al 1999, quando Patrick Hemingway, figlio del grande scrittore, lo ritrovò tra i fondi della Kennedy Library di Boston. Si ritrovano in queste pagine le magiche atmosfere dei capolavori hemingwayani, da Verdi colline d'Africa a Le nevi del Kilimangiaro: i lunghi tramonti africani, i ruggiti delle belve nella notte, il vento che scende dalle montagne e scuote le tende. Con la sua scrittura limpida ed essenziale l'autore ci racconta l'emozione della caccia e i rituali del safari, trasmettendoci la sua profonda fascinazione per il continente africano e per la sua cultura. Nell'attesa della preda Hemingway ricorda poi i giorni trascorsi a Parigi e in Spagna, riflettendo sull'arte e il mestiere di scrivere. Il risultato è un autoritratto di straordinaria importanza per capire la personalità e l'arte di un grande scrittore del Novecento.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804513346
eBook ISBN
9788852019838

1

In quel safari niente era semplice perché in Africa Orientale le cose erano cambiate molto. Il cacciatore bianco era mio amico da molti anni. Lo rispettavo come non avevo mai rispettato mio padre, e lui si fidava di me, il che era più di quanto meritassi. Era comunque qualcosa di cui dovevo tentare di rendermi degno. Mi aveva istruito facendomi camminare con le mie gambe e correggendomi quando sbagliavo. Se commettevo un errore me lo spiegava. E se non commettevo lo stesso errore una seconda volta, spiegava un po’ di più. Ma era un nomade e ora ci lasciava perché c’era bisogno di lui, alla sua fattoria. Così in Kenia veniva chiamato un ranch di ventimila acri. Era un uomo molto complicato, fatto di coraggio assoluto, di tutte le buone debolezze umane e di una capacità assai critica e particolarmente sottile di capire la gente. Era tutto dedito alla famiglia e alla casa, ma per quanto amasse la moglie e i figli, preferiva vivere lontano da loro.
«Hai qualche problema?»
«Non voglio fare la figura dello stupido con gli elefanti.»
«Imparerai.»
«C’è altro?»
«Ricordati che tutti ne sanno più di te, ma sei tu a dover prendere le decisioni e a doverle fare rispettare. Lascia a Keiti la cura del campo e il resto. Dai il meglio di te.»
C’è gente che ama il comando e nell’ansia di assumerlo si innervosisce per le formalità imposte dal riceverlo da qualcun altro. Io amo il comando perché è la saldatura ideale fra libertà e schiavitù. Si può essere felici della propria libertà perché quando diventa pericolosa si trova rifugio nei doveri. Per molti anni non avevo esercitato nessuna forma di comando tranne che su me stesso, e ne ero stanco perché, conoscendo molto bene me stesso e i miei difetti e i miei punti di forza, sapevo che mi concedevano ben poca libertà e mi caricavano di molti doveri. Di recente ho letto con irritazione vari libri su di me, scritti da persone che ben poco sapevano della mia vita interiore, dei miei obiettivi e delle mie motivazioni. Leggerli è stato come leggere il resoconto di una battaglia in cui si è combattuto, scritto da qualcuno che non solo non vi ha partecipato, ma in certi casi, quando la battaglia ha avuto luogo, non era neanche nato. Tutta gente che scriveva tanto della mia vita interiore quanto di quella esteriore esibendo una sicurezza assoluta che io non avevo mai provato.
Ora avrei voluto che il mio grande amico e maestro Philip Percival la smettesse di comunicare con me nello strano sottintendere stenografico che era la nostra lingua ufficiale. Avrei voluto chiedergli cose che era impossibile chiedere. E soprattutto avrei voluto essere istruito con la stessa completezza e competenza con cui gli inglesi istruiscono i loro piloti. Ma sapevo che il diritto consuetudinario che prevaleva fra Philip Percival e me era rigido quanto il diritto consuetudinario dei Kamba. Era stato deciso molto tempo prima che potevo ridurre la mia ignoranza esclusivamente imparando da solo. Ma ero consapevole che d’ora in poi non ci sarebbe stato nessuno a correggere i miei errori e questo, nonostante la felicità che potevo provare nell’assumere il comando, riempiva la mia mattinata di solitudine.
Da molti anni ci chiamavamo a vicenda Pop. Agli inizi, più di vent’anni prima, al signor Percival non importava che lo chiamassi Pop, purché questa violazione delle buone maniere non avvenisse in pubblico. Ma dopo che avevo superato i cinquanta, diventando così un anziano o un Mzee, anche lui aveva cominciato a chiamarmi allegramente Pop, il che in un certo senso era un complimento elargito alla leggera, ma micidiale se mai fosse stato ritirato. Non riesco a immaginare una situazione, o meglio, non vorrei sopravvivere a una situazione in cui, in privato, io lo chiamo signor Percival e lui si rivolge a me usando il mio vero nome.
