Avrò cura di te
eBook - ePub

Avrò cura di te

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Avrò cura di te

Informazioni su questo libro

Anche i genitori invecchiano, e per un figlio è sempre difficile accettarlo. È inevitabile sentirsi impreparati di fronte alle loro nuove debolezze, fragilità, continue richieste di attenzione. Ma è una situazione che prima o poi ogni figlio si trova ad affrontare. È di questo delicato momento che ci parla Sophie Fontanel raccontandoci della madre di ottantasei anni, la cui memoria va e viene, che ogni tanto cade e si fa male, che improvvisamente ha bisogno di cure continue e che non sa più stare da sola. L'autrice ci descrive come la sua vita di donna in carriera, indipendente, libera si trasformi radicalmente. I sensi di colpa, le preoccupazioni, le corse in ospedale, le vacanze cancellate all'ultimo momento. Ma Sophie Fontanel ci parla anche del grande amore che le unisce, della loro complicità, dei segreti, delle confidenze, di quel rapporto unico e speciale che solo una madre e una figlia hanno. E di come in un momento come questo, in cui le parti sembrano invertite, in realtà un figlio ha ancora tanto da imparare dal proprio genitore. Perché "a quanto pare si diventa grandi molto tempo dopo che si ha finito di crescere."

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Avrò cura di te di Sophie Fontanel in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804611448
eBook ISBN
9788852019104
Sophie Fontanel

AVRÒ CURA DI TE

Traduzione di Teresa Albanese
Mondadori

Avrò cura di te

Per Vincent e Ludovic

Di questi tempi, quando penso a quello che sto tentando di salvare, sento di avere tanto bisogno di aiuto e comincio a tremare. Aiutare qualcuno, adesso lo so, significa avere a propria volta bisogno di essere aiutati. In questi giorni, come una carta assorbente, bevo la simpatia che gli altri mi dimostrano, e la minima gentilezza mi fa sentire amata. Non sono mai stata tanto attenta al prossimo, io che ho fondato la mia vita sulla libertà. Da qualche tempo mi vengono idee nuove, per esempio su cosa significhi “essere presenti”. Continuo a pensare che un giorno sarò anziana anch’io, attraverserò anch’io una soglia oltre la quale dovrò rimettermi alla benevolenza degli altri. Quando quel giorno verrà, chi potrà fare per me, in questo mondo, quello che faccio io per mia madre? Chi ci sarà per me? Chi mi sosterrà quando sarò io a diventare vulnerabile? Dovrò uccidermi, per colpa di quella particolare mancanza di amore che è l’assenza di aiuto?
La guardo, questa donna sfinita di ottantasei anni, dopo che l’ho coperta di affetto, giunchiglie per la sua casa, cure, parole di conforto, un nuovo vestito, la torta dei re magi, caramelle allo zenzero, chiacchiere su come va il mondo, episodi romanzati della mia vita quotidiana, fede incrollabile nel fatto che al giorno d’oggi le persone vivono così a lungo che non si può mai dire, e che in fondo è diventato impossibile porre dei limiti. Giuro che ha un aspetto favoloso. La guardo, e davanti alla sua ritrovata spensieratezza, alla battuta che ha di nuovo la malizia di fare, mi dico: “Ancora uno sforzo e non morirà”.

Cos’è l’immortalità? L’immortalità, mi spiega, è quando guardi un film pieno di vita, con il lieto fine, i colori belli e moderni del Cinemascope, il giallo zafferano, il rosso vermiglio, il turchese, e realizzi che gli attori sono tutti morti. Adesso lo sa, al contrario di me. Mi aspetta al varco, con questa sua nuova saggezza, come un giocatore di scacchi paziente ma sicuro della propria mossa. “È la realtà” ha l’aria di dire. Io invece mi batto, le suggerisco che l’immortalità è meglio di quanto creda, è quello che resta dell’amore quando la persona se ne è andata. Aggiungo: «Be’, che cosa ne pensi della mia teoria?». La provoco con la mia tenerezza illimitata. Lei si concentra. Il concetto deve raggiungere il suo cervello, un luogo in cui, da qualche tempo, le distanze da un punto a un altro sono considerevoli. Riflette un paio di secondi, poi il suo volto si illumina. Annuisce, è d’accordo. Approva a tal punto che inclina la testa di lato, come faceva una volta per contemplare un lavoro finito, un albero di Natale, l’imbastitura di una gonna, imprese di cui si può andare fieri. «Non è sbagliato quello che dici» riflette. In quel momento mi sento così orgogliosa di me stessa, così in gamba.
Altre volte fallisco, sbaglio la mira, così fatalmente come a lei capita di cadere, non troppo lontano dalla poltrona, ma nemmeno, ahimè, al posto giusto. Non è più possibile imbrogliarla. L’unico potere che resta a questa donna, in passato così autorevole, è quello di interrogarci sulla vita e la morte per valutare se conosciamo la questione approfonditamente quanto lei. Per verificare se per caso possiamo aggiungere qualcosa. Una trovata qualsiasi la salverebbe dal naufragio.

