Ventimila leghe sotto i mari
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Ventimila leghe sotto i mari

  1. 456 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ventimila leghe sotto i mari

Informazioni su questo libro

Un grande classico riccamente illustrato a colori. Pierre Aronnax, professore al Museo di Storia Naturale di Parigi, il suo devoto domestico Conseil e l'infallibile fi ociniere Ned Land si imbarcano alla caccia di una sconosciuta creatura marina che infesta le acque affondando le navi. Ma cosa si nasconde veramente dietro le storie che si raccontano sul mostro? Una grande sorpresa li aspetta nelle profondità dei mari: è il Nautilus, un sottomarino pronto a "divorarli" per farli suoi ospiti. Lo guida il Capitano Nemo, uomo colto e sfuggente, enigmatico come gli abissi. Insieme percorreranno ventimila leghe sotto i mari, tra meraviglia, paura e infi nte scoperte. Un affascinante viaggio tra i misteri dei fondali, un'avventura senza tempo con cui l'inesauribile fantasia di Jules Verne ha aperto le porte alla fantascienza moderna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804565857
eBook ISBN
9788852021923

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Qui comincia la seconda parte del mio viaggio sotto i mari. La prima è finita con l’episodio del cimitero di corallo, che ha lasciato nel mio spirito una profonda impressione. Dunque, la vita del capitano Nemo si svolgeva interamente nel seno di quel mare immenso, e perfino la sua tomba era preparata nel più impenetrabile degli abissi. Laggiù nessun mostro oceanico sarebbe mai riuscito a turbare l’ultimo sonno degli appartenenti al Nautilus, di quei fedeli compagni uniti nella morte come nella vita. «E non ci riusciranno neppure gli uomini!» aveva detto in sostanza il capitano.
Sempre diffidenza da parte sua, aspra, implacabile, verso la società umana!
Io non mi accontentavo, ormai, delle ipotesi che soddisfacevano Conseil. Il giovane persisteva nel ritenere il comandante del Nautilus uno tra quegli scienziati misconosciuti che ripagano col disprezzo l’indifferenza dell’umanità. Secondo lui era un genio incompreso che, stanco delle delusioni terrene, aveva dovuto cercare in un mondo inaccessibile la libertà d’azione negatagli altrove. Ma, a parer mio, l’ipotesi spiegava solo in parte la realtà del capitano Nemo.
In effetti, i misteri dell’ultima notte nel corso della quale eravamo stati imprigionati, nel sonno, e la precauzione presa dal capitano con così tanta violenza di strapparmi dagli occhi il cannocchiale mentre mi accingevo a scrutare l’orizzonte, la ferita mortale di quell’uomo provocata dall’inspiegabile urto del Nautilus, tutto quanto mi spingeva a formulare una deduzione ovvia.
No, non voleva soltanto fuggire gli uomini! Il suo formidabile apparecchio sottomarino non serviva unicamente ad appagare un bisogno d’indipendenza, ma forse erano in gioco anche tremende contese e rappresaglie.
Per ora non vedo alcuna luce efficace per chiarire tale fenomeno, solo dei bagliori. E devo limitarmi a scrivere, per così dire, quello che dettano gli avvenimenti.
Qual è d’altra parte il nostro legame col capitano Nemo? Lui sa che evadere dal Nautilus è impossibile. Non siamo neppure prigionieri sulla parola. Nessun impegno d’onore ci incatena. Siamo prigionieri chiamati ospiti per una forma di cortesia. E intanto Ned non ha rinunciato alla speranza di riguadagnare la libertà. È certo che approfitterà della prima occasione che gli capiterà. Io devo senza dubbio fare come lui. Eppure, non senza una specie di nostalgia, porterò con me quella parte dei misteri del Nautilus che il capitano mi ha lasciato penetrare! Bisogna odiarlo questo uomo, in fin dei conti, o ammirarlo? È un carnefice o una vittima? E a essere sinceri, prima di abbandonarlo per sempre, vorrei aver compiuto questo giro del mondo sottomarino i cui inizi mi incantano. Vorrei aver osservato tutta la serie delle meraviglie nascoste sotto i mari, ciò che nessun uomo aveva ancora visto, dovessi pagare con la vita questo insaziabile bisogno di conoscere. Finora ho saputo ben poco: abbiamo percorso in tutto seimila leghe dell’Oceano Pacifico!
Il Nautilus ora sta avvicinandosi ai paesi civilizzati. Se ci si offrisse una probabilità di salvezza, non devo sacrificare i compagni alla mia passione per l’ignoto. Bisognerà seguirli nella fuga, o guidarli. Ma se ne presenterà mai l’occasione? In me l’uomo che la violenza ha privato del suo libero arbitrio desidera un’occasione simile; lo scienziato, l’uomo smanioso di conoscere ne ha timore.
Il 21 gennaio 1868, a mezzogiorno, il secondo ufficiale andò a rilevare l’altezza del sole. Salii sulla piattaforma, accesi un sigaro e seguii l’operazione. Ebbi la conferma che quell’uomo non sapeva il francese: varie volte feci ad alta voce riflessioni che avrebbero dovuto strappargli qualche segno d’interesse, se le avesse capite; invece lui restò impassibile e muto.
