Roma
54 d.C. – 807 ab Urbe Condita
Nerone ha sedici anni
1
I passi risuonavano sul marmo del palazzo imperiale, nonostante Agrippina avesse ordinato al suo segretario Pallante, all’eunuco Aloto e al medico di corte Stertinio Senofonte da Cos di non indossare i calzari. Ma quella notte un silenzio pesante avvolgeva il palazzo, e perfino le colonne, le statue, gli affreschi parevano in ascolto.
Agrippina sapeva che erano solo il nervosismo e la sua immaginazione ad amplificare il rumore dei passi, ma quello che stavano complottando era un azzardo che avrebbe avuto conseguenze drammatiche, se l’imperatore lo avesse scoperto.
Quando la porta delle sue stanze si aprì, cercò di assumere il contegno che si addiceva a una donna del suo rango. Era Agrippina Augusta, figlia del grande Gaio Giulio Cesare Claudiano Germanico, nipote di Augusto e moglie dell’imperatore Claudio. Anche se stava per commettere un atto che avrebbe potuto costarle la vita, nessuna emozione doveva alterarle i lineamenti del volto.
«Mia signora» disse Pallante avanzando a capo chino.
Agrippina lo guardò con trepidazione. «Lei è qui?» gli chiese, mentre dal buio uscivano Aloto e Senofonte. L’eunuco, grasso e con l’aria perennemente preoccupata, pareva un gigante in confronto alla figura sottile e macilenta di Stertinio, sul cui viso baluginava uno sguardo indagatore, sempre a caccia di opportunità per metterlo in luce con i potenti.
L’imperatrice li ignorò, stringendo gli occhi per mettere a fuoco la quarta figura che attendeva oltre la porta, immobile e silenziosa.
«Sì, domina» rispose Pallante. «È qui.»
«Allora falla entrare!» sbuffò impaziente Agrippina, voltandosi e raggiungendo un tavolino di alabastro egizio con le gambe a forma di zampe di leone. Si sedette cercando di dissimulare l’agitazione, mentre Pallante faceva un segno e la figura ammantata d’ombra entrava a passi decisi.
Aloto richiuse la porta e vi si piazzò davanti, ostruendola con la sua mole imponente. Il medico di corte, invece, intrecciò le mani dietro la schiena e protese il lungo collo magro, simile a un avvoltoio in cerca di preda.
«Vieni, Locusta, siedi al tavolo con la tua imperatrice» disse Pallante alla figura avvolta in un lungo mantello. Agrippina notò che, contrariamente ai suoi modi soliti, Pallante non aveva afferrato la donna per un braccio, spingendola con decisione al suo posto. Si era limitato a indicarle lo sgabello dall’altra parte del tavolino e a restarsene immobile con uno sguardo cauto e attento.
La nuova arrivata aprì il mantello, se lo sfilò dalle spalle e lo porse con aria irriverente al potente liberto, che lo prese con espressione impassibile e lo tenne sul braccio.
Agrippina osservò la donna, famosa a Roma come avvelenatrice e temuta da quanti le attribuivano poteri soprannaturali. Locusta si sedette con movimenti fluidi, dimostrando un’agilità fisica in contrasto con la ragnatela di rughe che le increspava il volto. Si diceva che avesse quell’aspetto perché solita sperimentare di persona i suoi intrugli velenosi, per verificarne l’efficacia e acquisire immunità e: se al primo assaggio le provocavano conati di vomito, allora significava che erano pronti per essere venduti a chi volesse uccidere in modo rapido, silenzioso e senza lasciare traccia.
Agrippina scrutò quel volto e cercò di leggere oltre le rughe, oltre la luce scaltra e intelligente che brillava negli occhi scuri, oltre la piega ironica che stirava le labbra grigie, ma non vide altro che un profondo antro pieno di oscurità, e questo la innervosì.
page_no="12" «Posso fidarmi di te?» le chiese subito, senza inutili giri di parole.
Le labbra grigie si distesero in un sorriso sarcastico.
«Naturalmente» rispose l’avvelenatrice con voce roca. «Altrimenti non sarei qui.»
«Ci saresti venuta comunque» la contraddisse Agrippina. «Magari morta, ma non ti saresti potuta esimere.»
«Non è me che vuoi morta» sibilò Locusta divertita. «Non è così?»
Agrippina strinse appena gli occhi, ma non rispose. L’avvelenatrice annuì, poi inaspettatamente si guardò attorno, assunse un’espressione accigliata e chiese: «Dov’è tuo figlio?».
L’imperatrice si sentì attraversare da un brivido. «Lui non ha nulla a che fare con quello che sto per chiederti.»
Locusta la guardò direttamente negli occhi, con un’intensità da farla tremare. «Quindi non vuoi che ti faccia una profezia su di lui?» chiese. «Hai bisogno dei miei servigi solo come avvelenatrice?»