A chi entra nella stanza e se la trova di fronte, appare per primo il suo sorriso. I capelli corti, folti, morbidi, sottili e bianchi fluttuano intorno a un volto che è diventato pura luce. Da giovane era castana, ma sognava di avere i capelli biondi e una carnagione chiara, francese. Oggi i suoi capelli hanno il colore della madreperla, come quelle conchiglie che i bambini raccolgono perché sono le più belle, le più bianche. La sua pelle è immacolata, e le macchie cutanee non riescono a renderla meno luminosa. Il volto solcato dalle rughe non è il segno fatale che la sua fonte ormai è prosciugata: sono rughe utili, che le permettono di sorridere. È all’apice della sua bellezza. Questa idea che l’età imbruttisca le donne non è forse una delle bugie più lampanti?
Sorride. Riconosco quel sorriso. È il sorriso dei suoi genitori, che erano armeni, stranieri in Francia, e con quel sorriso esprimevano la loro nobiltà. Con quel sorriso volevano dire: “Noi sì che abbiamo accesso allo splendore del mondo”. Era il sorriso delle persone oneste, che crederanno sempre nella bontà dell’uomo. Il sorriso che dice anche: “Non mi fate del male”, “Non vi voglio alcun male”, “Anche se sto male, mi sforzo di onorarvi”. Il sorriso radicato nei miei come un gene. Il sorriso di chi ha un’eleganza traboccante, ammesso che per eleganza si intenda quello che intendo io: capacità di accogliere l’altro.
Da piccola, quando tenevo il broncio, mia madre mi diceva: “Fammi un sorriso”. Ma io mi rifiutavo con ogni briciolo della mia collera, con ogni briciolo della mia ambiguità e della mia tristezza. Non volevo, neanche per sogno. Ma che cosa potevo fare, davanti alla richiesta di mia madre? Si chinava su di me, che ero così piccola, e le sue preghiere mi facevano sentire una divinità, investita prima del potere di scontentarla e poi, quando i miei slanci distruttivi cessavano, del piacere di aprirmi finalmente in un sorriso.

Sono circondata da donne più giovani, con madri in perfetta forma che lavorano, si innamorano ed esercitano la propria autorità. Alla loro età, la figura materna è invadente e bisogna disfarsene. Ascolto intenerita i lamenti delle mie amiche. Le esasperanti insistenze delle madri, le domande che fanno uscire dai gangheri, e che solo loro possono fare, le riflessioni su come ci si veste e ci si pettina, il loro sguardo sugli uomini, il risentimento nei confronti di un padre o l’immagine neutra e disincantata che ne riflettono, gli obblighi avvilenti che impongono, pranzi in famiglia, telefonate di auguri, persone da chiamare, doveri che una figlia dimentica facilmente, e infatti se ne frega. La madre, una palla al piede. Un peso da portarsi dietro. Come io ho fatto per anni. Pensavo che mia madre mi impedisse di vivere, che non mi lasciasse prendere il volo, che i miei fallimenti fossero colpa sua e le conquiste una vittoria solo mia, la mia scrittura, la mia immaginazione. La mia esistenza.
In realtà, da bambina e da adolescente ero molto legata a lei, la consideravo la mia migliore amica. Dopo mia madre, non ne ho mai più avuta una. Il nostro legame era molto forte, e altrettanto forte è stata la mia ribellione. Verso i diciotto anni, provavo solo rancore nei confronti di una madre che non aveva mai mentito, ma taceva troppo spesso le lodi, i “sei bella” che una figlia ha bisogno di sentire. Ho dovuto scoprire da sola le mie qualità. Il mio corpo era la cosa migliore che avessi. Niente da fare, lei del corpo non parlava mai. La credevo estranea ai piaceri della carne. Pensavo che dell’amore non sapesse niente. L’ho giudicata per questo. Aveva saputo amare solo i propri figli. E poi credevo che preferisse mio fratello. Diceva che era splendido. “Tuo fratello ha una pelle di albicocca.” E la mia? Un giorno ci siamo trovati in due a giudicarla: ci si è messo anche mio fratello. Pensava che mia madre preferisse me perché mi considerava intelligente. Insomma, lei che voleva essere imparziale e sincera si è trovata due figli contro.
Cosa resta, ormai, di quella ribellione? Quanto amo questa minuscola donna che si rifiuta di scomparire! Ho smesso di fare la guerra contro di lei. È una guerra al suo fianco, contro un nemico invincibile. Il tempo ci prende in ostaggio. Ucciderà una persona ogni ora.