Intanto uno dell’equipaggio – l’uomo vigoroso che ci aveva accompagnati nella prima escursione sottomarina – venne a pulire i cristalli del riflettore. Esaminai allora l’apparecchio la cui potenza era moltiplicata da anelli lenticolari, che mantenevano la luce nel campo utile. E la luce si produceva nel vuoto, cosa che le assicurava insieme regolarità e intensità. Il vuoto economizzava inoltre le punte di grafite tra le quali si sviluppa l’arco voltaico: economia importante per il capitano Nemo, che non poteva rinnovarle facilmente.
Quando il Nautilus si preparò a immergersi, scesi nel salone. Il boccaporto venne chiuso, e si fece rotta verso ovest.
Solcavamo adesso l’Oceano Indiano, vasta pianura liquida di cinquecentocinquanta milioni di ettari, le cui acque sono così trasparenti da poter dare le vertigini a chi guardi dalla superficie. Il Nautilus procedeva in genere fra i cento e i duecento metri di profondità. Così per qualche giorno. A un uomo che non fosse come me appassionato del mare, il tempo sarebbe certamente parso lungo e monotono; invece le passeggiate quotidiane sulla piattaforma dove mi rigeneravo all’aria dell’oceano, lo spettacolo delle acque così piene di vita attraverso le vetrate del salone, la lettura dei libri della biblioteca, la stesura delle mie memorie occupavano interamente il mio tempo, e non mi lasciavano un momento di stanchezza o di noia.
Eravamo tutt’e tre in ottime condizioni di salute. Il regime gastronomico vi contribuiva largamente, e per quanto mi riguarda avrei fatto benissimo a meno delle variazioni che Ned Land – per spirito di protesta – si ingegnava ad apportarvi. Per di più a quella temperatura costante non c’era da temere nemmeno un raffreddore. Inoltre, la madreporaria dendrophillia, nota in Provenza con il nome di “finocchio di mare” di cui avevamo a bordo notevoli riserve, avrebbe fornito grazie alla carne solubile dei polipi che la costituiscono una pasta eccellente contro la tosse.
Nei momenti d’emersione incontrammo grandi quantità di uccelli acquatici, palmipedi, gabbiani o gavine. Alcuni vennero abilmente presi a fucilate e, cucinati in un certo modo, fornirono accettabili piatti di selvaggina. Tra i grandi volatori, che vanno molto lontano da qualunque terra e si riposano sulle onde dalla stanchezza del volo, notai magnifici albatros dal grido stridente come un raglio d’asino, uccelli che appartengono alla famiglia dei longipenni. La famiglia dei totipalmi era rappresentata da veloci fregate che rapivano d’un tratto i pesci in superficie; e numerosi fetonti o paglia in coda, fra gli altri quelli a fili rossi che hanno la grossezza dei piccioni e piume bianche sfumate in rosa, che fanno risaltare il nero delle ali.
Le reti fornirono svariate testuggini del tipo chelonia embricata. Questi rettili scendono facilmente in profondità e possono rimanere a lungo sott’acqua, chiudendo la valvola carnosa che sta all’orifizio del loro canale nasale. Alcuni, quando vennero presi, erano addormentati nel loro guscio al riparo da altre minacce. La carne era in generale mediocre, ma le uova squisite.
I pesci, ridestavano sempre la nostra ammirazione quando dai cristalli sorprendevamo la loro vita acquatica. Catalogai parecchi esemplari nuovi per me fino ad allora.
Ricorderò un tipo di ostracioni caratteristici del Mar Rosso, del Mar delle Indie e della parte d’oceano che bagna le coste dell’America equatoriale. Essi, come le testuggini, le tatuse, i ricci e i crostacei, sono protetti da una corazza non cretacea né calcarea, ma ossea. Prende a volte la forma di un solido triangolare, a volte di un solido quadrangolare. Fra i triangolari ne notai alcuni pressappoco di cinque centimetri, dalle carni nutrienti, sapore squisito, con la coda bruna e le pinne gialle; ne consiglierei l’allevamento anche nelle acque dolci, alle quali, d’altronde, un elevato numero di pesci di mare si abitua facilmente. Certi ostracioni quadrangolari avevano sul dorso quattro grossi tubercoli; altri erano costellati di macchioline bianche nella parte inferiore del corpo, e si lasciavano addomesticare come uccelli. Notai anche dei trigoni con aculei formati dal prolungamento della loro crosta ossea, ai quali il curioso grugnito ha valso il soprannome di “porci marini”; e dromedari con grosse gobbe a forma di cono, dalla carne dura e coriacea.