Agrippina aprì la bocca per rispondere, ma qualcosa nell’espressione di Locusta la bloccò. E in quell’istante si rese conto che l’avvelenatrice aveva compreso. Non l’aveva convocata soltanto per chiederle uno dei suoi prodigiosi veleni, ma soprattutto per capire se la strada che stava per intraprendere era corretta. Non avrebbe potuto rivolgersi agli aruspici, né consultare oracoli, perché non poteva certo rendere pubbliche le proprie intenzioni.
Si girò verso Pallante e lo trafisse con lo sguardo. «Uscite» ordinò. «Aspettate fuori.»
Pallante esitò, poco propenso a lasciarla sola con quella donna, ma non osò ribattere. Si diresse verso la porta facendo segno ad Aloto e Senofonte di seguirlo, e quando i tre furono fuori l’imperatrice prese un lungo respiro e tornò a girarsi verso l’avvelenatrice.
«Io ti parlerò di Lucio Domizio Enobarbo» esordì Locusta allungandosi leggermente verso di lei. «Ma prima tu devi dirmi cosa sei disposta a sacrificare perché tuo figlio diventi imperatore.»
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«Il suo nome è Nerone» affermò Agrippina, cercando di rimanere impassibile. «E quando sarà imperatore tutti lo chiameranno Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico.»
Locusta restò per un attimo a fissare l’imperatrice con aria indecifrabile. Poi si frugò tra le pieghe della veste ed estrasse da una tasca nascosta una piccola bisaccia di pelle, che appoggiò con cura sul tavolo.
«Raccontami della sua nascita» chiese, slegando con lentezza i lacci di cuoio della bisaccia. «Non quello che è stato inventato per i posteri» puntualizzò, «ma ciò che è accaduto veramente. Quello che hai visto tu, con i tuoi occhi di madre.»
Agrippina esitò, mordendosi un labbro. Aveva raccontato così tante volte quell’episodio, ammantandolo ogni volta di una luce nuova e diversa, che adesso non sapeva più distinguere fra realtà e invenzione. Del resto, le sue esagerazioni erano servite allo scopo e, ora che la lotta per la successione a Claudio era entrata nel vivo, erano proprio episodi come quello che colpivano l’immaginazione popolare.
«Mio figlio è nato a quindici giorni dalle calende di Ianuarius» disse, costringendosi a ricordare con imparzialità. «Proprio al levare del sole.»
«Prima o dopo l’alba?» le chiese Locusta, che nel frattempo aveva svuotato il contenuto della bisaccia sul tavolo e si era messa a rimestare con un dito fra ossicini di pollo, sassolini e grosse spine di pesce.
«Subito dopo» ammise Agrippina, dopo anni di menzogne. Secondo la leggenda popolare, che lei aveva contribuito a creare, Nerone era nato prima dell’alba, e subito era stato circondato da un alone fiammeggiante di luce, proveniente da una fonte invisibile, soprannaturale. In realtà il sole era già sorto quando la levatrice aveva reciso il cordone ombelicale, ma lei aveva fatto uccidere quella donna e tutti coloro che erano stati presenti durante il parto per poter ammantare di leggenda la nascita di suo figlio: le avrebbe fatto gioco, quando fosse arrivato il momento di portarlo sul trono.
L’avvelenatrice non sembrò particolarmente sorpresa e continuò a muovere il dito fra i sassi e gli ossicini, finché all’improvviso si fermò e tornò a fissare Agrippina.
«Quindi il sole l’ha sfiorato prima che lui toccasse terra» disse.
Agrippina si sentì percorrere da un brivido. Non riusciva a credere di non averci mai pensato.
«È così» si limitò a sussurrare.
Locusta riprese a rimestare con le dita fra i suoi oggetti magici.
«Sai cosa significa?» le chiese. Poi continuò, senza aspettare risposta: «Che tuo figlio è un predestinato. Erediterà la forza e lo splendore del sole, e guarderà gli uomini dall’alto, senza calcare la terra con i talloni, proprio come fanno gli imperatori».
Agrippina si sentì scuotere dall’eccitazione e comprese di essere stata una sciocca. Per anni aveva mentito, ucciso e ordito complotti per sostenere una menzogna, mentre la pura verità avrebbe dato ancora più forza a Nerone. Le parve incredibile che solo adesso, dalle labbra grigie di quella avvelenatrice rugosa, uscisse la verità sul destino di suo figlio... e sul suo, naturalmente.
Come se le avesse letto nel pensiero, Locusta raccolse alcuni ossicini, li mise da parte, poi disse: «Immagino che a te interessi non solo il destino di Lucio Domizio Enobarbo, ma anche il tuo, che secondo gli auspici è strettamente legato a quello di tuo figlio».
«Che cosa dicono le tue ossa, avvelenatrice?» chiese Agrippina serrando le mascelle. Non aveva gradito il tono saccente della donna, e cercò di riportare subito quella conversazione sul piano che le era più congeniale: lei comandava, e gli altri obbedivano.