E così, quella mattina c’erano molte domande che avrei desiderato formulare e molte cose delle quali non ero sicuro. Ma come d’abitudine, su questi argomenti restammo muti. Io mi sentivo molto solo e lui naturalmente lo sapeva.
«Se non avessi problemi, non ti divertiresti» disse Pop. «Tu non sei un meccanico e ormai quelli che vengono chiamati cacciatori bianchi sono per lo più meccanici che conoscono la lingua del posto e seguono le piste aperte dagli altri. La tua conoscenza della lingua è limitata, ma siete stati tu e quei poco di buono dei tuoi compagni a tracciare le poche piste che esistono, e potrete tracciarne di nuove. Se non riesci a trovare la parola adatta nel tuo nuovo idioma, il Kikamba, parla in spagnolo. Piace a tutti. O fa’ parlare la Memsahib. Ha un vocabolario un po’ più ricco del tuo.»
«Oh, va’ all’inferno.»
«“Agli inferi io scenderò per approntare un posto per te.”»
«E gli elefanti?»
«Non degnarli di un solo pensiero» rispose Pop. «Bestie stupide ed enormi. Innocue, a quanto si dice. Ricordati solo come sai essere micidiale con tutti gli altri animali. Dopotutto gli elefanti non sono i tuoi mammut dal vello di lana. Non ne ho mai visti con una sola zanna, e per giunta a due curve.»
«Chi ti ha parlato di questa storia?»
«Keiti» rispose Pop. «Sostiene che fuori stagione ne abbatti a centinaia. Quelli e tigri con i denti a sciabola e brontosauri.»
«Keiti è un figlio di puttana.»
«No. Quasi quasi ci crede. Ha una copia della rivista, e quegli animali risultano molto convincenti. Penso che ci creda qualche giorno sì e qualche giorno no. Dipende da come spari in generale e se gli porti qualche faraona.»
«Si tratta di un articolo sugli animali preistorici, molto ben illustrato.»
«Sì. Molto. Splendide illustrazioni. Come cacciatore bianco ai suoi occhi sei cresciuto di statura, da quando gli hai detto che sei venuto in Africa solo perché al tuo paese ti era scaduta la licenza per la caccia ai mastodonti e avevi già superato il numero dei felini preistorici abbattuti. Gli ho detto che era la pura verità e che eri una specie di contrabbandiere d’avorio fuggito da Rawlins, nel Wyoming, un posto assai simile all’enclave di Lado dei vecchi tempi. Gli ho spiegato che sei venuto anche per venerare me, perché sono stato io ad addestrarti quando eri ragazzo, scalzo naturalmente, e per cercare di tenerti in allenamento finché non ti permetteranno di tornare a casa a chiedere una nuova licenza per la caccia ai mammut.»
«Pop, ti prego, dimmi qualcosa di sicuro sugli elefanti. Lo sai che toccherà a me abbatterli, se si comportano male e se questa gente mi chiede di occuparmene.»
«Ricorda semplicemente la vecchia tecnica che usavi con i mammut» disse Pop. «Cerca di piazzargli la prima pallottola sotto il secondo anello della zanna. Se lo scontro è frontale, sotto la settima ruga del naso contando a calare dalla prima ruga sulla parte superiore della fronte. Hanno fronti straordinariamente alte. Molto scoscese. Se sei nervoso, spara nell’orecchio. Scoprirai che è uno scherzo.»
«Grazie.»
«Non ho mai pensato che tu potessi non prenderti cura della Memsahib, ma prenditi cura anche di te stesso e tenta di fare il più possibile il bravo ragazzo.»
«Tenta anche tu.»
«Sono anni che tento.» Poi, la frase classica: «Ora tocca a te».
Infatti. Ora toccava a me, nella mattinata senza vento dell’ultimo giorno del mese che precedeva l’ultimo mese dell’anno. Guardai la nostra tenda e la tenda in cui consumavamo i pasti. Poi guardai le tende più piccole e gli uomini che si muovevano attorno al fuoco per cucinare e poi ancora i camion e la camionetta, che sembravano ghiaccio sotto l’abbondante brina. Poi, attraverso gli alberi, guardai anche la Montagna, che quella mattina appariva molto alta e vicina, con la nuova neve che scintillava alla prima luce del sole.