I miei nipoti vengono a salutarla, avanzano verso di lei spintonandosi. Mi fanno l’effetto di due piccoli lama comprensibilmente tesi e nervosi davanti al pericolo, sul fianco ripido di una montagna. È davvero ripido, se ne rendono conto. Guardando mia madre, vedono con i loro occhi come ci riduce il tempo. Vedono che non esiste una spada magica. Che perfino il Signore degli Anelli si ferma alle porte di questo palazzo. E scoprono anche, fra l’altro, la misera fine dell’autorità degli adulti. Ogni volta che mio fratello muove a sua madre un rimprovero, loro sono sconvolti. Lei ne ride, dice: “Miei cari...” e spalanca le braccia. Loro la baciano e si ritraggono subito, ridacchiando per la soggezione e l’imbarazzo. Sono i primi a dispiacersi del fatto che sia vecchia. Sono affascinati perché lei appare inviolabile, malgrado le paternali che riceve da tutti. Qualcuno l’ha appena rimproverata di non bere abbastanza acqua. La trattano come una poppante. Quanto a lei, ripete ai suoi nipotini: “Miei cari...”. Tutto qui. Con le parole ha finito. Da adesso in poi, si accontenta di contemplarli, come fa con tutti, in questo periodo.
Il più piccolo fa qualche domanda. Ha undici anni. Sfida il mistero di quella donna per chiedere se ha bisogno di una coperta in più, se il cuscino è sistemato bene, se le piacerebbe un po’ di sciroppo nell’acqua, oppure, di punto in bianco, le propone il Pastis che lei gli ha insegnato a dosare. È bravo a indovinare, a imparare e a ricordare. Il più grande, che ha tredici anni, sfoggia un’aria distratta. Spiazzante come tutti gli adolescenti, si volta, dandole quasi le spalle, per evitare l’insopportabile, l’ammirazione altrui. Forse è perché potrebbe trarne dei benefici. Mia madre vuole toccare la sua pelle. Lui non sa come reagire. Non osa rifiutare. Tira su la manica del maglione. Tende un braccio esitante e lei lo sfiora con cautela.
Come i miei nipoti, anch’io sono sollecita e impaurita davanti all’amore.