Locusta sembrò avvertire il suo cambiamento d’umore, ma non parve turbata. Anzi, s’incurvò ancora di più sul tavolo e la trafisse con uno sguardo tagliente.
«Dimmi tu se vuoi che continui» sibilò.
Agrippina trattenne la rabbia e si ripromise di dare prima o poi una lezione a quella donna. Ma adesso aveva bisogno di lei.
page_no="15" «Va’ avanti» disse.
Locusta sorrise sprezzante, poi scosse la testa e chiuse gli occhi, mentre con le dita tracciava simboli a lei sola comprensibili.
Quando finalmente riaprì gli occhi, la fissò dicendo: «Sei sicura di voler conoscere la verità?».
«Se è il volere degli dèi, sì.»
Locusta annuì e mormorò: «Tuo figlio regnerà. Sarà lui il prossimo imperatore».
Agrippina si sentì inondare da un fiotto di soddisfazione, ma cercò di nasconderla quando si accorse che l’espressione di Locusta era solenne, come se non avesse terminato la profezia.
«Cos’altro devi dirmi?» le chiese.
«Tuo figlio sarà imperatore» ripeté l’avvelenatrice, «ma gli dèi mi hanno rivelato un altro scorcio di verità, che forse non ti piacerà altrettanto.»
«Parla» la sollecitò Agrippina.
Locusta la fissò. «Nerone ucciderà sua madre» rivelò alla fine.
Agrippina assorbì quelle parole restando impassibile, poi le sue labbra si allargarono in un lieve sorriso.
«Mi uccida pure» disse convinta. «Purché regni.»
3
«Abbiamo terminato con le profezie?» si risolse a chiedere dopo che Locusta ebbe raccolto i suoi ossicini, facendo sparire di nuovo la bisaccia fra le pieghe della veste. «Ti ho convocata soprattutto per un altro motivo.»
«Lo so» rispose l’avvelenatrice. «Hai bisogno di un veleno.»
«Non solo. Dev’essere qualcosa di potente e che non sia percepibile al palato.»
«Quanto potente?»
Agrippina ne sostenne lo sguardo. «Abbastanza da uccidere un uomo.»
Locusta sorrise, mostrando una chiostra di denti marci. «Da molti anni è la mia specialità» affermò.
page_no="16" «C’è un problema, però» la rintuzzò subito l’imperatrice.
«Quale?»
Agrippina batté con forza le mani, e la porta che dava accesso alle sue stanze si aprì quasi subito. Pallante mise dentro la testa, e lei gli fece un cenno. Poco dopo, il suo segretario personale la raggiunse al tavolino di alabastro, insieme all’eunuco e al medico di corte.
Agrippina indicò Aloto. «Sai chi è, vero?»
«Certo» rispose Locusta. «Il ben pasciuto assaggiatore imperiale.»
Prima che Aloto potesse replicare, Agrippina sollevò una mano per zittirlo, poi accennò un mezzo sorriso.
«Il tuo veleno dovrà uccidere un uomo» disse, «ma evitare che Aloto resti ucciso durante l’assaggio.»
Vi fu un momento di silenzio, mentre Locusta scrutava la mole flaccida dell’uomo. «È abbastanza robusto, nonostante tutto quel grasso» disse alla fine. «Resisterà a un boccone d’assaggio, se prima avrà preparato le sue viscere.» Osservò Aloto, poi Agrippina, e aggiunse: «A uno solo, però».
«Sarà più che sufficiente» intervenne Pallante.
«Bene» annuì Locusta, alzandosi pur senza essere stata congedata. «Te lo farò avere in giornata.»
«Un’ultima cosa» la fermò Agrippina.
«Dimmi, mia imperatrice.»
«Mio figlio non deve sapere niente. Nessuno, oltre a coloro che sono presenti in questa stanza, deve sapere niente. È chiaro?»
Locusta non rispose. Si limitò a fare un cenno di assenso, prima di coprirsi la testa con il mantello.
«Accompagnatela fuori» ordinò Agrippina. «Poi tornate qui. Noi non abbiamo ancora finito.»
4
Lucio Domizio Enobarbo afferrò con rabbia la statuina d’argilla che raffigurava un gladiatore nell’atto di affondare un colpo micidiale e la sollevò, con l’intenzione di scagliarla contro la parete e farla a pezzi.
page_no="17" «Ne sei proprio convinto?» gli chiese calmo Aniceto, il solo che avesse la pazienza di restare accanto al giovane figlio di Agrippina quando era infuriato. «Ci abbiamo messo parecchio a trovare quel gladiatore. La tua collezione ne risentirà irrimediabilmente.»
Lucio s’immobilizzò, la mano sollevata che stringeva la statuina, il corpo tremante per la rabbia e la frustrazione. Alla fine si sbloccò, abbassò la mano, ...