«Pensi che quel camion vada bene per te?» chiesi.
«Certo. La strada è buona, quando è asciutta.»
«Prendi la camionetta. A me non serve.»
«Ne avrai bisogno. Voglio riportare indietro il camion e mandartene uno più sicuro. Loro non si fidano di questo.»
Era sempre “loro”. Loro erano quella gente, i Watu. Un tempo venivano chiamati boys. Pop li chiamava ancora così. Ma lui li aveva conosciuti quando erano ancora veramente dei ragazzi, oppure aveva conosciuto i loro padri quando anche loro erano ragazzi. Vent’anni prima anch’io li avevo chiamati boys e né a loro né a me era mai passato per la testa che non avessi il diritto di chiamarli così. Nessuno ci avrebbe fatto caso, se avessi usato ancora quel termine, ma per come stavano le cose adesso, non lo usavo più. Tutti avevano un compito e tutti avevano un nome. Non conoscere un nome era segno di maleducazione e anche di trascuratezza. C’erano strani nomi di tutti i tipi e nomi abbreviati, e nomignoli amichevoli e ostili. Pop imprecava ancora contro di loro in inglese o in Swahili, e a loro piaceva. Io non avevo il diritto di imprecare e non lo facevo. Dai tempi della spedizione nella zona di Magadi condividevamo certi segreti e certe cose. Ora c’erano molte cose che erano segreti e c’erano cose che andavano oltre il segreto ed erano comprensione. Alcuni segreti non erano per niente gentili e altri erano così comici che mi capitava di vedere uno dei tre portatori d’armi scoppiare a ridere all’improvviso, e allora io lo guardavo e capivo di che cosa si trattava, e ridevamo tutti e due tanto forte che se tentavamo di controllarci cominciava a dolerci il diaframma.
Era una bella mattinata limpida, mentre attraversavamo la pianura con alle spalle la Montagna e gli alberi dell’accampamento. Sull’erba verde davanti a noi c’erano numerose gazzelle di Thomson, che brucavano sventagliando la coda. C’erano anche branchi di gnu e di gazzelle di Grant che si nutrivano vicino alle macchie di cespugli. Raggiungemmo la pista di decollo che avevamo costruito su una lunga radura aperta andando su e giù con la macchina e il camion sulla corta erba nuova e strappando i rami spezzati e sradicando i folti cespugli a un’estremità. L’alto palo ricavato da un giovane albero era inclinato per le violente raffiche d’aria della notte precedente e la manica a vento, ricavata da un sacco di farina, pendeva molle. Fermammo la macchina e io andai a tastare il palo. Malgrado l’inclinazione era solido, e la manica avrebbe ricominciato a svolazzare non appena si fosse alzata la brezza. Nel cielo correvano le nuvole ed era bello guardare la Montagna, che oltre il verde della radura sembrava ampia, immensa.
«Vuoi scattare qualche foto della Montagna o della pista?» chiesi a mia moglie.
«Certe mattine sono perfino più belle di oggi. Andiamo a guardare i licaoni e a cercare il leone.»
«Non sarà più fuori, ormai. È troppo tardi.»
«Potrebbe esserci.»
E così proseguimmo, seguendo le vecchie impronte di pneumatici che conducevano alla pianura salina. Sulla sinistra si apriva uno spazio interrotto da una fila irregolare di grossi alberi dalle foglie verdi e dal tronco giallo che segnava i confini della foresta dove poteva esserci il branco di bufali. Lungo i margini, c’era l’alta erba arida e c’erano molti alberi caduti, tirati giù dagli elefanti o sradicati dai temporali. Di fronte avevamo la pianura ricoperta dal verde della corta erba nuova, e sulla destra radure irregolari interrotte da isole di folti cespugli verdi e qua e là alti alberi dalle cime piatte. Ovunque c’erano animali che mangiavano. Quando ci avvicinavamo si allontanavano, spostandosi a volte in veloci galoppi improvvisi, a volte in trotti regolari, a volte venendo a mangiare poco lontano dalla nostra macchina. Ma si fermavano sempre per riprendere a nutrirsi. Quando procedevamo a quel m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Patrick Hemingway
  4. Vero all’alba
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Capitolo 12
  17. Capitolo 13
  18. Capitolo 14
  19. Capitolo 15
  20. Capitolo 16
  21. Capitolo 17
  22. Capitolo 18
  23. Capitolo 19
  24. Capitolo 20
  25. Elenco dei personaggi
  26. Glossario dei termini swahili
  27. Ringraziamenti del curatore
  28. Copyright