Prima caduta di mia madre, quattro anni fa. All’epoca ero una principiante e credevo ancora che fosse possibile aiutare qualcuno senza votarsi a lui. Mia madre era per terra, e pensavo che sarebbe bastato sollevarla (con l’aiuto della portinaia) e rimetterla a letto perché tutto tornasse come prima. Credevo che sarebbe guarita da sola. Poi, invece, ho capito. Costretta a letto, con due fratture e qualche legamento strappato, mia madre si stava lasciando morire. Rifiutava l’ambulanza. Rifiutava il medico. Rifiutava le cure. Rifiutava di mangiare. Rifiutava l’acqua, forse temendo che vi avrei fatto scivolare delle gocce capaci di piegare la sua resistenza. Una porta blindata. Naturalmente rifiutava di sorridere, e da parte mia sarebbe stato stupido pretenderlo in un momento così critico.
Me ne andai. Uscii dall’ascensore singhiozzando per la mia inettitudine.
Ricordo che passai la notte senza dormire, a casa mia, pensando che non ce l’avrei fatta. A fare cosa? Ad aiutarla? A curarla? No? Perché mi sembrava la fine del mondo?
Non ce l’avrei fatta a dare, ecco. Da una madre ci si aspetta di ricevere.
Verso l’alba avevo abbandonato il condizionale. Ormai era un “non ce la farò”. Perlomeno esisteva un futuro. E il futuro cominciava già a diventare qualcosa di concreto. Alle otto del mattino era fatta, avevo accettato il mio destino. Mi alzai, corsi da mia madre, mi sedetti accanto al suo letto e, per la prima volta da quando ero piccola, le dissi: «Mamma, ti voglio bene. Sei la mia vita. E dato che ti voglio bene, che sei la mia vita, come faccio a lasciarti in questo letto, tutta sola? Non ce la farei mai. Senti, voglio che mi autorizzi a chiamare il dottore, che chiamerà un’ambulanza, così andrai all’ospedale e ti cureranno. Ti voglio bene. Ti darò coraggio, ce la farò. Ti può andare?».
Per un secondo indimenticabile aspettai la sua risposta.
«Sì, a tutto» mi annunciò lei. E più tardi, in ambulanza, aveva ritrovato il suo meraviglioso sorriso, nonostante le sofferenze che doveva sopportare: «Mi sorprendi, Sophie».
A quanto pare, si diventa grandi molto tempo dopo che si è finito di crescere.

Mi ha chiesto che cosa pensavo dell’esistenza di Dio. Ho risposto con una frase vaga che mi sembrava un sottile sofisma. Volevo iniziare un ragionamento sul fatto che in fondo nessuno lo sa, sulle potenze che potrebbero essere in gioco. In pratica, ho cercato di estrarre i conigli dal cilindro, come si fa per consolare chi, prima della fine, si affida a Dio. Lei, che mi conosce bene, ha chiesto, leggermente sorpresa dal mio improvviso esoterismo: «Adesso non mi dirai che ti sei messa a pregare?». «Scrivere è un po’ come pregare» ho risposto io, con la mano sul cuore.
Lei, allora, mi ha lanciato una di quelle occhiate che di solito riserva al nero, colore che le fa orrore. Ha detto: «Ah, be’... Non pregare per me, eh?». Le ho chiesto perché. Lei ha risposto: «Non vorrei che mi scoprissero». E ho capito che in questo periodo, come un ostaggio terrorizzato della sorte, si nasconde in fondo al vagone per non farsi prendere.
Per questo, lei che non amava il nero aveva preso l’abitudine di restare un po’ al buio, quando calava la sera. Non accendeva la luce. Alla fine mi ha confessato, con la testa girata verso il muro, perché quella ormai è la sua unica via di fuga, che forse nella penombra Dio non riesce a scorgere i ritardatari. «E di giorno?» ho chiesto, per farle notare l’assurdità del suo discorso. Ha risposto: «Di giorno, Dio ha troppe cose da vedere, i paesaggi e le persone che si agitano, perché dovrebbe notare me, che sono così piccola, che mi sono rimpicciolita tanto?». E ha aggiunto, speranzosa: «Non trovi che mi sia rimpicciolita?».
Da qualche tempo ha cambiato idea. Una sera, ha deciso di essere una stella. Come qualsiasi altra stella, brilla. La sua stella, mi ha spiegato, è una traccia vivace che, molto tempo dopo la fine della giovinezza, continua a brillare, e a quella giovinezza appartiene. A quel punto, quando arriva la sera è meglio accendere la luce. È proprio al buio che una stella si nota di più.
Ogni giorno che passa, questa donna che sta perdendo la memoria guadagna una lucidità implacabile.

Gli anziani non amano il Natale. Tanto per cominciare, non hanno la forza di unirsi all’allegria dei giovani, e questo li deprime. Inoltre non possono uscire a fare acquisti, e la mascherata dei regali sfila sotto il loro sguardo esperto. Per te, adulto autosufficiente, il nastrino da arricciare e le corse dell’ultimo minuto al negozio che il ventitré dicembre resta aperto fino a tardi per rimediare alla tua mancanza di organizzazione, possono essere seccature. La tua mancanza di entusiasmo, però, non è niente rispetto al malumore che coglie l’anziano verso la fine di dicembre.
Un anno, mia madre è caduta tre volte in una settimana...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Avrò cura di te
  3. Copyright