Nel registro quotidiano di mastro Conseil trovo annotati pesci del genere tetraodonti, tipici di questi mari: spengleriani dal dorso rosso e il petto bianco, caratterizzati da tre file longitudinali di filamenti, e pesci elettrici lunghi sette pollici dai colori vivaci. Poi, fra gli esemplari di altri generi, ovoidi realmente simili a uova bruno scuro, striati da piccole fasce bianche e sprovvisti di coda; diodonti (veri porcospini del mare) idonei a gonfiarsi in modo da formare una palla irta di aculei; ippocampi comuni a tutti gli oceani; pegasi volanti dal muso lungo, ai quali le pinne pettorali molto larghe e disposte come ali permettono, se non di volare, di slanciarsi nell’aria; piccioni spatolati, la cui coda è ricoperta da numerosi anelli squamosi; macrognati dalle mandibole allungate, ottimi da mangiare, lunghi venticinque centimetri, dai colori splendidi; callionimidi lividi, dalla testa rugosa. Blenni saltatori rigati di nero, dalle lunghe pinne pettorali, lanciati a velocità prodigiose; i deliziosi pesci vela, in grado di issare le pinne come vele spiegate alle correnti; bellissimi churti, che la natura ha tinto di giallo e celeste, di argento e d’oro; i tricopteri, le cui ali sono formate da filamenti; cotte sempre sporche di limo, che nuotando producono rumore; triglidi dal fegato ritenuto velenoso; serranidi che hanno un paraocchi mobile, e infine arcieri dal muso lungo e tubolare, veri acchiappamosche dell’oceano, armati di un fucile non previsto né da Chassepot né da Remington, svelti nell’uccidere gli insetti colpendoli con una semplice goccia d’acqua…
Nell’ottantanovesimo genere di pesci classificati da Lacépède, che appartiene alla seconda sottoclasse degli ossei, caratterizzati da un opercolo e da una membrana branchiale, notai la presenza della scorpena, con la testa munita di numerose spine e con un’unica pinna dorsale. Questi animali sono rivestiti oppure sono privi di squame, a seconda del sottogenere cui appartengono. Il secondo sottogenere ci offre esempi di didattili lunghi da tre a quattro decimetri, a strisce gialle, la cui testa ha un aspetto molto strano. Quanto al primo sottogenere, fornisce numerosi esemplari di questo bizzarro pesce, giustamente soprannominato “rospo di mare”, con la testa grossa ora solcata da seni profondi ora rigonfia di protuberanze; irto di spine e costellato di tubercoli, è munito di orrende corna irregolari; il corpo e la coda sono pieni di callosità; i suoi aculei provocano ferite pericolose, e l’aspetto è orribile e ripugnante.
Dal 21 al 23 gennaio il Nautilus percorse duecentocinquanta leghe al giorno, a ventidue miglia all’ora. Se potevamo riconoscere le diverse varietà di pesci era perché questi, attratti dalla luce elettrica, cercavano di accompagnarci. La maggior parte, distanziata dalla velocità, restava presto indietro; alcuni invece per un po’ di tempo fiancheggiavano il Nautilus.
Il 24 mattina, a 12° 5’ di latitudine sud e 94° di longitudine, avvistammo l’isola Keeling, rilievo madreporico coperto di begli alberi di cocco. L’avevano visitata Darwin e il capitano Fitz-Roy. Il Nautilus costeggiò a breve distanza quest’isola deserta. Le sue draghe procurarono molti campioni di polipi e di echinodermi, e interessanti gusci di molluschi. Alcuni preziosi prodotti della specie delle delfinule accrebbero i tesori del capitano Nemo; io vi aggiunsi una astrea puntifera, specie di polipo parassita che aderisce spesso a una conchiglia.
L’isola Keeling presto sparì all’orizzonte, e la prua fu messa a nord-ovest, verso la punta della penisola indiana.
— Terre civilizzate — mi disse quel giorno Ned Land. — Saranno molto meglio di queste isole della Papuasia dove si incontrano più selvaggi che caprioli! In questa terra indiana, signor professore, ci sono strade, ferrovie, e città inglesi, francesi e indù. Non si fanno cinque miglia senza incontrare un compatriota. Perbacco, non sarebbe allora il momento di togliere il disturbo al capitano Nemo?
— No, Ned, no — risposi in tono deciso. — Lasciamo correre, come dite voi marinai. Il Nautilus si avvicina ai continenti abitati. Torna verso l’Europa; lasciamo che ci conduca là. Una volta arrivati nei nostri mari, vedremo quel che la prudenza ci consiglierà di tentare. Del resto non credo che il capitano Nemo ci lascerebbe andare a caccia sulle coste del Malabar o del Coromandel come nelle foreste della Nuova Guinea.
— E allora, signore, non si può fare a meno del suo permesso?
Non risposi. Non volevo discutere. In fondo ci tenevo a sperimentare tutte le avventure del destino che mi aveva gettato sul Nautilus.
Lasciata l’isola Keeling, la nostra corsa rallentò. Divenne anche più capricciosa, e ci portò spesso a grandi profondità. Si usarono molte volte i piani inclinati, che leve manovrate dall’interno potevano muovere sulla linea di galleggiamento. Scendemmo fino a due o tremila metri, senza mai arrivare ai fondali estremi dell’Oceano Indiano che scandagli di tred...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ventimila leghe sotto i mari
  3. Parte prima
  4. Parte seconda
  5. Copyright